donna incinta

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  17 luglio 2014, n. 16401

Svolgimento del processo

1. Nel 1999 la sig.a R.M. convenne dinanzi al Tribunale di Milano il proprio ginecologo, dott. A.E.M., esponendo che: – nel luglio del 1997, essendo aumentata di peso e ritardando il mestruo, si era rivolta al dott. A.E.M., per sapere se fosse in stato interessante;
– il medico escluse la sussistenza d’una gravidanza;
– tale diagnosi fu scorretta, come scoprì ad ottobre dello stesso anno;
– al momento dei fatti ella era nubile, mentre il padre del concepito era coniugato;
– quando seppe della gravidanza, era ormai spirato il termine entro il quale la legge consente l’aborto;
– l’errore del medico le aveva causato vari danni, tanto patrimoniali quanto non patrimoniali, consistiti principalmente nella forzosa rinuncia alle progettate attività lavorative e nel disagio morale. Concludeva pertanto chiedendo la condanna dei convenuto al risarcimento di tali pregiudizi.
Il convenuto si costituì e chiese il rigetto della domanda; nel procedimento intervenne volontariamente il sig. P.M., padre del concepito, chiedendo anch’esso la condanna del convenuto al risarcimento del danno.
2. Con sentenza 8.11.2003 n. 15419 il Tribunale ritiene esistente la responsabilità del medico, e liquidò all’attrice il danno non patrimoniale rappresentato dalla “violazione del diritto della donna ad essere informata” (definito “esistenziale”); rigettò invece la domanda di risarcimento dei danno patrimoniale consistente negli oneri di mantenimento del figlio, ritenendo non provata l’esistenza di una volontà abortiva della donna, nell’ipotesi in cui fosse stata tempestivamente informata.
La sentenza, impugnata dalla sig.a R.M., venne confermata dalla Corte d’appello di Milano con sentenza 16.1.2008 n. 495.
3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla sig.a R.M., in base a 4 motivi; ha resistito il dott. A.E.M., mentre l’altro intimato sig. P.M. non si è difeso.

 

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione (ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.), nella parte in cui ha ritenuto non provato che, se la gestante fosse stata tempestivamente informata della gravidanza, avrebbe verosimilmente abortito.
1.2. Il motivo è palesemente inammissibile.
La motivazione, sul punto, esiste ed è congrua e ragionevole (pp. 8-9 della sentenza impugnata).
Quel che la parte dunque in realtà invoca da questa Corte, sotto l’usbergo dei vizio di motivazione, è una diversa valutazione delle prove rispetto a quella compiuta dal giudice di merito: pretesa inammissibile in questa sede.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso la ricorrente torna a dolersi della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto non provato che la gestante avrebbe interrotto la gravidanza, se ne fosse stata informata: questa volta però lamentando il vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c..
Sostiene la ricorrente che, avendo il giudice d’appello erroneamente escluso l’esistenza d’un valido nesso di causa tra l’errore del medico e la prosecuzione della gravidanza, sarebbe stato in tal modo violato l’art. 1223 c.c. e la disciplina del nesso causale ivi contenuta.
2.2. Il motivo è inammissibile per lo stesso motivo indicato al § 1.2: anch’esso, infatti, sotto le viste dei vizio di violazione di legge, chiede una diversa valutazione delle prove.
Il giudice d’appello, infatti, non ha affatto negato che siano risarcibili i danni derivanti da un fatto illecito (solo in questo caso si sarebbe potuto invocare una violazione dell’art. 1223 c.c.), ma ha statuito una cosa ben diversa: che dall’illecito non sono derivati danni (patrimoniali), ovvero che non ve ne era la sufficiente prova. Si tratta di una statuizione di merito, motivata e dunque insindacabile in questa sede di legittimità.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo di ricorso la sig.a R.M. lamenta che la sentenza impugnata abbia violato la legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.. Questa la tesi della ricorrente: poiché il giudice d’appello ha ritenuto sussistente la condotta colposa del medico, e la lesione del diritto della donna ad essere informata sull’esistenza della gravidanza; e poiché in base a tale accertamento ha condannato il sanitario al risarcimento del danno non patrimoniale, la Corte d’appello avrebbe dovuto necessariamente condannare il convenuto anche al risarcimento dei danno patrimoniale rappresentato dagli oneri di mantenimento del figlio. Anche questi, infatti, erano una conseguenza della lesione del “diritto alla salute” della gestante.
3.2. Il motivo è manifestamente infondato.
Nel nostro ordinamento non esistono danni in re ipsa, risarcibili sol perché si dimostri l’avvenuta lesione d’un diritto. La lesione dei diritto è il presupposto necessario, ma non sufficiente per pretendere il risarcimento del danno: ad esso dovrà necessariamente conseguire una perdita, patrimoniale o di altro tipo. L’eventuale lesione del diritto di interrompere la gravidanza è dunque giuridicamente irrilevante se la gestante, quand’anche informata, avrebbe comunque verosimilmente scelto di non abortire. E nel caso di specie, per quanto già detto, la Corte d’appello ha giustappunto escluso tale nesso di causa, con decisione non sindacabile in sede di legittimità.
4. Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo di ricorso la sig.a R.M., deducendo il vizio di violazione di legge, censura la sentenza della Corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto transeunte, invece che permanente, il danno non patrimoniale patito da una donna costretta a portare a termine una gravidanza suo malgrado, ed avrebbe di conseguenza sottostimato il danno patito dalla ricorrente.
4.2. Il motivo è inammissibile: sia perché deduce nella sostanza non già un error in iudicando ma un vizio di motivazione, senza essere concluso dalla chiara indicazione del fatto controverso, prescritta dall’art. 366 bis c.p.c.; sia perché in ogni caso la Corte d’appello ha adeguatamente motivato la propria decisione (pp. 10-11 della sentenza impugnata); sia perché la stima del danno in via equitativa costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.
5. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c..

 

P.Q.M.

 
la Corte di cassazione, visto l’art. 383, comma primo, c.p.c.:
-) rigetta il ricorso;
-) condanna R.M. alla rifusione in favore di A.E.M. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di euro 2.200, di cui 200 per spese vive, oltre IVA ed accessori.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione.

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