SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 15 ottobre 2013, n. 42349

Ritenuto in fatto

1. La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 3.5.2012, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, emessa in data 15.7.2011, con la quale D.C.L. era stato condannato alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione per i reati di cui agli artt. 81 cpv e 572 c.p. (capo a) e 609 bis c.p. (capo b), in danno della moglie F.A. , ritenuta la diminuente di cui al comma 3 del medesimo art.609 bis c.p. equivalente alla contestata recidiva, rideterminava la pena, in accoglimento dell’appello del P.G., in anni 6 di reclusione. Riteneva la Corte territoriale che erroneamente il primo giudice, pur avendo riconosciuto l’esistenza della contestata recidiva reiterata ed infraquinquennale, avesse omesso di procedere all’obbligatorio giudizio di comparazione e che tale giudizio non potesse che essere effettuato in termini di equivalenza ai sensi dell’art.69 co. 4 c.p..

2. Ricorre per cassazione D.C.L. , denunciando la violazione di legge, avendo la Corte territoriale proceduto, in accoglimento del ricorso del P.G., ad un aggravamento della pena senza tener conto delle risultanze processuali e delle valutazioni del giudice di primo grado che aveva riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di minore gravità.

Con memoria, depositata in cancelleria in data 27.3.2013, si solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 co. 4 c.p. nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis co. 3 c.p. sulla recidiva ex art. 99 co. 4 c.p., con riferimento al principio di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico dello Stato, di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., e di proporzionalità della pena e del suo fine rieducativo ex art. 27 co. 3 Cost..

Si evidenzia che la Corte Costituzionale con sentenza n.251/2012 ha, già, dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in questione in relazione al reato di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/90.

Gli stessi argomenti adoperati dal Giudice delle Leggi in detta sentenza possono valere anche in relazione al divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di minore gravità sulla recidiva.

Considerato in diritto

1. Va preliminarmente ricordato che, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 35738 del 27.5.2010, una volta contestata la recidiva nel reato, anche reiterata, purché non ai sensi dell’art.99, comma quinto cod.pen, qualora essa sia stata esclusa dal giudice, non solo non ha luogo l’aggravamento della pena, ma non operano neanche gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, di cui all’art.69 comma quarto cod.pen., dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all’art. 81 comma quarto stesso codice, dall’inibizione dell’accesso al cosiddetto patteggiamento allargato ed alla relativa riduzione premiale di cui all’art.444 comma 1 bis cod.proc.pen.; effetti che si determinano integralmente qualora, invece, la recidiva non sia stata esclusa, per essere stata ritenuta sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità.

Anche secondo la giurisprudenza costituzionale il giudice è tenuto ad applicare la recidiva, quando, considerando la natura e il tempo di commissione dei precedenti, ritiene il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 257 del 2008, n. 193 del 2008, n. 90 del 2008, n. 33 del 2008 e n. 409 del 2007).

2. La Corte territoriale ha ritenuto che non potesse essere esclusa la contestata recidiva (reiterata ed infraquinquennale) in quanto i reati contestati all’imputato, già gravato di precedenti per evasione e violazione della normativa sugli stupefacenti, costituivano espressione di maggiore colpevolezza e pericolosità sociale in quanto si inquadravano “senza dubbio alcuno in una progressione criminosa ulteriore, essendo ampliato il ventaglio di beni aggrediti dalle condotte antigiuridiche del D.C. ” (pag.2).

E, in accoglimento dell’appello del P.G., ha ineccepibilmente posto rimedio all’errore in cui era incorso il giudice di primo grado che aveva omesso di procedere all’obbligatorio giudizio di comparazione tra la ritenuta recidiva e la circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis co. 3 c.p. (anche essa già riconosciuta).

Ed ha, altrettanto correttamente, ritenuto che tale giudizio non potesse che essere espresso in termini di equivalenza per il tassativo disposto di cui all’art. 69 co. 4 c.p..

Ha, quindi, una volta riconosciuta l’esistenza della recidiva reiterata ed infraquinquennale, fatto discendere “automaticamente” dal divieto normativo la impossibilità di ritenere la prevalenza della circostanza attenuante.

Di qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 co. 4 c.p. nella parte in cui non prevede, comunque (anche quando non si tratti di recidiva specifica), la possibilità per il giudice di dichiarare la prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 69 bis co. 3 c.p. sulla recidiva ex art. 99 co. 4 c.p..

3. Come ribadito dalla Corte Costituzionale, anche con la sentenza n. 68/2012, “al pari della configurazione delle fattispecie astratte di reato anche la commisurazione delle sanzioni per ciascuna di esse è materia affidata alla discrezionalità del legislatore in quanto involge apprezzamenti tipicamente politici. Le scelte legislative sono pertanto sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (ex plurimis sentenze n. 161 del 2009, n.324 del 2008, n.22 del 2007, n.394 del 2006)”. Sicché il Giudice delle Leggi, pur non potendo rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore né stabilire quantificazioni sanzionatorie, ha il compito di verificare che l’uso della discrezionalità legislativa rispetti il limite della ragionevolezza e il principio di proporzionalità tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra. Con la sentenza n.341 del 1994 (richiamandosi le precedenti sentenze n. 422/1993; n. 343/1993; n. 313/1990; n. 409/1989, si osservava in proposito che “il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali;… le valutazioni all’uopo necessarie rientrano nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza” (v. pure nello stesso senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993). Infatti, più in generale, “il principio di proporzionalità… nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni” (sentenza n. 409 del 1989).In altre recenti decisioni, inoltre, la Corte ha maturato la convinzione che la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisca “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”: tale finalità rieducativa implica pertanto un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993).In applicazione di questi principi le sentenze da ultimo ricordate sono giunte a dichiarare costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni dell’art. 27, terzo comma, Cost.”.

4. Ritiene il Collegio che il divieto di prevalenza (previsto dall’art. 69 co. 4 c.p.) della circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis co. 3 c.p. sulla recidiva ex art.99 co.4 c.p. (in particolare quando non si tratti di recidiva specifica) violi i principi di uguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità con riferimento agli artt. 3 e 27 co. 3 Costituzione.

5. La L. 15.2.1996 n. 66 ha unificato la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine previsti dalla normativa previgente nella nozione unitaria di atti sessuali, collocando detti reati tra i delitti contro la persona invece che tra quelli contro la moralità pubblica ed il buon costume. La sfera sessuale quindi diventa diritto della persona di gestire liberamente la propria sessualità, con la conseguenza che la condotta rilevante penalmente va valutata in relazione al rispetto dovuto alla persona ed all’attitudine ad offendere la libertà di determinazione della stessa.

La ratio e la lettera della norma inducono allora a dare di atti sessuali una nozione “oggettiva”, facendovi rientrare cioè tutti quegli atti che siano oggettivamente idonei ad attentare alla libertà sessuale del soggetto passivo con invasione della sua sfera sessuale (cfr. Cass. sez. 3 n. 28815 del 9.5.2008, Belli).

Come più volte affermato da questa Corte l’aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali, potendo estendersi anche a tutte le altre zone ritenute erogene dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n.25112/2007; Cass. pen. sez. 3 11.1.2006 – Beraldo; Cass. sez. 3 1.12.2000, Gerardi; Cass. sez. 3 n. 7772/2000, Calò). Sicché nella nozione di atti sessuali debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale (in questa facendo rientrare anche le zone erogene) con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona, ovvero abuso di inferiorità fisica o psichica. E tra gli atti idonei ad integrare il delitto di cui all’art. 609 bis c.p. vanno ricompresi anche quelli insidiosi e rapidi, purché ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente (come ad es. palpamenti, sfregamenti, baci)- cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 549/2005.

6. La “unificazione” in una sola fattispecie criminosa di ogni attentato alla sfera sessuale ha indotto il legislatore, per differenziare sul piano sanzionatorio le ipotesi meno gravi (rientranti secondo la previgente disciplina negli atti di libidine), a configurare una circostanza attenuante speciale.

L’art. 609 bis co. 1 c.p. prevede una pena da 5 a 10 anni di reclusione, mentre il medesimo art. 609 bis al comma 3 stabilisce che “nei casi di minore gravità” la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi. Sicché, in caso di riconoscimento di siffatta attenuante, la pena (applicandosi l’attenuante nella massima estensione) può variare da un minimo di 1 anno e 8 mesi di reclusione ad un massimo di 3 anni e 4 mesi.

Il massimo della pena edittale, previsto nell’ipotesi di riconoscimento della circostanza attenuante speciale della minore gravità (anni 3 e mesi 4), è quindi, in modo considerevole, inferiore al minimo della pena prevista per l’ipotesi di cui al co. 1 (anni 5).

La “differenza” delle diverse ipotesi di violenza sessuale (ricomprese tutte nella fattispecie di cui all’art.609 bis c.p.) è stata tenuta presente dal legislatore anche in tema di disciplina delle misure cautelari. Ed infatti in sede di conversione del D.L., l’art. 2 comma 1 lett. a bis L.23 aprile 2009 n.39, aggiunse all’art.275 comma 3 c.p.p. il seguente periodo: “Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli artt. 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate”.

Già prima che la Corte Costituzionale, con sentenza n.265/2010 dichiarasse la illegittimità costituzionale dell’art. 275 comma 3 c.p.p. nella parte in cui, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 609 bis e 609 quater c.p. è applicata la custodia cautelare in carcere, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il legislatore aveva escluso la presunzione di adeguatezza della misura di massimo rigore per le ipotesi di minore gravità di cui all’art.609 bis co. 3 c.p..

E tanto a conferma del fatto che tali ipotesi si differenziano, sotto il profilo del danno cagionato alla vittima dall’aggressione alla sfera sessuale, da quelle previste dal comma 1.

6.1. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la circostanza attenuante di cui all’art. 609

bis comma 3 c.p. deve considerarsi applicabile in tutte quelle fattispecie in cui, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima (bene-interesse tutelato dalla norma) sia stata compressa in maniera non grave. Deve quindi farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, quali mezzi, modalità esecutive, grado di coartazione esercitato sulla vittima, condizioni fisiche e mentali di questa, caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, così da poter ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in modo non grave, come, pure, il danno arrecato anche in termini psichici (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 5002 del 7.11.2006; Cass. pen. sez. 3 n. 45604 del 13.11.2007). Bisogna tener conto cioè, oltre che della materialità del fatto, di tutte le modalità della condotta criminosa e del danno arrecato alla parte lesa ovvero degli elementi indicati dal comma primo dell’art. 133 c.p., ma non possono venire in rilievo gli ulteriori elementi di cui al comma secondo dello stesso articolo 133, utilizzabili solo per la commisurazione complessiva della pena” (Cass. pen. sez. 3 n. 2597 del 25.11.2003).

Ai fini del riconoscimento dell’attenuante della minore gravità non rileva di per sé la “natura” e “l’entità” dell’abuso, essendo necessario valutare il fatto nel suo complesso (Cass. sez. 3 n. 10085 del 5.2.2009).

L’accertamento della minore gravità compete al giudice che deve valutare il fatto nel suo complesso per applicare una sanzione proporzionata all’entità dell’aggressione alla sfera sessuale.

Risulta evidente, quindi, che la circostanza attenuante di cui al comma 3 dell’art.609 bis c.p. rappresenti un “temperamento” della unificazione in un unico reato di condotte che si differenziano nettamente in relazione alla diversa intensità della lesione del bene giuridico tutelato.

7. La norma di cui all’art. 69 co. 4 c.p. che prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis co. 3 c.p. sulla recidiva di cui all’art. 99 co. 4 c.p., impedisce sostanzialmente l’applicazione di una sanzione adeguata e proporzionata all’entità (anche se minima) dell’aggressione alla sfera sessuale della vittima, ponendo l’accento esclusivamente sulle condizioni soggettive del reo.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n.251/2012 del 5.11.2012, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dalla L. 5 dicembre 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73 co. V DPR 309/90 sulla recidiva di cui all’art.99, quarto comma del codice penale, ha già evidenziato che “il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale; alterazione che, come si vedrà, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione”. “La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare neutralizzata da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità”.

8. Anche in relazione alla fattispecie in esame, per effetto, dell’applicazione dell’art.69 co. 4 c.p. la sanzione da irrogare risulta palesemente irragionevole e non proporzionata rispetto a fatti anche di minima entità (come ad esempio lievi toccamenti, sfregamenti, baci).

Tali condotte vengono, invero, per effetto del divieto in questione, ad essere irragionevolmente sanzionate con la stessa pena, prevista dal comma 1 dell’art.609 bis c.p., per le ipotesi di violenza più gravi, vale a dire per condotte, che pur aggredendo il medesimo bene giuridico, sono completamente diverse sia per le modalità che per il danno arrecato alla vittima.

Con la conseguenza che l’autore di condotte di minore gravità, che sia però recidivo ex art. 99 co. 4 c.p., viene ad essere punito con la stessa pena prevista per chi ponga in essere comportamenti di grave aggressione alla sfera sessuale della vittima.

Tale disparità di trattamento è più evidente nel caso in cui non si tratti di recidiva specifica.

L’accentuazione della condizione soggettiva dell’autore del reato si manifesta, invero, ancor di più quando il soggetto non sia incline a commettere reati della stessa indole (nella specie contro la libertà personale).

Risulta violato anche il principio di proporzionalità della pena. Come già rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza 251/2012, “L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69 quarto comma cod.pen….attribuisce alla risposta punitiva i connotati di una pena palesemente sproporzionata e dunque inevitabilmente avvertita come ingiusta dai condannato (sent. N. 68 del 2012). Questa conclusione non può essere confutata dal rilievo dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la previsione di trattamenti sanzionatori più severi per i recidivi reiterati non potrebbe condurre a un trattamento sanzionatorio di per sé sproporzionato. Invero, la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale” (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica “un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenza n. 341 del 1994)”.

P.Q.M.

Visto l’art.23 della L. 11.3.1953 n. 83.

– Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.69 comma 4 c.p. nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis comma 3 c.p. possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva prevista dall’art. 99 comma 4 c.p., con riferimento agli artt. 3 e 27 comma 3 Costituzione.

– Sospende il giudizio in corso fino all’esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

– Dispone che, a cura della cancelleria, gli atti siano trasmessi alla Corte Costituzionale e che la presente ordinanza sia notificata alle parti, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri e che sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

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