Corte di Cassazione bis

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 24 marzo 2015, n. 5849

Ritenuto in fatto

La Falegnameria 4 Mori di d.V.A. e c. s.n.c. prese in locazione ad uso commerciale da P.T. , P.I. , P.S. , S.F. e F.G. un fondo sito in Livorno e, a fronte dello sfratto per finita locazione intrapreso dai locatori, chiese che fosse dichiarata la nullità della clausola contrattuale contenuta nell’art. 20 del contratto di locazione che prevedeva aumenti annuali del canone di locazione, nonché che si accertasse il suo diritto alla restituzione delle maggiori somme indebitamente corrisposte, in conseguenza della nullità della pattuizione relativa ad aumenti del canone in violazione dell’art. 32 della legge n. 392 del 1978, e che le fosse riconosciuto il diritto alla indennità per la perdita dell’avviamento commerciale.
Il Tribunale di Livorno rigettò le domande della società con sentenza confermata dalla pronuncia n. 991 del 2010 della Corte d’Appello di Firenze, qui impugnata. La corte d’appello, in particolare, richiamando l’insegnamento di Cass. n. 4210 del 2007, affermò che per le locazioni di immobili destinati ad uso non abitativo vigesse il principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo, e che quindi non fosse affetta da nullità la clausola del contratto tra le parti prevedente importi differenziati e crescenti in relazione ai diversi anni di durata del rapporto, non essendo tali variazioni in aumento ancorate al mutato potere d’acquisto della moneta e non avendo pertanto funzione di aggiornamento del canone.
Quanto alla reclamata indennità di avviamento, accertato che nei locali veniva svolta attività di falegnameria, la corte affermò che dall’istruttoria svolta fosse emerso che nei locali venisse svolta con assoluta prevalenza l’attività di realizzazione di mobili, mentre doveva ritenersi sporadico ed eventuale l’accesso di pubblico, come si desumeva anche dall’aspetto dei locali ed in particolare dalla mancata predisposizione di un adeguato vano destinato all’accesso e alla ricezione del pubblico, essendo lo stesso risultato non ordinato, non pulito, ed utilizzato anche per la collocazione di gabbie contenenti animali da cortile.
La Falegnameria 4 Mori di d.V.A. e c. s.n.c. propone ricorso in cassazione articolato in due motivi nei confronti di P.T. , I. , S. , S.F. e F.G. , per la riforma della sentenza n. 991/2010 della Corte d’appello di Firenze.
Resistono P.T. e F.G. con controricorso, le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva.
Le parti costituite non hanno depositato memorie illustrative.

Le ragioni della decisione

Con il primo motivo la ricorrente chiede si dichiari la nullità della clausola n. 20 del contratto di locazione, che prevedeva una variazione in aumento del canone locatizio in immobile ad uso non abitativo per gli anni successivi al primo, per contrasto con gli artt. 32 e 79 della legge n. 392 del 1978. Sostiene che, sebbene per le locazioni per uso non abitativo sia previsto il principio della libera determinazione del canone, debba ritenersi tuttavia vietato apportare alla somma inizialmente convenuta aumenti superiori a quanto occorra a garantire l’adeguamento del canone alla perdita del potere di acquisto della moneta, nelle forme e nei termini previsti dall’art. 32, ovvero oltre il limite del 75% dell’indice Istat.

La questione sottoposta all’attenzione della Corte è dunque se sia valida la clausola di un contratto di locazione ad uso non abitativo che disponga fin dall’origine un predeterminato aumento del canone nel corso del rapporto per gli anni o le frazioni di anno successivi al primo, indipendentemente e a prescindere dall’aggiornamento ai sensi della citata L. n. 392, art. 32.

Il motivo non è fondato.

La Corte d’Appello Firenze, con la sentenza impugnata, si è uniformata ai principi di diritto più volte enunciati da questa Corte di legittimità e volti ad affermare, in tema di immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione, in virtù del principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo vigente per gli immobili destinati ad uso commerciale, che sia consentito alle parti prevedere la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto} purché la stessa previsione non costituisca un espediente per aggirare la norma imperativa di cui all’art. 32 della legge n. 27 luglio 1978 n. 392 con la quale il legislatore si è riservato la facoltà di determinare le modalità e la misura dell’aggiornamento del canone in relazione alle variazioni del potere di acquisto della moneta, sottraendola alla disponibilità della parti (in questo senso Cass. n. 17061 del 2014, cass. n. 13887 del 2011, Cass. n. 10834 del 2011, Cass. n. 11608 del 2010, Cass. n. 5349 del 2009 Cass. n. 4210 del 2007, Cass. n. 17964 del 2007, Cass. n. 10500 del 2006). A tali principi va in questa sede data continuità.

L’art. 79 della legge n. 392 del 1978, che si applica a tutti i rapporti di locazione disciplinati dalla legge in cui è inserito, sanziona di nullità un’ampia gamma di pattuizioni, comprensive di quelle volte a limitare la durata legale del contratto, ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello legalmente dovuto ad attribuire al locatore altri vantaggi che siano in contrasto con le disposizioni di legge sull’equo canone (ed al secondo comma detta una apposita disciplina per consentire al conduttore di far valere tale nullità, anche allo scopo di recuperare le somme pagate in eccedenza). Le norme in esso contenute vanno però interpretate tenendo conto della specificità dei diversi tipi di rapporti contrattuali a cui si applica, individuate dalla stessa legge n. 392 del 1978 e dalla successiva disciplina sulla locazione, ed in particolare del fatto che nei rapporti di locazione aventi ad oggetto la locazione di immobili ad uso non abitativo, diversamente che per le locazioni abitative, le parti sono state lasciate libere, al momento della conclusione del contratto, di determinare la misura del canone di locazione. In applicazione di tale principio di libertà nella determinazione del canone, esse possono anche validamente prevedere al momento della conclusione del contratto che il canone possa variare, in aumento o in diminuzione, per gli anni o le frazioni di anno successivi al primo, potendo tale aumento trovare la sua giustificazione causale in considerazione del complessivo assetto di interessi delle parti (in cui esse possono aver tenuto conto, esplicitamente o implicitamente, di una serie di circostanze, quali l’esecuzione a cura e spese del conduttore di lavori di adeguamento dei locali, nel prevedere, per il primo o i primi anni, un canone inferiore a quello pattuito per gli anni successivi). Le parti non possono invece validamente inserire nel contratto aggiornamenti, ovvero variazioni nell’importo del canone per gli anni successivi al primo, atte a sostituire surrettiziamente il criterio normativo contenuto nell’art. 32 ultimo comma della legge n. 392 del 1978, norma imperativa, per tenere indenne il canone concordato dal mutato potere d’acquisto della moneta.

In definitiva le parti, nel momento in cui costituiscono il rapporto di locazione commerciale, sono lasciate libere di determinare il contenuto del contratto che meglio riproduca il loro concreto assetto di interessi, dando spazio anche alla possibilità che il canone non sia uniformemente determinato per tutti gli anni di durata del rapporto potendo essere tali eventuali variazioni predeterminate causalmente giustificate dal contesto delle pattuizioni o comunque dalle circostanze del caso concreto prese in considerazione dalle parti stesse.

Il limite non valicabile dalla autonomia delle parti in relazione al canone di locazione di immobili destinati ad utilizzo commerciale è costituito esclusivamente, nel momento genetico del contratto, dalla nullità delle clausole che sostanzialmente si traducano in un aggiramento dell’art. 32 della legge n. 392 del 1978 ed in una determinazione privatistica della misura della indicizzazione.

La ratio del divieto di introdurre un meccanismo di indicizzazione diverso da quello previsto per legge si fonda sia su esigenze generali, di programmazione uniforme delle ricadute dal mutato potere di acquisto della moneta sui contratti in corso, sia sulla avvertita esigenza di evitare che il locatore possa approfittare del contraente strutturalmente più debole per imporgli iniqui meccanismi di indicizzazione automatica, scissi da una giustificazione causale che sia ancorata al concreto assetto di interessi delle parti, come ben espresso nel principio di diritto così massimato: ‘Per effetto del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, risulta legittima la clausola con cui si convenga una determinazione del canone in misura differenziata, crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ancorata, infine, ad elementi predeterminati (idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e del tutto indipendenti dalle eventuali variazioni annuali del potere di acquisto della moneta), a meno che non risulti una sottostante volontà delle parti volta, in realtà, a perseguire surrettiziamente lo scopo di neutralizzare esclusivamente gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo, così, i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge cosiddetta ‘sull’equo canone’ (sia nella formulazione originaria che in quella novellata dall’art. 1 comma nono, sexies, della legge n. 118 del 1985), ed incorrendo, conseguentemente, nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79 della legge predetta’ (Cass. n. 5349 del 2009).

Nel caso di specie, la corte d’appello ha accertato in concreto, con motivazione sotto questo profilo neppure contestata dal ricorrente, che la variazione in aumento del canone di locazione, prevista per gli anni secondo, terzo, quarto e quinto del rapporto, non si traduceva in una violazione dell’art. 32 della legge n. 3982 del 1978, in quanto si trattava di variazioni predeterminate e non ancorate al mutato potere d’acquisto della moneta né direttamente né indirettamente. Escludeva poi un intento elusivo in ragione del fatto che nessun aumento fosse stato previsto per il sesto anno, e neppure per il secondo sessennio della locazione, periodo di tempo assai ampio, nell’arco del quale le variazioni del potere di acquisto della moneta non avrebbero potuto non incidere. Esistono peraltro alcune pronunce di legittimità, in relazione alle quali il P.G. ha individuato un orientamento contrastante con quello finora riportato, che gli ha fatto ritenere necessario richiedere la rimessione della controversia al Primo Presidente affinché decida se devolvere alle Sezioni Unite la composizione del contrasto. Le pronunce cui ha fatto riferimento il Procuratore Generale segnalando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sono principalmente Cass. n. 2961 del 2013 Cass. n. 2932 del 2008, Cass. n. 8410 del 2006, Cass. n. 10286 del 2001. Tuttavia il contrasto, ripercorrendo le motivazioni delle sentenze citate e tenendo in conto le fattispecie di riferimento, appare più apparente che reale (e forse enfatizzato da una massimazione talora esageratamente assertiva e scissa dalla necessaria aderenza alla fattispecie concreta).

Tutte le sentenze citate infatti prendono in realtà in esame non la previsione di una pattuizione originaria in cui il canone sia stato determinato in misura crescente (o decrescente) o comunque non uniforme per tutti gli anni di durata del rapporto, ma situazioni in cui, dopo un accordo iniziale che fissava in una determinata misura l’importo del canone liberamente concordato dalle parti, interveniva tra le parti un nuovo e successivo accordo che modificava in aumento la misura del canone (anche Cass. n. 10834 del 2011 evidenzia che le pronunce apparentemente contrastanti riguardano un caso diverso da quello in oggetto, cioè il caso in cui l’aumento del canone venga pattuito nel corso del rapporto).

Le sentenze citate condivisibilmente hanno affermato che questo aumento successivo, a rapporto già in corso, debba ritenersi nullo per violazione dell’art. 79 della legge n. 392 del 1978, e che l’accordo non sia idoneo a far validamente rinunciare il conduttore ad esigere di non pagare di più rispetto a quanto originariamente pattuito. In caso di un accordo successivo in cui si preveda un aumento del canone della locazione già in corso la libertà negoziale del conduttore potrebbe essere limitata o apparente, e l’equilibrio contrattuale alterato, dall’esigenza del conduttore di continuare a svolgere l’attività commerciale che ha avviato e nella quale ha investito, negli stessi locali, mentre per contro il locatore avrebbe buon gioco ad imporre un aumento di canone al conduttore che tema una perdita di clientela qualora si debba spostare altrove dopo aver dato positivo impulso all’attività.

L’ordinamento non consente, in applicazione dell’art. 79, un accordo che preveda l’aumento del canone di locazione a rapporto di locazione commerciale già iniziato, potendo lo stesso essere non più frutto della libera scelta delle parti, ma del condizionamento che è in grado di esercitare il locatore e della sostanziale posizione di superiorità di questi, in grado di imporre un aumento contrattuale al conduttore che abbia profuso impegno e denaro nell’avvio di una attività commerciale e che abbia tutto l’interesse a continuare ad esercitarla nello stesso luogo.

Sono quindi sanzionati da nullità soltanto gli aumenti del canone di locazione pattuiti successivamente alla conclusione del contratto.

La necessità di tenere distinte le due situazioni trova preciso riscontro nella sentenza n. 2901 del 2007 (redatta da uno degli estensori delle sentenze che vengono in genere ricondotte al cd. secondo orientamento), in cui la Corte ha ritenuto esente da nullità la scrittura integrativa contestuale alla sottoscrizione del contratto di locazione, nella quale si prevedeva un importo (a titolo di contributo spese straordinarie e di uso dei mobili) che andava a far parte del canone sommandosi con quanto contestualmente pattuito con il contratto di locazione. In quella sede la Corte ha ribadito che soltanto la pretesa di somme ulteriori rispetto a quella originariamente pattuita incorre nella sanzione di nullità prevista dall’art. 79 legge n. 392 del 1978, in quanto volta ad attribuire al locatore veri e propri aumenti del canone ed ha ritenuto esente da vizi la sentenza con la quale si affermava che il anone fosse stato legittimamente dalle parti determinato ‘liberamente’, ‘nella misura corrispondente alla somma dei due atti contestuali’.

Sicché un accordo che geneticamente preveda un importo del canone di locazione destinato a crescere nel corso degli anni può essere valido, purché non sia destinato a svolgere surrettiziamente una funzione di aggiornamento del valore del canone svincolata dai criteri e dai limiti fissati dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978 e trovi la sua giustificazione causale dall’assetto che le parti hanno dato ai rispettivi interessi nel contratto, mentre è nulla per violazione dell’art. 79 della legge n. 392 del 1978 la pretesa di somme ulteriori rispetto a quelle originariamente pattuite, in quanto volta ad attribuire al locatore veri e propri aumenti del canone.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia in relazione alla valutazione data dal giudice alle prove testimoniali raccolte in primo grado, avendo entrambi i giudici di merito ritenuta infondata la richiesta di corresponsione dell’indennità di avviamento in mancanza di prova che nello spazio oggetto della locazione il laboratorio di falegnameria svolgesse una attività a contatto diretto con il pubblico degli utenti e consumatori, laddove ciò emergeva chiaramente dalle testimonianze raccolte. Il motivo è infondato, in quanto volto a richiedere alla Corte, inammissibilmente, una rivalutazione in fatto delle deposizioni testimoniali raccolte.

L’apprezzamento delle risultanze di prova attiene infatti al libero convincimento del giudice di merito, per cui deve ritenersi preclusa ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa. Con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la doglianza mediante la quale la parte ricorrente avanza, nella sostanza delle cose, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura del giudizio di cassazione. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di lite sostenute dai contro ricorrenti e le liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori e contributo spese generali.

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