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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 24 ottobre 2013, n. 24112

Svolgimento del processo

1. La s.r.l. ENCO si rendeva aggiudicataria di due immobili nel corso di una procedura di espropriazione immobiliare. Successivamente, l’Ufficio del registro di Venezia le notificava un atto di ingiunzione per la tardiva presentazione della dichiarazione INVIM, a seguito del quale la ENCO metteva a disposizione la somma di lire 39.397.850 per evitare l’esecuzione.
La società ENCO, perciò, citava a giudizio, davanti al Tribunale di Venezia, l’Amministrazione delle finanze, il Ministero della giustizia, la ex Banca cattolica del Veneto, ora Banca Intesa (creditore esecutante), e la ex Banca Antoniana di Padova e Trieste, ora Banca Antoniana Veneta, creditore intervenuto, per sentirli condannare al risarcimento dei danni per la somma di L. 42.475.604 (importo delle somme pagate e delle relative spese).
Si costituivano in giudizio tutti i convenuti, resistendo alla domanda, e nel giudizio interveniva anche il cancelliere dell’ufficio esecuzioni del Tribunale di Venezia.
Dopo una lunga sospensione disposta nell’attesa della conclusione del giudizio tributario promosso dalla ENCO avverso l’ingiunzione di pagamento, il Tribunale, con sentenza del 19 agosto 2003, accoglieva in parte la domanda, condannando il solo Ministero della giustizia al pagamento della somma di Euro 21.936,82.
2. Proposto appello principale dalla parte soccombente ed appello incidentale da parte degli istituti bancari e della ENCO, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 31 gennaio 2007, in riforma di quella di primo grado, dichiarava l’estinzione del giudizio, compensando integralmente tra le parti le spese del doppio grado.
Osservava la Corte territoriale essere pacifico che la firma apposta in calce al mandato conferito al difensore della società ENCO nella comparsa di riassunzione era illeggibile; d’altra parte, il nome del legale rappresentante della società non risultava in alcun modo, né dal testo dell’atto né dal mandato difensivo. Pertanto, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite 7 marzo 2005, n. 4810, si era verificata un’ipotesi di nullità relativa eccepita dalle controparti nella prima difesa, essendo incontestato che nella comparsa di risposta della fase di riassunzione gli appellanti incidentali avevano rilevato tale vizio della procura. Tuttavia proseguiva la Corte veneta – all’udienza del 5 novembre 2001, fissata per la prosecuzione del giudizio, il difensore della società ENCO si era limitato a dedurre che il mandato era stato firmato dal legale rappresentante della società e che non vi era, perciò, alcuna nullità; sicché egli non aveva provveduto ad integrare la lacunosità dell’atto con la prima replica, a nulla rilevando le successive deduzioni contenute nella comparsa conclusionale e la relativa documentazione allegata.
Rilevava poi la Corte territoriale che il mandato in contestazione era diverso da quello contenuto nell’originario atto di citazione, in quanto conferito ad un altro difensore; ed il documento dal quale le parti avrebbero dovuto trarre il nome del legale rappresentante risaliva al 1989, ossia ben prima dell’introduzione del giudizio (1992) e della riassunzione del medesimo (2001), sicché il legale rappresentante della ENCO ben poteva essere una persona diversa.
3. Contro la sentenza d’appello propone ricorso principale la società ENCO, con atto affidato a quattro motivi.
Resistono con separati controricorsi l’Intesa S. Paolo s.p.a. (già Banca Intesa), il Ministero della giustizia e la Banca Antoniana popolare veneta, quest’ultima con atto contenente ricorso incidentale affidato ad un motivo.
La società ENCO resiste con controricorso al ricorso incidentale.
La ricorrente principale e l’Intesa S. Paolo s.p.a. hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

Preliminarmente occorre procedere alla riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., in quanto proposti nei confronti della medesima sentenza.
1. Col primo motivo di ricorso principale si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 83, 156, 190 e 345 del codice di procedura civile.
Rileva la società ricorrente che la Corte d’appello non avrebbe tenuto in considerazione che la procura in questione era contenuta nell’atto di riassunzione del giudizio di primo grado, il quale costituisce una prosecuzione che non da vita ad un giudizio autonomo. La firma asseritamente illeggibile era identica a quella posta a margine degli atti di citazione originari, pacificamente riconducibile a N..G. , da sempre unico legale rappresentante della società ENCO.
Dalla giurisprudenza sull’argomento si deduce che non c’è alcuna nullità della procura ove la persona fisica che la conferisce sia desumibile dagli atti del processo, il che è quanto avvenuto nel caso di specie.
All’udienza del 5 novembre 2001, infatti, fissata dopo la riassunzione, il Tribunale di Venezia ha trattenuto la causa in decisione, concedendo i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle repliche. Nella comparsa conclusionale del 4 gennaio 2002 – che costituiva, secondo la ricorrente, la prima successiva difesa – il difensore della ENCO ha dichiarato che la firma apparteneva al G. ed ha depositato la relativa visura della camera di commercio del 13 novembre 2001. Né potrebbe sostenersi che tale produzione fosse tardiva, poiché si trattava di un giudizio introdotto prima dell’entrata in vigore della legge 26 novembre 1990, n. 353, al quale si applicava il testo dell’art. 345 cod. proc. civ. nella versione precedente, con conseguente possibilità di produzione di nuovi documenti anche nel giudizio di appello. Nel corso del giudizio di appello, infatti, la società aveva rinnovato, tramite l’appello incidentale, la produzione dei documenti già prodotti, necessari a sciogliere ogni eventuale dubbio sulla provenienza della procura.
2. Il primo motivo si collega con il quarto motivo del ricorso principale, nel quale si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 156 e 157 del codice di procedura civile.
Rileva la ricorrente che la Corte d’appello, nel ritenere che si fosse determinata un’ipotesi di nullità relativa, non ha considerato che il mandato in contestazione era relativo al ricorso in riassunzione e che “si trattava della stessa firma, visibile ad occhio nudo senza necessità di alcuna indagine calligrafica neppure disposta d’ufficio, già apposta a margine dell’atto di citazione di primo grado”, riguardo al quale nessuna contestazione era stata sollevata in quella fase.
3. Il primo ed il quarto motivo di ricorso, da trattare congiuntamente, sono entrambi infondati.
3.1. Nella sentenza 7 marzo 2005, n. 4810, citata anche dalla ricorrente, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di chiarire che l’identificazione del conferente la procurapuò essere direttamente offerta dalla leggibilità della sua firma, oppure, in caso d’illeggibilità, dall’espressa indicazione del suo nome nel testo della procura medesima (o di timbri e diciture che ne facciano parte)”. L’identificazione del conferente la procura – prosegue la sentenza – “deve anche ravvisarsi quando l’atto, unitariamente inteso come si è detto, enunci una sua specifica funzione o carica nell’ambito dell’organizzazione societaria, quale ad esempio quella di unico rappresentante legale, di unico socio accomandatario, di presidente o vice presidente del consiglio di amministrazione, di amministratore delegato o di direttore generale, alla condizione però che il nome del titolare di tale funzione o carica emerga dagli altri atti della causa, ovvero, in assenza, sia desumibile dalle risultanze del registro delle imprese, nel quale devono essere iscritte le società commerciali”.
Diversa è, invece, l’ipotesi in cui il sottoscrittore con grafia illeggibile “non alleghi alcuna specifica funzione o carica, ovvero indichi genericamente la qualità di legale rappresentante, in quanto tale qualità non assicura senza margini d’incertezza la conoscibilità del suo nome”.
Le Sezioni Unite, quindi, hanno specificato che tale incertezza “va ricondotta fra le nullità cosiddette relative, che, ai sensi dell’art. 157 cod. proc. civ., sono opponibili soltanto dall’interessato, e, quindi, dal destinatario dell’atto, a tutela del diritto di avere precisa notizia sul nome del sottoscrittore della procura per controllare (e se del caso confutare) la titolarità del potere di rappresentare la società. Il modo ed il tempo per far valere una nullità relativa sono stabiliti dal secondo comma dell’art. 157 cod. proc. civ., il quale ne richiede la denuncia con la prima istanza o difesa successiva”.
Quando tale denuncia sia effettuata, “si sposta a carico dell’altra parte, secondo i comuni criteri che regolano la prova e la dialettica processuale, l’onere di superare quel dubbio, ponendo rimedio alla genericità od incompletezza dell’atto”. A questo fine deve ritenersi sufficiente la precisazione ad opera del difensore del nome del sottoscrittore della procura; tale precisazione – continua la citata sentenza – “in applicazione analogica e speculare della norma inerente al modo ed al tempo fissati per opporre la nullità (art. 157, secondo comma, cod. proc. civ.), e del resto in sintonia con i principi di lealtà, correttezza e celerità del processo (art. 111 della Costituzione), deve essere formulata con la prima risposta difensiva in replica alla deduzione della nullità; con essa si può integrare l’atto foriero d’incertezza e raggiungere pienamente lo scopo, garantendo completa protezione alle posizioni dell’avversario”.
Tale insegnamento delle Sezioni Unite – ripreso più volte dalla successiva giurisprudenza (sentenze 22 giugno 2006, n. 14449, 6 maggio 2010, n. 11015, e 16 marzo 2012, n. 4199) – merita piena conferma in questa sede e conduce al rigetto dei due motivi in esame.
3.2. Nel caso odierno, infatti, la Corte d’appello ha dato conto, con motivazione puntualmente argomentata e priva di vizi logici, del fatto che la procura apposta in calce al mandato contenuto nella comparsa in riassunzione era illeggibile e che il nominativo del legale rappresentante della società ENCO non risultava né dal testo dell’atto né dal mandato. Ha poi osservato che, nel primo atto difensivo successivo alla prospettazione dell’eccezione (udienza del 5 novembre 2001), il difensore della società ENCO si era limitato ad una generica contestazione, producendo solo in seguito la documentazione necessaria a contrastare l’eccezione stessa. Ha infine ritenuto prive di fondamento le argomentazioni della società oggi ricorrente circa il fatto che si trattava della comparsa in riassunzione, osservando che il mandato in questione era “diverso e ulteriore rispetto a quello posto a margine della citazione, perché conferito ad altro procuratore (e dunque fonte dello ius postularteli di altro difensore)”.
Si tratta di argomentazioni integralmente condivisibili. Del resto, la stessa società ricorrente ammette (v. p. 16 del ricorso) di aver adempiuto al proprio onere di integrazione della prova soltanto in sede di comparsa conclusionale, depositata in data 4 gennaio 2002, sostenendo che tale attività si sarebbe svolta “nella prima successiva difesa”, mentre è palese che la prima successiva difesa era costituita dalla prima udienza dopo la riassunzione, in quanto l’eccezione era stata tempestivamente formulata dalle controparti nella comparsa di costituzione (si vedano, in motivazione, le analoghe vicende processuali di cui alle citate sentenze n. 14449 del 2006 e n. 11015 del 2010).
3.3. È indubbio che la comparsa di riassunzione, per pacifica giurisprudenza, non determina l’instaurazione di un nuovo giudizio, bensì la prosecuzione di quello pendente (v., tra le più recenti, la sentenza 11 giugno 2013, n. 14661); ma qui si era in presenza di una procura conferita ad un nuovo difensore, il che obbligava la parte a dare conto dell’identificazione del conferente la procura.
A nulla rileva, poi, il fatto che si trattasse di una causa trattata col c.d. vecchio rito, perché le Sezioni Unite, come si è visto, hanno specificato che la necessità di una risposta nella prima difesa è speculare alla previsione normativa secondo la quale la nullità deve essere eccepita nella prima istanza o difesa (art. 157, secondo comma, cod. proc. civ.), sicché si palesa fuor di luogo il richiamo all’art. 345 cod. proc. civ. ed alla possibilità di produrre nuovi documenti in appello.
4. Col secondo motivo del ricorso principale si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa motivazione dei fatti di causa.
Si rileva, in proposito, che la Corte di merito, nel discostarsi da quanto aveva deciso sul punto il Tribunale, non avrebbe motivato sulle ragioni per le quali la firma era da ritenere illeggibile. Aver qualificato la firma come illeggibile “non è una reale motivazione per riformare la decisione di primo grado, se il precedente giudice aveva letto quella firma come quella di N..G. ”. Nella sentenza, invece, nessuna giustificazione viene data rispetto a tale conclusione.
4.1. Il motivo è palesemente privo di fondamento.
L’accertamento della illeggibilità della procura è compito del giudice di merito, né il giudice di merito può motivare in altro modo che non sia quello di constatare l’illeggibilità; ipotizzare al riguardo il vizio di motivazione equivale a pretendere da questa Corte una nuova valutazione delle prove, compiendo un accertamento in fatto che è precluso in sede di legittimità.
5. Col terzo motivo del ricorso principale si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa motivazione su punti decisivi dei fatti di causa, con omesso esame di documenti.
Nel ribadire quanto già detto nel primo motivo, la parte osserva che la Corte veneziana avrebbe “omesso una logica indagine di merito tesa per l’appunto a verificare il nominativo del legale rappresentante di ENCO s.r.l., sig. N..G. , siccome risultante dagli atti di causa e ben noti a tutte le parti”. Secondo la ricorrente, il giudice d’appello non avrebbe potuto, in virtù del principio della “continuità del mandato”, ritenere che vi fosse stata una qualche modifica negli assetti interni della società, ed avrebbe quindi dovuto riconoscere la validità della procura.
5.1. Il motivo non è fondato.
A prescindere dal fatto che la valutazione dei documenti è compito istituzionale del giudice di merito, si rileva che la Corte d’appello non si è rifiutata di valutare il materiale probatorio esistente, ma ha escluso, con congrua motivazione, che gli atti già acquisiti al processo potessero dare conto della validità della procura.
Alla luce di quanto già detto a proposito del primo e del quarto motivo, la parte oggi ricorrente avrebbe dovuto provvedere alla tempestiva integrazione di quanto richiesto, nei termini di cui alla citata sentenza delle Sezioni Unite; d’altra parte la Corte di merito ha avuto cura di precisare – come si è detto – che il documento dal quale le parti avrebbero dovuto trarre il nome del legale rappresentante risaliva al 1989, ossia ben prima dell’introduzione del giudizio (1992) e della riassunzione del medesimo (2001), sicché il legale rappresentante della ENCO poteva anche essere una persona diversa. Non essendo intervenuta una tempestiva attività difensiva, la Corte di Venezia ha correttamente rilevato l’invalidità della procura e la conseguente estinzione del giudizio (per decorso del termine di legge).
6. Col primo ed unico motivo di ricorso incidentale la Banca Antoniana popolare veneta lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 del codice di procedura civile.
Rileva l’istituto bancario, qualora questa Corte intenda pronunciarsi sul merito, che la Corte d’appello, nel compensare integralmente le spese del doppio grado di giudizio, si è limitata ad osservare che sussistono giusti motivi per la compensazione, senza dire nulla in merito, anche in ordine alla richiesta di condanna alle spese del primo grado, punto oggetto di appello incidentale.
6.1. Il ricorso incidentale è privo di fondamento.
Tralasciando alcune (irrilevanti) contestazioni relative alla decisione del giudice di primo grado, ormai superata da quella d’appello, la censura odierna deve ritenersi rivolta esclusivamente nei confronti della decisione di compensazione integrale delle spese del doppio grado di giudizio disposta dalla Corte d’appello di Venezia.
Al riguardo, questa Corte ha più volte ribadito che, in tema di compensazione delle spese processuali (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore a quello introdotto dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263), poiché il sindacato di legittimità è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altre giuste ragioni, che il giudice di merito non ha obbligo di specificare, senza che la relativa statuizione sia censurabile in cassazione, poiché il riferimento ai giusti motivi di compensazione denota che il giudice ha tenuto conto della fattispecie concreta nel suo complesso (sentenza 6 ottobre 2011, n. 20457). A tale principio va data integrale conferma in questa sede.
7. In conclusione, sono rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.
A tale esito segue la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti dei controricorrenti Intesa S. Paolo s.p.a. (già Banca Intesa) e Ministero della giustizia; mentre le medesime vanno compensate tra il ricorrente principale ed il ricorrente incidentale, attesa la reciproca soccombenza.
La liquidazione segue in dispositivo, in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e quello incidentale; condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di cassazione nei confronti dei controricorrenti Intesa S. Paolo s.p.a. e Ministero della giustizia, liquidate per ciascuno in complessivi Euro 3.500,00, di cui Euro 200 per spese, oltre accessori di legge; compensa le spese del giudizio di cassazione tra il ricorrente principale ed il ricorrente incidentale.

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