La Massima

Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali . Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale.

Il testo integrale sentenza 24 ottobre, n. 21982


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III

Svolgimento del processo

La ———– s.r.l. convenne in giudizio dinanzi al Pretore di Roma l’Università degli Studi di Roma “———-” sostenendo di aver effettuato nei confronti di quest’ultima diverse forniture di dispositivi medici dal gennaio 1989 all’aprile 1994 e di aver ricevuto i relativi pagamenti con notevole ritardo.

L’attrice chiese pertanto la condanna della convenuta al risarcimento dei danni subiti in relazione al ritardato pagamento delle fatture emesse a seguito delle forniture di cui sopra e quantificò tali danni nella somma (Euro 19.713,09) risultante dalla differenza tra gli interessi corrisposti alle banche sull’importo delle fatture insolute, per tutto il periodo di mora, e gli interessi legali ad essa riconosciuti nei decreti ingiuntivi ottenuti.

L’Università degli Studi “——–” chiese il rigetto della domanda attrice.

Il Tribunale civile di Roma, con sentenza n. 14398/2001 dell’11 aprile 2001 rigettò la domanda della ———– avendo accertato che quest’ultima aveva fatto ricorso al sussidio bancario già prima del sorgere dei crediti vantati. Nè la ———— aveva provato, secondo il Tribunale, che, in conseguenza del ritardato pagamento, aveva dovuto far ricorso ad una maggior somma di autofinanziamento.

In altri termini, il Tribunale sosteneva che la domanda dell’attrice doveva essere rigettata, non avendo quest’ultima fornito alcun elemento di prova sul punto relativo all’aggravamento della sua situazione debitoria, in relazione al profilo dell’autofinanziamento ed in conseguenza del ritardato pagamento dei suoi crediti.

Proponeva appello la ————- s.r.l.

Resisteva l’Università degli Studi di Roma “————-“.

Nel corso del giudizio era espletata una C.t.u..

Con sentenza n. 2911/2008 la Corte d’Appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame proposto dalla ———— s.r.l. ha condannato l’Università degli Studi di Roma “”————” a pagare alla attuale ricorrente, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, la somma di Euro 8.119,39 oltre interessi dalla notifica della sentenza al saldo, riconoscendo la corresponsabilità della stessa ———- s.r.l. ai sensi dell’art. 1227 cpv. c.c., nella misura del 50%.

Propone ricorso per cassazione la ————- s.r.l. con tre motivi.

Resiste con controricorso e propone ricorso incidentale l’Università degli Studi di Roma “———” – —————-

Motivi della decisione

I ricorsi devono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale parte ricorrente denuncia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1227 e 2055 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto. “1) Può il Giudice di merito – dopo aver constatato e dichiarato che un soggetto creditore ha subito pregiudizio economico in conseguenza del ritardato adempimento di una obbligazione pecuniaria da parte del debitore – attribuire al creditore danneggiato ai sensi dell’art. 1227 c.c., una responsabilità concorrente nella produzione del medesimo danno senza alcuna indagine sulla relativa colpa e della sua gravità e senza indicare e motivare quale condotta avrebbe dovuto tenere il creditore danneggiato per tentare di elidere o ridurre tale pregiudizio? 2) Può il Giudice di merito discostarsi dalle risultanze dell’accertamento tecnico disposto per la corretta quantificazione del danno senza darne adeguata motivazione?”.

Il quesito è inammissibile.

Deve ribadirsi, al riguardo, che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Di conseguenza, è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 17 luglio 2008, n. 19769).

Conclusivamente, poichè a norma dell’art. 366 bis c.p.c., la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo, è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Contemporaneamente, questa Corte regolatrice – alla stregua della stessa letterale formulazione dell’art. 366bis c.p.c. – è fermissima nel ritenere che a seguito della novella del 2006 nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, (allorchè, cioè, il ricorrente denunzi la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione: ciò importa in particolare che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Con il secondo motivo si denuncia “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3: omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: “Può il Giudice di merito discostarsi dalle risultanze dell’accertamento tecnico disposto per la corretta quantificazione del danno senza darne adeguata motivazione?”.

Il quesito non è idoneo perchè si risolve in una enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione dell’art. 366 bis c.p.c..

Inoltre il motivo non è autosufficiente perchè non riproduce il contenuto della c.t.u..

Con il terzo motivo la ————–s.r.l. denuncia “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Secondo parte ricorrente la pronuncia in esame ha illegittimamente omesso di liquidare le spese e i compensi del giudizio di primo grado sull’errato presupposto che la stessa ————— avrebbe prestato acquiescenza sul punto e che di. conseguenza, ai sensi dell’art. 320 c.p.c., comma 2, tale capo della sentenza sarebbe divenuto definitivo.

Su tale punto, si afferma, l’impugnata sentenza è illegittima e contraddittoria in quanto, dalla semplice lettura dell’atto di appello si evince che ———–, al punto 2 delle conclusioni, ebbe a formulare la seguente esplicita richiesta: “condannare l’appellata alle spese, competenze e onorari del giudizio di primo grado”. Si configura pertanto secondo parte ricorrente la violazione dell’art. 112 c.p.c., che contiene il principio dispositivo che permea “l’intero assetto processuale civilistico”.

Il motivo è inammissibile perchè denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., come violazione di legge e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), mentre tale violazione andava denunciata come nullità della sentenza o come error in procedendo (art. 360 c.p.c., n. 4) (Cass., 4 giugno 2007, n. 12952).

Con il ricorso incidentale l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Azienda Policlinico Umberto I denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 2697 c.c.”.

Si sostiene che la ————- s.r.l. non ha in alcun modo provato la sua legittimazione a beneficiare del risarcimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, sostenendo che la giurisprudenza riconnette questo tipo di danno alla presunzione semplice di ricorso al credito.

Secondo l’Università di ————–, invece, il maggior danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto indipendentemente dall’osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del creditore (quantunque imprenditore), dovendosi escludere che la svalutazione stessa costituisca un danno in re ipsa, stante l’operatività del principio nominalistico ex art. 1277 c.c., derogato dal legislatore soltanto per particolari crediti pecuniari come i crediti di lavoro ex art. 429 c.p.c., comma 3.

Il motivo è infondato.

Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale (Cass., sez. un., 16 luglio 2008, n. 19499).

Nel caso in esame, secondo l’impugnata sentenza, l’Università di Roma “———“, con la sua condotta inadempiente e morosa, ha reso insufficiente e comunque più oneroso il normale e ordinario autofinanziamento della ———– s.r.l., con il conseguente diritto al risarcimento ex art. 1224 cpv. c.c..

In conclusione, i ricorsi riuniti devono essere rigettati mentre in ragione della reciproca soccombenza devono compensarsi le spese del ricorso per cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, Compensa le spese del ricorso per cassazione.

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