cassazione 8

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 28 febbraio 2015, n. 8711

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1209, 1210, 1218, 1220, 2043, 2740, 2910 cod. civ., 474 e 615 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ..

La ricorrente deduce che la Corte d’Appello non avrebbe fatto buon uso del principio di diritto espresso dalla sentenza a Sezioni Unite n. 26617/07, poiché ha escluso che l’inesistenza della mora debendi, in sé considerata (ed effettivamente ritenuta dal giudice di merito), potesse impedire la prosecuzione dell’azione esecutiva. A detta della ricorrente, l’inesistenza della mora debendi equivarrebbe ad inesistenza dell’inadempimento e quindi all’inammissibilità di qualsivoglia azione nei confronti del debitore, compresa l’azione esecutiva, per come si dovrebbe desumere dall’art. 1207 cod. civ..

1.1.- Col secondo motivo si deduce violazione degli artt. 2910 cod. civ. e 96, 100, 474 e 615 cod. proc. civ. nonché motivazione insufficiente, ai sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ., in relazione all’esistenza di un interesse ad agire in via esecutiva.

Secondo la ricorrente, mancando l’inadempimento del debitore, non vi sarebbe interesse ad agire esecutivamente nei suoi confronti; la mancanza dell’interesse ad agire, che è condizione di ogni azione, compresa quella esecutiva, ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ., ben avrebbe potuto essere rilevata con opposizione all’esecuzione, dato che si era dedotta la (sopravvenuta) carenza del diritto dei creditori a procedere esecutivamente; si sarebbe trattato di un’opposizione fondata non su un fatto estintivo dell’obbligazione, ma su un fatto impeditivo dell’azione esecutiva.

1.2.- Col terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e 2 Cost., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., e motivazione insufficiente e contraddittoria in punto di correttezza del comportamento del creditore che procede in via esecutiva dopo avere ingiustificatamente rifiutato la prestazione. La ricorrente deduce che, mentre il suo comportamento sarebbe stato improntato a correttezza e buona fede, non altrettanto sarebbe stato quello dei creditori, che hanno ingiustificatamente rifiutato di accettare il versamento integrale del dovuto nella forma dell’assegno circolare; che, pertanto, questo comportamento, contrario ai principi di correttezza e buona fede, nonché al canone costituzionale del giusto processo, andrebbe sanzionato per abuso del processo ed ingiustificato utilizzo dei mezzi processuali a disposizione del creditore, con aggravamento della posizione del debitore. Il rimedio sarebbe dato, secondo la ricorrente, dall’opposizione all’esecuzione.

2.- I motivi che, per evidenti ragioni di connessione, vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.

La Corte d’Appello, nell’interpretare le norme sull’offerta e sul deposito, in caso di mora del creditore, sia a seguito di offerta formale che a seguito di offerta non formale, ha preso le mosse dal presupposto – giuridicamente ineccepibile – che il procedimento delineato dagli artt. 1206 e seg. cod. civ. non si esaurisce se non quando il deposito sia stato accettato ovvero riconosciuto valido con sentenza passata in giudicato. La Corte d’Appello ha, quindi, accertato in punto di fatto che il procedimento che avrebbe condotto alla liberazione della debitrice, odierna ricorrente, non si è concluso positivamente, quanto all’offerta formale, perché, con sentenza passata in giudicato, il deposito non è stato convalidato; quanto all’offerta non formale, perché non seguita da alcun altro adempimento idoneo all’estinzione dell’obbligazione.

D’altronde, la ricorrente sostanzialmente conviene con questo accertamento in fatto e con la conseguenza della mancata estinzione dell’obbligazione.

Soltanto, sostiene che, anche quando l’obbligazione non sia estinta, il creditore non potrebbe agire comunque in executivis se il debitore non sia inadempiente o non sia in mora debendi; quindi, sarebbero errate le conseguenze tratte dalla Corte territoriale rigettando l’opposizione all’esecuzione, che invece avrebbe dovuto essere accolta per (sopravvenuta) insussistenza del diritto dei creditori di agire esecutivamente e/o per (sopravvenuta) mancanza dell’interesse ad agire esecutivamente.

2.1.- Quanto sostenuto col primo e col secondo motivo è privo di giuridico fondamento.

La legittimazione e l’interesse ad agire esecutivamente sono correlati alla sussistenza di un diritto di credito certo liquido ed esigibile consacrato in un titolo esecutivo ex art. 474 cod. proc. civ., in forza del quale è iniziata e proseguita l’azione esecutiva, al fine di ottenere la soddisfazione integrale della pretesa creditoria. Fintantoché vi è un titolo esecutivo valido ed efficace, e il diritto di credito esiste, l’azione esecutiva è legittimamente intrapresa e proseguita, tanto che non può sussistere nemmeno la responsabilità processuale del creditore procedente ai sensi dell’art. 96, comma secondo, cod. proc. civ. (cfr. Cass. n. 18533/07). Legittimato all’esercizio dell’azione esecutiva è colui che – oltre ad avere un titolo esecutivo valido ed efficace in suo favore – abbia (anche) la titolarità di un diritto di credito, oltre che liquido ed esigibile, certo, quindi attualmente esistente, e non ancora estinto.

L’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro si estingue per adempimento o con altro modo di estinzione diverso dall’adempimento, tra quelli tipici previsti dagli artt. 1230 e seg. cod. civ.

Qualora il creditore rifiuti il pagamento offertogli senza motivo legittimo – come nel caso di specie – si ha la mora credendi, se l’offerta è fatta in uno dei modi previsti dagli artt. 1208 e 1209 cod. civ..

Gli effetti della mora del creditore sono contemplati dall’art. 1207 cod. civ..

Contrariamente a quanto si assume in ricorso, tra questi effetti non vi è affatto l’estinzione dell’obbligazione principale.

Pertanto, con la mora del creditore non viene meno il diritto dello stesso creditore di agire esecutivamente nei confronti del debitore.

Qualora invece il rifiuto illegittimo del pagamento sia riferibile ad un’offerta non formale, non si ha nemmeno la mora credendi, ma gli effetti sono quelli dell’art. 1220 cod. civ., vale a dire l’esclusione della mora debendi.

Soltanto questi sono gli effetti che, nel caso di specie, si sono avuti a seguito dell’applicazione del principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26617/07 (“Nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 Euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo, da valutare secondo le regole della correttezza e della buona fede oggettiva; l’estinzione dell’obbligazione con l’effetto liberatorio per il debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell’inconvertibilità dell’assegno”), al quale la Corte d’Appello di Firenze si è dovuta uniformare ai sensi dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ..

Applicando detto principio si è esclusa la mora della debitrice, ai sensi, appunto, dell’art. 1220 cod. civ., ma l’obbligazione dell’odierna ricorrente non si è estinta.

2.2.- In proposito, non può che essere ribadito il principio per il quale, mentre ogni offerta di adempimento vale ad escludere la mora del debitore, ove quest’ultimo voglia conseguire l’effetto più ampio della liberazione dall’obbligazione è tenuto a far seguire l’offerta dal deposito, secondo la disciplina degli artt. 1208 e seguenti cod. civ., nonché da tutti gli adempimenti conseguenti specificati dall’art. 1212 cod. civ. (cfr., di recente, Cass. n. 25775/13, nonché già Cass. n. 7555/96). Questa massima (così come numerose altre, tra cui Cass. n. 15395/10) non va intesa nel senso per la liberazione del debitore, sarebbero sufficienti l’offerta ed il deposito eseguiti nel rispetto delle relative formalità; piuttosto, essa presuppone che, effettuati tali adempimenti, segua, in caso di mancata accettazione dell’offerta e del deposito da parte del creditore, la sentenza di convalida, alla quale soltanto consegue la liberazione coattiva del debitore (cfr. Cass. n. 23844/08, secondo cui “Il procedimento di convalida dell’offerta reale e del successivo deposito liberatorio, relativi ad obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro, é un giudizio di liberazione coattiva del debitore, essendo la sentenza che lo definisce volta ad estinguere, con efficacia costitutiva, il debito, accertando la validità del deposito, ai sensi dell’art. 16 e seguenti disp. att. cod. civ., a favore del creditore; oggetto di tale procedimento é la verifica della ritualità di tutte le modalità, formali e temporali, prescritte dalla relativa disciplina normativa affinché il debitore si liberi delle sua obbligazione e, pertanto, parti necessarie del detto procedimento sono soltanto il debitore e il creditore”). Di recente questa Corte ha avuto modo di riaffermare che il procedimento di convalida dell’offerta reale o dell’offerta per intimazione e del successivo deposito libera il debitore dalla sua obbligazione soltanto quando il deposito è accettato dal creditore o è dichiarato valido con sentenza passata in giudicato, ai sensi dell’art. 1210, comma secondo, cod. civ., non essendo sufficiente per la liberazione coattiva del debitore che questi abbia rispettato le modalità, formali e temporali, prescritte dalla disciplina dell’offerta e del deposito contenuta nel codice civile e nelle disposizioni di attuazione, se non seguite dal giudizio di convalida, conclusosi positivamente (Cass. n. 302/15).

Si tratta di principio che qui si ribadisce e che si pone in linea di continuità con l’orientamento già espresso da questa Corte, con l’affermazione che “mora accipiendi e liberazione del debitore non coincidono, in quanto la costituzione in mora e la conseguente offerta di restituzione valgono unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 cod. civ. nel passaggio del rischio della cosa a carico del creditore, nella cessazione del corso degli interessi, nel particolare regolamento della corresponsione dei frutti, negli obblighi di risarcimento del danno propter moram e di rimborso delle spese, tra gli effetti della mora del creditore non vi è la liberazione del debitore, subordinata, dalla legge, all’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato” (così Cass. n. 367/95, nonché già Cass. n. 1790/74). Corollario di questo principio è quello per il quale “fintantoché il debitore non è liberato dall’obbligazione con l’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato, il creditore è legittimato all’azione esecutiva, anche se costituito in mora credendo”.

3.- Si ammette che la convalida del deposito possa essere chiesta dal debitore anche in altro giudizio già pendente col proprio creditore (cfr. Cass. n. 1496/65) o comunque all’interno di un procedimento arbitrale o con atto negoziale (cfr. Cass. n. 7520/03). Di recente, questa Corte ha altresì presupposto che la convalida ai fini della liberazione del debitore dall’obbligazione restitutoria possa essere chiesta anche in sede di opposizione a precetto (Cass. ord. n. 14155/14) ovvero di opposizione all’esecuzione, formulando apposita domanda e fornendo la prova dei fatti allegati (Cass. n. 302/15). Nel caso di specie, non solo non risulta proposta una domanda siffatta nel presente giudizio, ma risulta altresì essersi formato il giudicato sulla sentenza conclusiva di altro giudizio tra le stesse parti, con la quale si è accertata la validità dell’offerta reale, ma si è rigettata la domanda di convalida del deposito, per essere stato questo ritirato dalla debitrice, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1213 cod. civ..

I primi due motivi di ricorso vanno perciò rigettati.

4.- Con riferimento al terzo motivo di ricorso si osserva che il rimedio che l’ordinamento riconosce al debitore che sia assoggettato ad esecuzione ingiusta è la condanna della controparte al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96, comma secondo, cod. proc. civ..

L’esecuzione è ingiusta soltanto quando sia accertata l’inesistenza del diritto per il quale il creditore ha agito in executivis. Come detto sopra, se questo diritto esiste, non è configurabile una responsabilità processuale aggravata per colpa in base all’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ. – che è la responsabilità in cui incorre la parte che inizia l’esecuzione forzata per la realizzazione coattiva di un credito che non ha (così Cass. n. 18533/07).

Tuttavia, con quest’ultima sentenza, questa Corte ha affermato che, in presenza di un eccesso nell’impiego del mezzo esecutivo connotato da dolo o colpa grave, è giustificata non solo l’esclusione dall’esecuzione dei beni sottopostivi in eccesso (con richiesta al giudice dell’esecuzione della riduzione del pignoramento), ma anche la condanna del creditore procedente per responsabilità processuale aggravata, ai sensi però del primo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. – che è la responsabilità in cui incorre la parte che, con mala fede o colpa grave, pone in essere un atto del processo, in una situazione in cui non ne ricorrono le condizioni e per conseguirne indebitamente gli effetti (cfr. Cass. n. 18533/07 cit.); in una parola, la parte che abusa del processo (anche esecutivo).

4.1.- Col terzo motivo ricorso si censura la sentenza – quanto alla mancata considerazione del comportamento dei creditori contrario a correttezza e buona fede – soltanto perché la Corte d’Appello non ha accolto l’opposizione all’esecuzione, quindi la domanda volta a fare dichiarare la nullità o l’inefficacia del pignoramento, e ad ottenere l’ordine di cancellazione della trascrizione. Né nell’intestazione del motivo, né nella sua illustrazione si fa cenno a profili di responsabilità dei creditori ai sensi dell’art. 96, comma primo, cod. proc. civ..

Così come proposto, il motivo non merita di essere accolto.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese poiché gli intimati non si sono difesi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese del giudizio di cassazione.

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