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Suprema Corte di Cassazione

sezione III
sentenza 14 marzo 2014, n. 12253

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente
Dott. GENTILE Mario – Consigliere
Dott. ACETO Aldo – Consigliere
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere
Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Trieste;
nel proc. contro:
– (OMISSIS), n. (OMISSIS);
avverso le sentenze del Tribunale di PORDENONE n. 679/2012 e n. 680/2012, emesse entrambe in data 6/11/2012;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, con annullamento dell’impugnata sentenza con rinvio al tribunale;
lette per il ricorrente le conclusioni dell’Avv. (OMISSIS) del Foro di (OMISSIS), che ha chiesto il rigetto del ricorso del P.G..
RITENUTO IN FATTO
1. Con separate sentenze del 6/11/2012, depositate in pari data, il tribunale collegiale di PORDENONE: a) dichiarava (sentenza n. 680/2012) non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) in riferimento ai reati a lui ascritti ai capi a1), e1) e g1) della rubrica, per essersi gli stessi estinti per remissione di querela ex articolo 152 c.p., e, con riferimento al capo l), perche’ l’azione penale non doveva essere iniziata per difetto di querela; b) applicava, su richiesta delle parti, nei confronti del medesimo, previo riconoscimento dell’attenuante del fatto di minore gravita’ (articolo 609 bis c.p., u.c.) e dell’attenuante del risarcimento del danno (articolo 62 c.p., n. 6), ritenute prevalenti sulle contestate aggravanti e unificati i fatti sotto il vincolo della continuazione, la pena condizionalmente sospesa di un anno e dieci mesi di reclusione, per i reati a lui ascritti ai capi b), c), d), f), h) ed i) della rubrica.
2. Giova premettere, per migliore comprensione, che i reati in questione per i quali e’ intervenuta sentenza di proscioglimento concernono: a1) delitto di cui all’articolo 612 bis c.p. (l’addebito e’ relativo ad una serie di atti persecutori posti in essere nei confronti di (OMISSIS), dipendente dell’imputato, in un arco temporale compreso tra il febbraio e l’ottobre del 2009, con querela sporta il 15/12/2009); e1) delitto di cui all’articolo 612 bis c.p. (l’addebito e’ relativo ad una serie di atti persecutori posti in essere nei confronti di (OMISSIS), dipendente dell’imputato, in un arco temporale compreso tra il gennaio 2008 e l’ottobre del 2009, con querela sporta il 16/11/2009); g1) delitto di cui all’articolo 612 bis c.p. (l’addebito e’ relativo ad una serie di atti persecutori posti in essere nei confronti di (OMISSIS), dipendente dell’imputato, in un arco temporale compreso tra il febbraio e l’ottobre del 2009, con querela sporta il 26/11/2009); l) delitto di cui all’articolo 612 bis c.p. (l’addebito e’ relativo ad una serie di atti persecutori posti in essere nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), dipendenti dell’imputato, in un arco temporale compreso tra il settembre 2007 e l’ottobre del 2009).
Per quanto, invece, concerne i reati per cui e’ intervenuta sentenza di applicazione della pena, gli stessi concernono: b) delitto di violenza sessuale aggravata, ai sensi dell’articolo 61 c.p., nn. 2 11, (l’addebito riguarda l’aver ripetutamente costretto, al fine di commettere i delitti sub a) ed a1), la dipendente (OMISSIS) a subire atti sessuali, in un arco temporale compreso tra il settembre 2007 e l’ottobre 2009); c) delitto di violenza sessuale aggravata, ai sensi dell’articolo 61 n. 2 ed 11 c.p. (l’addebito riguarda l’aver ripetutamente costretto, al fine di commettere i delitti sub a) ed al), la medesima dipendente (OMISSIS) a subire rapporti sessuali, in due distinti episodi, avvenuti il 14/10/2009 ed il 7/11/2009); d) delitto di violenza privata aggravato ai sensi dell’articolo 61 c.p., nn. 2 ed 11 (l’addebito riguarda l’aver minacciato, al fine di commettere i delitti sub a) ed a1), la dipendente (OMISSIS) di licenziamento ove l’avesse denunciato, costringendola a non sporgere querela per le violenze sessuali e molestie subite, fatti commessi in un arco temporale tra il settembre 2007 e l’ottobre 2009); f) delitto di violenza sessuale aggravata, ai sensi dell’articolo 61 c.p., nn. 2 ed 11, (l’addebito riguarda l’aver costretto, al fine di commettere i delitti sub e) ed e1), la dipendente (OMISSIS) a subire atti sessuali, in data 26/08/2008); h) delitto di violenza sessuale aggravata, ai sensi dell’articolo 61 c.p., nn. 2 ed 11, (l’addebito riguarda l’aver ripetutamente costretto, al fine di commettere i delitti sub g) e gi’), la dipendente (OMISSIS) a subire atti sessuali, fatti commessi in un arco temporale tra il settembre 2007 e l’ottobre 2009); i) delitto di violenza privata aggravato ai sensi dell’articolo 61 c.p., nn. 2 ed 11, (l’addebito riguarda l’aver minacciato, al fine di commettere i delitti sub g) e g1), la dipendente (OMISSIS) di licenziamento ove l’avesse denunciato, costringendola a non sporgere querela per le violenze sessuali e molestie subite, fatti commessi in un arco temporale tra il settembre 2007 e l’ottobre 2009).
3. Ha proposto tempestivi ricorsi il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Trieste, impugnando ambedue le sentenze predette, deducendo, in ciascuna impugnazione, un identico motivo di ricorso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, in particolare, con l’unico motivo di ricorso, la violazione di legge (articolo 606 c.p.p., lettera b)), in relazione l’articolo 446 c.p.p., comma 1, articolo 421 c.p.p., comma 3, articolo 516 c.p.p., nonche’ in relazione all’articolo 62 c.p., n. 6, e articolo 612 bis c.p., u.c.).
Rileva il PG ricorrente che, all’udienza dibattimentale del 6/11/2012, il PM di udienza, nello scogliere la riserva sulle imputazioni alternative, ha individuato precisamente, rispetto ad esse, i fatti addebitati e la relativa qualificazione giuridica, privilegiando l’accusa di atti persecutori (articolo 612 bis c.p.) rispetto a quella di maltrattamenti (articolo 572 c.p.); analogamente, l’addebito di maltrattamenti (articolo 572 c.p.) originariamente rubricato al capo l), e’ stato ricondotto alla fattispecie di atti persecutori, tramite apposita modifica dell’imputazione operata dal PM all’udienza. Conseguentemente, il tribunale, separava il processo in due distinti gruppi d’imputazioni: un primo gruppo, comprendente i reati di violenza sessuale e violenza privata, definito con sentenza di patteggiamento; un secondo gruppo, comprendente le residue ipotesi di atti persecutori, definito invece con sentenza di non doversi procedere per remissione di querela.
L’operazione processuale, evidenzia il PG, e’ stata resa possibile attraverso tre distinti passaggi: 1) risarcimento delle persone offese e revoca delle costituzioni di parte civile; 2) parziale modifica di alcuni capi di imputazione e restituzione in termini dell’imputato per patteggiare a pena sospesa, previo riconoscimento dell’attenuante del fatto di minore gravita’ ex articolo 609 bis c.p., u.c., e di quella del risarcimento del danno ex articolo 62 c.p., n. 6; 3) estinzione dei reati di atti persecutori tramite remissione di querela e relativa accettazione.
2.2. Con particolare riferimento al punto sub 3), il PG ricorrente ritiene errata anzitutto la decisione del tribunale di prosciogliere l’imputato, atteso che si tratta di reato perseguibile d’ufficio, ai sensi dell’articolo 612 bis c.p., u.c., in quanto connesso con altro delitto procedibile d’ufficio, precisamente con i reati di violenza privata aggravata rubricate ai capi d) ed i), realizzate in danno delle persone offese (OMISSIS) e (OMISSIS).
Ne consegue, pertanto, che la sentenza n. 680/2012 e’ stata emessa in violazione di legge quanto al proscioglimento pronunciato per i capi a1) e g1), in quanto relativa a fatti connessi con quelli descritti ai capi d) ed i), trattati separatamente nella sentenza di patteggiamento n. 679/2012.
2.3. Con riferimento al punto sub 2), il PG ricorrente, pur richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 265/1994, censura la “remissione in termini” del (OMISSIS) agli effetti del patteggiamento, qualificata come illegittima, in particolare per aver il PM semplicemente “sciolto la riserva” su imputazioni alternative, gia’ peraltro compiutamente formulate nella richiesta di rinvio a giudizio ed in ordine alle quali l’imputato non aveva avanzato alcuna richiesta di definizione anticipata; ancora, censura la modifica dell’imputazione relativa al capo l), da maltrattamenti ad atti persecutori, che si risolve essenzialmente in una diversa qualificazione giuridica della medesima condotta; infine, si censura il riconoscimento all’imputato dell’attenuante del risarcimento del danno, a dibattimento gia’ iniziato.
3. Con parere depositato presso la Cancelleria di questa Corte in data 30/09/2013, il Procuratore Generale presso la S.C., nel condividere le argomentazioni esposte dal PG ricorrente, ha chiesto l’accoglimento del ricorso, con annullamento delle impugnate sentenze.
4. Con articolata memoria tempestivamente depositata presso la cancelleria di questa Corte, l’avv. (OMISSIS), difensore di fiducia e procuratore speciale del (OMISSIS), ha chiesto rigettarsi il ricorso del P.G..
CONSIDERATO IN DIRITTO
5. Il ricorso contro la sentenza n. 680/2012 e’ fondato per le ragioni di seguito esposte.
6. Deve, preliminarmente osservarsi, in merito alla questione della c.d. imputazione alternativa, che la giurisprudenza, in contrasto le osservazioni della dottrina, ammette pacificamente la formulazione di un’imputazione alternativa da parte del pubblico ministero (Sez. 2, n. 18115 del 01/04/2003 – dep. 16/04/2003, PM in proc. Marco, Rv. 224657). Si afferma tradizionalmente, infatti, che la contestazione alternativa e’ perfettamente legittima e l’ordinamento appresta gli strumenti perche’, nel corso del dibattimento, il P.m. possa operare una opzione definitiva fra piu’ imputazioni (articoli 516 e 521 c.p.p.: Sez. 6, n. 4187 del 09/12/1999 – dep. 01/02/2000, P.m. in proc. Martinelli, Rv. 216503; con riferimento alla genericita’ del capo di imputazione, peraltro, v. Sez. 5, n. 27990 del 20/05/2004 – dep. 22/06/2004, P.M. in proc. Fragna ed altri, Rv. 228684, per cui non si considera abnorme, e non puo’ essere, quindi, oggetto di ricorso per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare dichiari la nullita’ della richiesta di rinvio a giudizio per ritenuta genericita’ o indeterminatezza del capo d’imputazione; contra Sez. 1, n. 28987 del 04/04/2003 – dep. 08/07/2003, P.M. in proc. Esposito ed altri, Rv. 227383; con riguardo al rapporto fra richiesta di rinvio a giudizio e avviso di conclusione delle indagini preliminari, v. Sez. 1, n. 11405 del 30/01/2004 – dep. 10/03/2004, P.M. in proc. Marastoni, Rv. 227820).
Nel caso in esame, il PG ricorrente, tuttavia, non tiene conto di un dato oggettivo emergente dalla lettura degli atti processuali, ossia che il Pubblico Ministero, all’ud. 6/11/2012, aveva eseguito la scelta tra le imputazione alternative originariamente contestate, privilegiando l’accusa di atti persecutori rispetto a quella di maltrattamenti, operazione posta in essere successivamente all’esame delle persone offese, svoltosi in data 13/03/2012, che imponeva – a seguito del ridimensionamento delle iniziali dichiarazioni – una modifica delle accuse, cosi’ consentendo all’imputato di accedere al patteggiamento. Non si e’ trattato, dunque, di un illegittimo recupero del rito alternativo da parte dell’imputato, ma, piuttosto, del legittimo esercizio di una facolta’ processuale da parte dell’imputato medesimo, resa possibile solo a seguito dell’esercizio dell’opzione contestativa da parte del Pubblico Ministero d’udienza, non potendo peraltro convenirsi con la tesi del PG ricorrente secondo cui tale richiesta non sarebbe stata possibile non avendo l’imputato avanzato, entro il limite temporale di legge, alcuna richiesta di definizione anticipata del processo. Nessuna norma, peraltro, a fronte di un’imputazione alternativa, di per se’ fluida, impone all’imputato di formulare una richiesta di patteggiamento sull’imputazione piu’ lieve, come prospettato dal PG ricorrente.
Deve, invece, ritenersi che la facolta’ di rimettere in termini l’imputato, al fine di accedere al patteggiamento, debba essere concessa allorquando venga meno l’incertezza determinata da una contestazione alternativa, ed il PM si orienti a formulare una determinata imputazione; a ritenere diversamente, infatti, si realizzerebbe una compromissione del diritto dell’imputato in quanto la stessa alternativita’ dell’imputazione, in astratto, pone l’imputato di fronte ad una tema storico indeterminato. Vero e’, come ricordato, che per la giurisprudenza di questa Corte, tale modalita’ contestativa e’ legittima quando essa trova riscontro nella condotta dell’imputato che sia tale da richiedere un approfondimento dell’attivita’ istruttoria per la definitiva qualificazione dei fatti contestati, ma e’ altrettanto vero, pero’, che, secondo una lettura costituzionalmente orientata del sistema processuale alla luce di quanto autorevolmente affermato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 265/1994), dev’essere riconosciuto il diritto dell’imputato di accedere ai riti alternativi sino a quando – come nel caso in esame – questi abbia puntuale conoscenza dell’addebito.
Non puo’, poi, convenirsi con il PG ricorrente nel ritenere illegittima la “rimessione in termini” agli effetti del patteggiamento in base al rilievo che, per effetto della predetta sentenza della Consulta, la possibilita’ del recupero del patteggiamento sarebbe possibile solo in presenza di contestazioni suppletive. Ed invero, l’imputazione alternativa, sia nel senso di contestazione di piu’ reati che in quello, piu’ ridotto, di contestazione di fatti alternativi nell’ambito della stessa ipotesi criminosa e’ perfettamente legittima proprio perche’ garantisce in modo piu’ efficiente la possibilita’ di difesa dell’imputato il quale non si trova esposto nel corso del dibattimento a nuove contestazioni, ai sensi dell’articolo 516 c.p.p. e segg., potendo fin dall’inizio apprestare la propria difesa sulla contestazione sia pure a piu’ largo raggio rispetto a quella minima ipotizzabile; mentre dovra’ poi essere il giudice a scegliere quali siano, ad esempio, le modalita’ della condotta che ritiene effettivamente sussistenti, senza che percio’ possa parlarsi di immutazione del fatto, rimasto identico a quello contestato, ovvero di mancanza di correlazione tra accusa e sentenza, ai sensi dell’articolo 521 c.p.p., che puo’ derivare solo da una trasformazione radicale del fatto nei suoi elementi essenziali, si’ da pervenire ad una incertezza della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996 – dep. 22/10/1996, Di Francesco, Rv. 205619).
Proprio la finalizzazione della contestazione alternativa a evitare il ricorso alle contestazioni suppletive, dunque, rende del tutta legittima la scelta dell’imputato di postergare l’opzione adesiva al rito alternativo sino al momento (eventuale, non essendovi il PM obbligato) di scelta dell’imputazione “definitiva” da parte della Pubblica Accusa.
Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:
“La facolta’ dell’imputato di accedere a un rito alternativo (nella specie, il patteggiamento) puo’ essere esercitata, in caso d’imputazione alternativa, fino a quando viene meno l’incertezza determinata dalla duplicita’ della contestazione mediante la formulazione da parte del P.M., ove effettuata, dell’imputazione definitiva”.
7. Il ricorso proposto dal P.G. nei confronti della sentenza n. 679/2012 dev’essere dichiarato inammissibile, sia per quanto concerne quelle censure che si risolvono in un recesso dall’accordo (Sez. 6, n. 28427 del 12/03/2013 – dep. 01/07/2013, Pg in proc. Ennaciri, Rv. 256455), sia per quanto concerne le censure sulla qualificazione giuridica, dovendo svolgersi la verifica esclusivamente sulle imputazioni definitive, da cui non emerge che si sia trattato di un accordo sui reati, atteso che l’incontro delle volonta’ delle parti, pubblica e privata, e’ stato reso possibile, come visto, solo a seguito dello “scioglimento” dell’imputazione alternativa (v., Sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012 – dep. 02/04/2013, Bisignani, Rv. 254865, secondo cui la possibilita’ di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza deve essere limitata ai casi di errore manifesto, ossia ai casi in cui sussiste l’eventualita’ che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilita’; inoltre, anche in questo caso, la verifica sull’osservanza della previsione contenuta nell’articolo 444 c.p.p., comma 2, deve essere compiuta esclusivamente sulla base dei capi di imputazione, della succinta motivazione della sentenza e dei motivi dedotti nel ricorso).
8. A diverso approdo deve, invece, pervenirsi, quanto al ricorso avverso la sentenza n. 680/2012.
Come anticipato, infatti, la sentenza di non doversi procedere e’ stata emessa dal tribunale con riferimento a tre diverse imputazioni di atti persecutori, di cui vittime risultavano essere (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’, con riferimento all’imputazione sub I), le dipendenti (OMISSIS) e (OMISSIS); la formula di proscioglimento adottata dal tribunale, in particolare, e’ stata di estinzione dei reati posti in essere nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), per remissione di querela e, nei confronti delle dipendenti (OMISSIS) e (OMISSIS), per l’improcedibilita’ dell’azione penale per difetto di querela.
Tale operazione, come gia’ chiarito in precedenza, costituisce la legittima risultante dello scioglimento della riserva da parte del PM relativa all’originaria imputazione alternativa (articolo 572 c.p., articolo 612 bis c.p.). Tuttavia, errata e’ la conclusione cui perviene il tribunale nel ritenere venuta meno la procedibilita’ d’ufficio dei reati in questione. Ed infatti, come correttamente rilevato dal PG ricorrente, il reato di atti persecutori deve ritenersi, nel caso di specie, perseguibile d’ufficio ai sensi dell’articolo 612 bis c.p., u.c., in quanto teleologicamente connesso ex articolo 61 c.p., n. 2, con altro delitto perseguibile d’ufficio e, precisamente, con le ipotesi di violenza privata aggravata rubricate ai capi d), f) ed i) realizzate in danno delle pp.oo. (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) (capi a1), e1) e g1), in modo da costringere le predette a non denunciare i soprusi a sfondo sessuale da esse subiti cosi’ da reiterare ulteriori condotte analoghe. La difesa ha sostenuto che la connessione teleologica e’ contestata in relazione al reato di violenza privata ex articolo 610 c.p., quale reato mezzo, e non con riferimento al reato di atti persecutori, nel caso di specie il reato fine. La connessione teleologica determinerebbe, quindi, esclusivamente l’aumento di pena, ma non l’applicabilita’ dell’articolo 612 bis c.p., u.c., applicabilita’ che presupporrebbe, invece, che l’aggravante in parola fosse stata contestata con riferimento all’ipotesi delittuosa degli atti persecutori. In altri termini, dunque, la procedibilita’ d’ufficio si renderebbe necessaria nel momento in cui il reato di atti persecutori e’ configurato come reato mezzo, in quanto l’indagine su quei fatti diviene necessaria per l’accertamento del reato fine e giustifica una compromissione della tutela della riservatezza del singolo. La tesi, pur suggestiva, non convince.
E’ vero che questa stessa Sezione ha gia’ avuto modo di affermare che il reato di violenza privata e’ speciale rispetto al reato di atti persecutori di cui all’articolo 612 bis c.p., in considerazione dell’elemento specializzante dato dallo scopo di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa, impedendone la libera determinazione con una condotta immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla liberta’ psichica del soggetto passivo (Sez. 3, n. 25889 del 20/03/2013 – dep. 13/06/2013, Ayari, Rv. 255561), ma e’ altrettanto vero che, nel caso in esame, le condotte risultano tra loro autonome ed indipendenti, donde non e’ ipotizzabile alcun assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di violenza privata, tenuto, altresi’, conto che la nozione di connessione, cui si richiama l’articolo 61 c.p., n. 2, dev’essere inteso in senso ampio (Sez. 5, n. 14692 del 12/12/2012 – dep. 28/03/2013, Poloni, Rv. 255438), ricorrendo non solo quando vi e’ connessione in senso processuale (articolo 12 c.p.p.), ma anche quando v’e’ connessione in senso materiale, cioe’ ogni qualvolta l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l’uno in occasione dell’altro, oppure l’uno per occultare l’altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell’articolo 371 c.p.p., e purche’ le indagini in ordine al reato perseguibile di ufficio siano state effettivamente avviate. Nel caso di specie, sussisteva un’indubbia connessione investigativa tra i fatti, neutralizzata – come evidenziato dal PG ricorrente – attraverso l’escamotage di separare le due imputazioni.
Ada analoghe conclusioni deve, pervenirsi, anche per quanto concerne l’imputazione sub l), avente ad oggetto analoga contestazione di atti persecutori posti in essere nei confronti delle due dipendenti (OMISSIS) e (OMISSIS), in relazione alla quale il tribunale e’ pervenuta all’adozione della declaratoria di proscioglimento in ordine al delitto di cui all’articolo 612 bis c.p., per l’improcedibilita’ dell’azione penale per difetto di querela.
In relazione a tale declaratoria, anche il PG ricorrente ritiene che gli i fatti siano coperti dalla remissione di querela, per mancanza di una siffatta connessione. Ritiene il Collegio che tale soluzione non possa essere condivisa, dovendo pertanto procedere, ai sensi dell’articolo 609 c.p.p., comma 2, ad adottare d’ufficio pronuncia di annullamento dell’impugnata sentenza, essendo consentito in questa sede superare i limiti del “devolutum” e dell’ordinata progressione dell’impugnazione non solo per le violazioni di legge che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (come nell’ipotesi di “ius superveniens”) ma anche, come nel caso in esame, per le questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento del fatto, rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio (v., sul punto: Sez. 5, n. 9360 del 24/04/1998 – dep. 13/08/1998, Fichera, Rv. 211441).
Ed invero, rileva il Collegio come l’imputazione in questione e’ stata qualificata dal P.M. nell’ambito del reato di atti
persecutori, reato previsto dall’articolo 612 bis c.p., tuttavia introdotto dal Decreto Legge 23 febbraio 2009, n. 11, articolo 7, comma 1, convertito con modificazioni in Legge 23 aprile 2009, n. 38.
Dalla contestazione mossa all’imputato, peraltro, si rileva che il periodo del commesso reato spazia dal settembre 2007 all’ottobre 2009.
Quanto sopra e’ sufficiente – non competendo a questa Corte di procedere a valutazioni del merito delle condotte, devolute alla cognizione del giudice del rinvio – per ritenere esistente l’errore di diritto cui e’ incorso il tribunale nel pronunciare sentenza d’improcedibilita’ con la formula indicata, atteso che, quantomeno per i fatti dal settembre 2007 al febbraio 2009 (e lo stesso si rileva, quanto all’imputazione sub e1), per i fatti contestati come commessi dal gennaio 2008 al febbraio 2009), nessun accertamento il tribunale ha svolto (ne’ lo si rileva dalla motivazione dell’impugnata sentenza) in ordine alle ragioni per le quali il collegio ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica dei fatti contestati come rientranti nel delitto di atti persecutori, essendo infatti entrato in vigore il Decreto Legge n. 11 del 2009 (che ha introdotto il nuovo reato di stalking) a far data dal 25 febbraio 2009.
L’introduzione del delitto in esame, pur con l’adozione della tecnica della aggiunzione normativa, pone problemi in relazione all’applicazione del principio di irretroattivita’ della norma penale. Ora, nell’ipotesi in cui, prima dell’entrata in vigore del Decreto Legge 23 febbraio 2009, n. 11, le minacce o le molestie abbiano gia’ raggiunto un livello di reiterazione sufficiente per integrare la condotta tipica del reato, varra’ il divieto di cui all’articolo 2 c.p., comma 1. Invece, nell’ipotesi nella quale la consumazione del reato si collochi temporalmente dopo l’entrata in vigore del predetto d.l. n. 11/2009, raggiungendo, successivamente a tale data, la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice, si potra’ applicare la nuova norma. Ed invero, come gia’ affermato da questa Corte, si configura il delitto di cui all’articolo 612 bis c.p., quando, pur essendosi la condotta persecutoria instaurata in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti, anche dopo l’entrata in vigore del decreto legge, la reiterazione di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo status di persona lesa nella propria liberta’ morale in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura (Sez. 5, n. 10388 del 06/11/2012 – dep. 06/03/2013, D., Rv. 255330). In assenza di qualsiasi accertamento (ne’ avendo speso alcuna motivazione sul punto, ricordandosi che la motivazione assente integra un’ipotesi di violazione di legge, v., tra le tante: Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003 – dep. 10/06/2003, Pellegrino S., Rv. 224611) in ordine alle ragioni per le quali il collegio ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica dei fatti contestati, anche precedentemente al 25 febbraio 2009, come rientranti nel delitto di atti persecutori, l’impugnata sentenza dev’essere annullata.
Ne consegue, complessivamente, la fondatezza del motivo di ricorso proposto dal P.G. e l’annullamento dell’impugnata sentenza n. 680/2012, con rinvio alla Corte d’appello di Trieste a norma dell’articolo 569 c.p.p., comma 4.
P.Q.M.
Annulla la sentenza n. 680/2012 del tribunale di Pordenone, con rinvio alla Corte d’Appello di Trieste.
Rigetta, nel resto, il ricorso.

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