SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 19 giugno 2015, n. 12722
Ritenuto in fatto
C.D. , C.E.C.E. e S.L.M.A.G. propongono ricorso per cassazione articolato in due motivi per la riforma della sentenza n. 2655 del 2011 emessa dalla Corte d’Appello di Venezia il 18 dicembre 2011, nei confronti di R.A.S. s.p.a., di P.E. e di P.E. .
Resiste la Allianz s.p.a. (già R.A.S. s.p.a.) con controricorso, gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Entrambe le parti hanno anche depositato memoria illustrativa.
I ricorrenti espongono che nel 2002 essi, in qualità rispettivamente di padre, sorella e madre del defunto C.D. , convenivano in giudizio P.E. e la sua compagnia di assicurazioni per la r.c.a., R.A.S. s.p.a., per sentir dichiarare la responsabilità esclusiva del P. nello scontro tra veicoli a seguito del quale aveva perso la vita C.D. , all’epoca di ventisette anni, e sentirli condannare al risarcimento di tutti i danni subiti in proprio e quali eredi del C. dai prossimi congiunti. Il contraddittorio veniva integrato nei confronti del proprietario del veicolo, P.E. .
Il Tribunale di Verona in primo grado condannava i convenuti in solido a risarcire ai familiari di C.D. la somma capitale complessiva di Euro 300.000,000 a titolo di risarcimento del danno biologico e morale subito dal defunto, oltre interessi e rivalutazione dal dì del sinistro al saldo, nonché a corrispondere agli attori iure proprio Euro 55.000 ciascuno per i genitori a titolo di danno morale e Euro 50.000 ciascuno a titolo di danno esistenziale, e per la sorella rispettivamente Euro 35.000,00 e 30.000,00. All’esito del giudizio di secondo grado la Corte d’Appello di Venezia ridimensionava l’ammontare del risarcimento complessivo spettante ai C. in Euro 275.000,00 e detratto l’acconto già percepito di Euro 200.000,00 condannava gli appellanti in solido a corrispondere la somma residua di Euro 75.000,00 oltre interessi e rivalutazione, esclusivamente a titolo di danno iure proprio riportato dai congiunti della vittima. Essa accoglieva in parte l’appello dichiarando che ai C. non spettasse alcunché a titolo di risarcimento iure hereditatis del danno morale e del danno biologico subiti dalla vittima in conseguenza del sinistro, atteso che nessun danno non patrimoniale era sorto in capo alla vittima stessa, per essere sopraggiunta la morte a distanza soltanto di un’ora e quindici minuti dall’incidente, senza che vi fosse prova che il C. , trasportato subito in rianimazione, fosse rimasto lucido in quel breve lasso di tempo tra l’incidente e la morte. Richiamava la giurisprudenza di questa Corte di legittimità che richiede, perché possa sorgere (e sia poi trasmissibile agli eredi) in capo alla vittima di un grave incidente con postumi mortali non immediati il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, che ci sia stato un apprezzabile lasso di tempo tra l’incidente ed il sopravvenire della morte in cui la vittima abbia potuto lucidamente rendersi conto delle sue condizioni e dell’approssimarsi della fine.
Le ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 1223, 1224, 2034, 2056, 2043 e 2059 c.c. da parte della sentenza d’appello laddove ha accolto l’appello dei responsabili escludendo il diritto degli eredi del defunto C.D. al risarcimento iure hereditatis del danno biologico e morale subito dal defunto a causa della morte pressocchè immediata di questi, o meglio ha escluso la stessa configurabilità del danno in capo alla vittima, che pertanto non si è trasmesso agli eredi. Sostengono che è sufficiente l’esistenza di un pur breve lasso di tempo per far sorgere il diritto in capo al danneggiato al risarcimento delle su accennate voci di danno, in quanto egli ha la concreta possibilità di apprezzare la modifica irreversibile delle sue condizioni di salute e di vita (cd. danno catastrofale), non rilevando la brevità della durata di questa parentesi temporale. Con il secondo motivo si dolgono della violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c. laddove la corte d’appello ha argomentato sulla mancanza di prova della lucidità dell’infortunato nello spazio temporale tra l’incidente e la morte, richiamando la giurisprudenza di legittimità (in particolare, S.U. n. 26972 del 2008) che ha ritenuto risarcibile la sofferenza psichica provata dalla vittima delle lesioni, nel caso sia sopravvenuta a breve distanza di tempo la morte, purché questa sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine.
La censura è rivolta in particolare verso il passo della motivazione della sentenza che ha dato per provato un fatto che ad avviso dei ricorrenti non lo era (ovvero che l’infortunato avesse perso conoscenza a seguito dell’incidente e non l’abbia recuperata fino al momento della morte) contrastante con la normale condizione delle persone (che sono lucide, finché non sopravvenga un fatto comprovatamente idoneo a privarle di tale condizione) sulla base di un dato di fatto inidoneo a costituirne prova e quindi a supportare, come unico riferimento fattuale, la motivazione, ovvero il fatto che il C. fosse stato trasportato in rianimazione.
Aggiungono che, come risulta dal rapporto delle forze dell’ordine intervenute (allegato agli atti del giudizio di merito e il cui contenuto riportano) la vittima dell’incidente venne trasportata dapprima al pronto soccorso dell’ospedale di Verona e poi, viste le sue gravi condizioni, i medici lo indirizzarono al reparto rianimazione dove a breve distanza di tempo morì per arresto cardiocircolatorio.
I due motivi vanno esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, e l’apprezzamento della fondatezza del secondo motivo di ricorso deve logicamente precedere l’esame della fondatezza del primo motivo.
Questa Corte riconosce e valorizza sotto il profilo della intensità della sofferenza patita, il diritto del soggetto gravemente danneggiato in un incidente, dal quale consegua a breve distanza di tempo la morte, al risarcimento quanto meno del danno morale c.d. catastrofale, per tale intendendosi il danno morale puro subito dalla vittima che è consapevole della gravità delle sue condizioni e attende lucidamente, benché atterrita, l’approssimarsi ineluttabile della morte. Lo riconosce a condizione che la vittima stessa, nell’apprezzabile lasso di tempo che ha preceduto la morte, si sia mantenuta lucida ed abbia così potuto preconizzarsi l’incombenza dell’inevitabile evento catastrofico a suo danno, con conseguente sofferenza morale massima, benché concentrata in quel breve lasso di tempo, perché correlata alla prossima perdita della vita (Cass. n. 23183 del 2014, Cass. n. 7126 del 2013, Cass. n. 11601 del 2005, che puntualizza che ‘In caso di morte della vittima a seguito di sinistro stradale, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni (nel caso, due ore), se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la medesima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conseguentemente fatto valere ‘iure hereditatis’).
La verifica se sia configurabile o meno la violazione di legge denunciata in riferimento al primo motivo per aver considerato la corte d’appello in ogni caso troppo breve e non rapportabile all’’apprezzabile lasso di tempo’ individuato dalla giurisprudenza di legittimità come soglia minima per l’insorgenza in capo al danneggiato del diritto al risarcimento del danno morale cd. catastrofale il tempo di sopravvivenza del C.D. è condizionata quindi all’accoglimento del secondo motivo, in quanto solo in presenza di un lucido, per quanto breve, intervallo di tempo in cui il danneggiato possa aver percepito in tutta la sua drammaticità la condizione in cui si trova, il diritto al danno morale può sorgere, mentre la corte d’appello, con motivazione impugnata con il secondo motivo di ricorso, ha escluso che risultasse provata proprio la lucidità della vittima nello spazio di tempo tra l’incidente e la morte. Il secondo motivo di ricorso non può essere accolto.
Esso appare incentrato sul vizio di motivazione, anche se contiene l’indicazione di alcune norme di legge, tra le quali l’art. 2697 c.c. che regola la ripartizione dell’onere probatorio, che sarebbe superflua all’interno di un motivo volto a censurare esclusivamente il profilo motivazionale.
Il punto controverso della motivazione è quello in cui la corte d’appello ha affermato la mancanza di prova sullo stato di lucidità nel periodo intercorso tra la lesione e la morte, fondando il proprio convincimento in ordine alla mancanza di lucidità della vittima esclusivamente sulla circostanza di fatto che questa fosse stata trasportata in rianimazione, mentre i ricorrenti evidenziano che questa circostanza di per sé non fosse inequivoca. E tuttavia, tenuto conto dei limiti del controllo del giudice di legittimità sulla motivazione, all’interno dei quali non è consentito cassare una motivazione perché non è la migliore possibile o la più articolata, ma soltanto quando presenti delle falle nel percorso logico o della patenti contraddizioni tali da minare la coerenza del ragionamento che ha portato il giudice ad un certo esito, la motivazione della corte d’appello sul punto, benché sintetica, è completa e coerente, laddove argomenta nel senso che il tempo di sopravvivenza dopo l’incidente è stato di poco più di un’ora, e, soprattutto, che non vi fosse prova della sussistenza di uno stato di lucidità della vittima in quell’intervallo di tempo. Aggiunge poi, ad abundantiam, che il fatto che l’infortunato fosse stato ricoverato in rianimazione costituisce al più un elemento probatorio in senso contrario, né la coerenza della motivazione è scalfita dalla circostanza di fatto allegata dai ricorrenti e ad avviso degli stessi trascurata dalla corte d’appello, costituita dall’iniziale ricovero in pronto soccorso, prima del trasporto in rianimazione.
Il punto centrale di questo passaggio della motivazione, non scalfito dalle considerazioni dei ricorrenti, è costituito dal fatto che non sia stata fornita la prova di una condizione di lucidità della vittima successiva all’incidente, onere probatorio che, essendo attinente ad uno dei fatti costitutivi dell’azione, gravava su chi agisce in giudizio per il risarcimento del danno e quindi era a carico degli eredi, che agiscono per il riconoscimento del relativo diritto.
A ciò si aggiunga che come è noto il giudice nel suo percorso motivazionale può selezionare gli elementi dell’istruttoria sui quali ha fondato il suo convincimento e non è tenuto né ad esporre tutti i dettagli di fatto né a rispondere espressamente ad ogni rilievo delle parti, costituendo risposta idonea e complessiva una motivazione logica e coerente: l’omessa indicazione del fatto che dapprima C.D. sia stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale non sposta l’equilibrio della motivazione in quanto non contiene alcuna indicazione, tanto meno inequivoca, sulla lucidità della vittima al momento di accesso presso l’ospedale.
Il rigetto del secondo motivo esime dall’esaminare la fondatezza o meno del primo motivo laddove la corte d’appello ha ritenuto il lasso di tempo di sopravvivenza troppo breve per essere apprezzabile sotto il profilo del sorgere del diritto al risarcimento del danno morale.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico dei ricorrenti le spese di giudizio sostenute dalla controricorrente e le liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui 200,00 per spese, oltre accessori e contributo spese generali.
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