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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  2 ottobre 2013, n. 40743

Ritenuto in fatto

1.1. Con sentenza del 14 luglio 2011, la Corte di Appello di Lecce – Sezione Distaccata di Taranto — confermava la sentenza del GUP di quel Tribunale del 29 ottobre 2010 emessa nei confronti di G.F., imputato del reato di cui all’art. 167 dei D. L.vo 196/03, con la quale il predetto era stato ritenuto colpevole del detto reato e condannato alla pena ritenuta di giustizia.
1.2. Per l’annullamento della sentenza propone ricorso l’imputato a mezzo del suo difensore di fiducia articolando due motivi: con il primo lamenta la carenza assoluta di motivazione e la sua manifesta illogicità in punto di conferma del giudizio di colpevolezza espresso sulla base di mere supposizioni ricavate dalle dichiarazioni unilaterali della persona offesa, prive di riscontro ed anzi, smentite da altro teste del quale la Corte territoriale non ha tenuto conto. Con il secondo motivo il ricorrente rileva l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata nelle more del giudizio di legittimità.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile sia per manifesta infondatezza dei motivi, sia perchè contiene censure in fatto, inammissibili in sede di legittimità.
1.1. Premesso, in punto di fatto, che al ricorrente viene contestato il reato di cui all’art. 167 del D. Lvo 196/03 “perchè, al fine di recare danno a C.A., provocava la diffusione sulla rete Internet del numero di telefono cellulare della predetta contro la volontà dell’interessata” [reato commesso in Grottaglie in epoca anteriore e prossima al 16 febbraio 2004] la Corte ha, con motivazione ampia, corretta e soprattutto, estremamente logica in punto di ricostruzione storica degli avvenimenti, confermato il giudizio di colpevolezza, desumendolo da una serie di dati oggettivi costituenti riscontro alle dichiarazioni della persona offesa. Oltre al particolare, non di certo irrilevante, della pregressa relazione sentimentale, seguita dalla decisione della ragazza di interromperla, senza che possano assumere rilevanza le specifiche ragioni della cessazione del rapporto, alcuni dati quali la presenza del numero di telefono cellulare sicuramente in possesso del G. in costanza della relazione e soprattutto la particolare denominazione del sito internet “Lisa la porca” in cui figuravano anche fotografie della ragazza, rappresentano elementi di sicura valenza probatoria tali da convincere la Corte ad individuare nel solo G. il soggetto interessato a diffondere in modo offensivo i dati della ragazza con la quale poco tempo prima aveva intrattenuto una relazione sentimentale.
1.2. Senza voler indugiare oltre il consentito sul significato di concetti quali l’omessa motivazione (tale essendo sia quella mancante sia quella c.d. “apparente”); l’illogicità manifesta (tale essendo l’incoerenza palese percepibile ictu oculi) e la contraddittorietà (tale essendo una affermazione o un ragionamento uguale e contrario ad altro vertente sul medesimo punto), vizi che debbono risultare dal testo del provvedimento impugnato, va precisato che per mancanza della motivazione si deve trattare non solo di un percorso argomentativo del tutto assente, ma anche di una motivazione meramente apparente o priva di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il giudizio. Può invece parlarsi di manifesta illogicità allorché l’incoerenza sia evidente, ovvero di livello tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità, al riguardo, essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi di diritto (cfr. Sez. Un. 31.5.2000 n. 12, Jakani, Rv. 216258; Sez. 3^ 12.10.2007, n. 40542, Marrazzo e altro, Rv. 238016),
1.3. A tali regole si è uniformata pienamente la Corte distrettuale: di contro il ricorrente si attarda a prospettare alternative ipotesi volte ad attribuire ad altri (non indicati) la commissione di un fatto che non poteva che avere quale suo connotato un desiderio di ritorsione verso la ragazza esattamente individuato dal giudice di appello nella improvvisa fine della relazione decisa dalla ragazza. Tali prospettazioni alternative, oltretutto nemmeno dotate del requisito della verosimiglianza come implicitamente riconosciuto dalla Corte distrettuale costituiscono vere e proprie censure in fatto inammissibili in sede di legittimità.
1.4. Quanto alla richiesta di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione è vero, in linea astratta, che alla data odierna il termine prescrizionale pari ad anni sette e mesi sei decorrenti dal 16 febbraio 2004, è trascorso: ma a precludere la declaratoria di estinzione per tale causa vale il principio affermato dalle SS.UU. di questa Corte secondo il quale nella ipotesi di maturazione del termine prescrizionale successivamente alla sentenza di appello, l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi impedisce la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p, non potendo considerarsi formato un valido rapporto di impugnazione (SS. UU. 22.11.2000 n. 32, De Luca, Rv. 217266; Sez. 2^ 20.11.2003 n. 47383 Viola, Rv. 227566; Sez. 4^ 20.1.2004 n. 18641, Tricorni, Rv. 228348).
2. Segue alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma – ritenuta congrua – di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, trovandosi il ricorrente in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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