Cassazione toga nera

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 13 maggio 2014, n. 10337

Svolgimento del giudizio

Nell’aprile ’97 M.A. – magistrato in (…) conveniva in giudizio, avanti al tribunale di Milano, la A. M. Editore spa, C.M. (giornalista) e B.R. (direttore responsabile) al fine di ottenerne la condanna in via solidale al risarcimento dei danni causatigli dalla pubblicazione in data (omissis) , sul periodico (…), di due articoli ritenuti gravemente diffamatori della sua reputazione personale e professionale.
Nella costituzione dei convenuti, interveniva la sentenza n. 4034 del 2 aprile 2003, con la quale il tribunale adito accoglieva la domanda limitatamente al primo dei due articoli dedotti in giudizio, dal titolo “Siamo entrati nell’hotel della camorra”, con condanna solidale dei convenuti al pagamento della complessiva somma di Euro 8000; di cui Euro 6000,00 a titolo di risarcimento del danno, ed Euro 2000,00 a titolo di sanzione pecuniaria ex articolo 12 l. 47/48; oltre accessori e spese. Respingeva invece la domanda relativa al secondo articolo, intitolato “M. non più M. “.
Interposto appello principale dalla Arnoldo Mondadori Editore spa, ed appello incidentale dal M. , interveniva la sentenza n. 2102 del 17 luglio 2007 con la quale la corte di appello di Milano rigettava l’appello principale e, in parziale accoglimento di quello incidentale, dichiarava diffamatorio anche il secondo, articolo, condannando la Arnoldo Mondadori al risarcimento del danno equitativamente stabilito in complessivi Euro 50.000,00, ferma restando la somma di Euro 2000,00 a titolo di sanzione pecuniaria come già stabilita dal primo giudice.
Avverso tale statuizione viene dalla Arnoldo Mondadori Editore spa proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, ai quali resiste il M. con controricorso.

Motivi della decisione

p.1.1 Con il primo motivo di ricorso la A. M. Editore deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art.360, 1^ co., n. 3) cpc, con riferimento all’art. 331 cod.proc.civ., dal momento che la corte di appello si era pronunciata senza integrare il contraddittorio nei confronti del giornalista C. e del direttore responsabile B. , già costituitisi nel primo grado di giudizio. Con ciò tralasciando di considerare che l’accertamento della responsabilità della casa editrice per il reato di diffamazione a mezzo stampa, ancorché effettuato in via incidentale, non poteva che essere reso quantomeno nel contraddittorio col giornalista ed autore materiale dell’illecito, vertendosi nella specie di un’ipotesi di litisconsorzio necessario.
p.1.2 Il motivo è infondato.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, sussiste nella specie un’ipotesi di responsabilità solidale ex lege, secondo quanto previsto dall’art. 11 l. 47/1948: “Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore”.
Costante è l’orientamento di legittimità per cui il regime sostanziale di solidarietà passiva si associa, in sede processuale, a scindibilità di cause e litisconsorzio facoltativo: Cass. 12.11.10 n. 23016; 18.5.12 n.7907; 29.10.13 n. 24362 ed altre.
Tale principio è stato affermato (Cass. n. 11952 del 17/05/2010) anche con specifico riguardo all’illecito diffamatorio. In ordine al quale la scindibilità processuale delle posizioni sostanziali caratterizzate dalla solidarietà trova fondamento nel fatto che tale illecito è unisoggettivo e non a concorso plurisoggettivo necessario; e che l’accertamento di responsabilità in capo ad uno dei soggetti coinvolti (pur in presenza di condotte autonome e diverse tra i vari agenti) non costituisce il presupposto logico-giuridico della pronuncia nei confronti degli altri.
Né potrebbe affermarsi nella specie un’ipotesi di litisconsorzio necessario – di pura genesi processuale – per il solo fatto della partecipazione del giornalista e del direttore responsabile al primo grado di giudizio. Non risulta infatti la proposizione di domande tra i convenuti ingeneranti un vincolo di dipendenza processuale tra le posizioni dei medesimi: non di accertamento della responsabilità esclusiva di taluno ad esonero di altri, e nemmeno di accertamento della quota di responsabilità ascrivibile a ciascuno a titolo di regresso anticipato (Cass. n. 19584 del 27/08/2013).
p.2.1 Con il secondo motivo di ricorso, la Arnoldo Mondadori Editore lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art.360, 1^ co., n.3) cpc, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex articolo 360 1^ co. n. 5 cpc, atteso che la corte di appello aveva ritenuto sussistenti – con riguardo ad entrambi gli articoli considerati – tutti gli elementi del reato di cui all’articolo 595 codice penale, senza affermare al contempo la sussistenza nella specie della scriminante di cui all’articolo 51 codice penale, in ragione del legittimo esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero di cui all’articolo 21 Cost.: inteso sia come diritto di cronaca, sia come diritto di critica.
Con riguardo al primo articolo, la corte di appello aveva escluso l’esimente in questione assumendo la non veridicità della notizia (frequentazione da parte del M. , in XXXXXX, di un albergo equivoco gestito da camorristi), nonostante che l’oggettiva rispondenza di quest’ultima risultasse sia da quanto emerso in seno alla Prima Commissione Referente del Consiglio Superiore della Magistratura che, anche per tale ragione, aveva espresso parere negativo di minoranza (menzionato nell’articolo) in ordine alla nomina del M. a magistrato di cassazione; sia da quanto ammesso da quest’ultimo in ordine al fatto di aver conosciuto di vista il proprietario dell’hotel, ed alla possibilità di x aver preso, presso quell’albergo, qualche caffè. A nulla rilevando, trattandosi di aspetto secondario rispetto alla notizia di fondo (data dalla frequentazione dell’albergo), che l’articolo non riportasse l’intera dichiarazione dell’interessato, secondo cui tale evenienza poteva essersi verificata casualmente; appunto per prendere “qualche caffè”, ed “in compagnia di qualche carabiniere”.
Con riguardo al secondo articolo, la decisione della corte d’appello di non riconoscere l’esimente citata urtava con la circostanza che l’elemento diffamatorio individuato nell’aver menzionato trascorsi giudiziari del M. senza dare al contempo conto della loro avvenuta archiviazione, doveva invece essere escluso dal fatto che l’articolista aveva menzionato quest’ultimo evento con un’espressione esplicita ed inequivocabile: “ma anche quella tempesta passò”. Inoltre, doveva considerarsi che – come più volte affermato dalla corte di legittimità – il criterio della verità oggettiva (comunque nella specie rispettato) poteva valere per l’esercizio del diritto di cronaca, non anche per quello di critica, per sua natura connaturato alla manifestazione soggettiva di un’opinione.
p.2.2 La censura è infondata sotto entrambi i profili dei quali si compone.
Per quanto concerne il primo articolo (“Siamo entrati nell’hotel della camorra”) la corte di appello ha escluso l’esimente di cui all’articolo 51 cp, atteso che esso: – non dava conto del fatto che la notizia (frequentazione dell’albergo equivoco) era di “terza mano” perché non proveniente direttamente dall’avvocato Ba. , in esso menzionato, bensì da altre notizie di stampa, sicché la legittimità della propalazione dell’informazione doveva ritenersi (sent. pag. 4) “comunque discutibile, a fronte della necessità di verificare l’attendibilità della fonte e, altresì, di evitare di fungere da cassa di risonanza”; – poneva una serie di domande retoriche, tendenziose e screditanti su fatti non veri e, come tali, estranei al diritto di cronaca (si domandava nell’articolo se il M. fosse “socio onorario” dell’hotel legato alla camorra; se ne avesse “la tessera VIP”; oppure, come un magistrato definito “il D.P. di XXXXXX”, e “novello eroe partenopeo di Mani Pulite” potesse vendersi “se l’ha fatto, per qualche ora d’amore”; – non aveva riportato quanto il M. aveva dichiarato al PM di Salerno in ordine alla frequentazione dell’albergo secondo cui “forse, qualche caffè poteva averlo preso in compagnia di qualche carabiniere”, dal che si doveva evincere che ammettere “di aver preso forse qualche caffè era a tutta evidenza cosa ben diversa dall’avere ammesso di frequentare l’albergo”.
Per quanto attiene al secondo articolo (“M. non più M. “), la corte di appello (sent. pag. 5) ne ha fornito una valutazione unitaria con il primo, in quanto riportato in un “box”, e ad esso riferito. In tale articolo la corte ha ravvisato contenuto diffamatorio non scriminato, in ragione del fatto che esso: – non rispondeva a verità nella parte in cui ometteva “la doverosa notizia dell’archiviazione” di due vicende giudiziarie alle quali il M. era stato sottoposto; né tale informazione si poteva univocamente desumere dall’aver scritto semplicemente “ma anche quella tempesta passò”; – attribuiva al M. l’aver fatto, “marcire” per anni l’inchiesta sul dopo-terremoto, senza che tale notizia fosse stata provata come vera, posto che “il mero riferimento alla sua provenienza da magistrati non identificati non appare certo sufficiente ad imprimerle né il carattere della verità, né della verosimiglianza”.
p.2.3 Per quanto concerne la doglianza ex articolo 360, 1^ co.n.3) cod.proc.civ., la corte di appello ha correttamente applicato la normativa di riferimento (artt.595-51 cp; 21 Cost.), come costantemente interpretata in sede di legittimità; segnatamente in punto verità e continenza della pubblicazione.
Così quanto, in particolare, alle valutazioni di merito rese in ordine: – al mancato raggiungimento della prova di verità; nella specie tentata, da un lato, attraverso l’attribuzione di significato senz’altro ammissivo ad un’affermazione del M. che, al contrario, non implicava ammissione di frequentazione dell’albergo con le modalità e per gli scopi indicati nell’articolo; e, dall’altro, attraverso il richiamo ad un inciso inadeguato ed equivoco nel dare doverosa contezza del fatto che le indagini giudiziarie a carico del M. erano state archiviate; – alla considerazione necessariamente unitaria e complessiva delle modalità di esposizione della notizia, nella specie concretantesi nell’individuazione di un messaggio informativo comune ai due articoli, dei quali il secondo costituiva appendice/integrazione del primo nell’ambito di un unico contesto denigratorio; contesto caratterizzato dalla formulazione di interrogativi retorici di per sé chiaramente tendenziosi e diffamatori.
Va qui ribadito che “la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore è scriminata per legittimo esercizio del diritto di cronaca se ricorrono: a) la verità oggettiva (o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca), la quale non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o colposamente taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato, ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive, sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà; b) l’interesse pubblico all’informazione, cioè la cosiddetta pertinenza; c) la forma civile dell’esposizione e della valutazione dei fatti, cioè la cosiddetta continenza” (Cass. n. 14822 del 04/09/2012, ed altre).
Tali parametri – correttamente applicati nella sentenza in esame al fine di escludere nel caso concreto le invocate esimenti – debbono valere per il diritto di critica non meno che per quello di cronaca (Cass. 15443 del 20/06/2013).
Ciò perché anche il diritto di critica, ancorché per sua natura contrassegnato non dalla divulgazione di un fatto obiettivo, ma dalla libera manifestazione di un’opinione soggettiva, deve pur sempre esercitarsi non soltanto in presenza di un apprezzabile interesse pubblico all’interpretazione critica della notizia commentata, ma anche nel rispetto della continenza verbale; la quale deve a sua volta essere sempre valutata, secondo parametri complessivi e non formali, nel bilanciamento della libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, con il diritto individuale alla reputazione ed all’onore.
p.2.4 Per quanto concerne la censura ex articolo 360, 1^ co. n.5) cod.proc.civ., il ragionamento seguito dalla corte milanese risulta sufficientemente logico e lineare nell’individuazione nel caso concreto delle cause di non riconoscibilità delle esimenti invocate.
È vero che, per quanto concerne il primo articolo, la ricorrente ripropone in questa sede una diversa interpretazione del testo della relazione di minoranza CSM cit., in forza della quale l’inciso, ivi contenuto, “secondo quanto ampiamente riportato dalla stampa” andrebbe riferito ai rapporti di amicizia tra l’ex senatore Ba. , il L. ed il M. ; e non alla frequentazione dell’albergo da parte del M. , come inopinatamente ravvisato dalla corte territoriale (sent. pag. 3).
Una siffatta interpretazione, secondo la ricorrente, evidenzierebbe un errore di tipo logico nel ragionamento della corte di appello, la quale proprio su tale errore avrebbe fondato uno specifico profilo dell’illecito diffamatorio; insito nella mancata esplicitazione da parte dell’articolista della notizia che la frequentazione dell’albergo da parte del M. era stata riferita non già dall’avvocato Ba. , ma da fonti di stampa (e, dunque, di “terza mano”) non meglio identificate né diligentemente verificate.
Orbene, l’interpretazione proposta dalla ricorrente – per quanto tutt’altro che peregrina e, anzi, apparentemente ancorata al dato logico-testuale – non sarebbe comunque in grado di giustificare l’annullamento della sentenza.
Ciò perché il vizio di motivazione deve concernere un punto non soltanto controverso, ma anche decisivo ai fini del giudizio; in maniera tale da inficiare in maniera radicale il ragionamento logico-giuridico sul quale il giudice di merito ha fondato il proprio convincimento e la soluzione del caso pratico.
Nella fattispecie, quand’anche la corte territoriale abbia basato il proprio convincimento circa l’illecito “anche” su tale erronea interpretazione dell’inciso riportato, appare dirimente osservare come il convincimento in parola si sia comunque radicato – nell’ambito di un percorso logico e di ricostruzione fattuale assai più vasto ed articolato – sul concorso di molteplici altri aspetti attestanti il contenuto complessivamente diffamatorio dei due articoli. E, nel ragionamento della corte di appello, questi ultimi aspetti assumono una valenza tale da poter fondare – anche da soli e, cioè, senza il supporto logico rappresentato dall’inciso che si assume erroneamente interpretato – la responsabilità per l’illecito dedotto (v. sent. pag. 4: “ma nell’articolo non vi è solo questo (…)”).
Tale conclusione si avvalora in considerazione del fatto che, indipendentemente dalla individuazione della fonte della notizia della frequentazione dell’albergo da parte del M. , il primo articolo conteneva espressioni gratuitamente sensazionalistiche e ad effetto, capziosamente veicolate attraverso la formulazione di domande retoriche di natura tendenziosa e diffamatoria: (sent. pag. 4) “C. non si limita a domandarsi se la notizia data da Ba. sia vera o meno; va oltre, si domanda se M. era socio onorario dell’equivoco albergo legato alla camorra; se ne aveva la tessera vip (con cui accedere agli speciali servigi di esso). Associa continuamente il nome del magistrato L. (già in carcere per collegamenti alla camorra e sicuro frequentatore dell’albergo) al nome del magistrato M. ; si chiede, sempre retoricamente, come sia possibile che un magistrato chiamato il D.P. di XXXXXX (…) novello eroe partenopeo di Mani Pulite, tanto esperto da essergli stata affidata l’inchiesta più popolare non avesse colto quello che qualsiasi persona che leggesse i giornali locali sapeva; si domanda, infine, come possano essersi dei giudici (ergo, quelli citati nell’articolo, tra cui il M. ) venduti, se l’hanno fatto, per qualche ora d’amore”.
La corte di appello rafforza poi tale convincimento – anche in tal caso del tutto indipendentemente dall’interpretazione dell’inciso contenuto nella relazione di minoranza CSM sulla provenienza della notizia della frequentazione dell’albergo – in ragione del fatto che, diversamente da quanto sostenuto dai convenuti, non risultava affatto che quest’ultima notizia fosse stata confermata direttamente dallo stesso M. nelle dichiarazioni da lui rese al PM di Salerno che indagava sull’intera vicenda (riportate nella più volte citata mozione CSM). In effetti, anche quest’ultimo aspetto svolge un ruolo fondamentale nella formazione del convincimento del giudice di merito, atteso che da tali dichiarazioni risultava effettivamente che il M. non avesse affatto riconosciuto di frequentare l’albergo nel senso denunciato dall’articolista, ma soltanto di esservi andato per prendere “qualche caffè” ed “in compagnia di qualche carabiniere”. Il che – indipendentemente dalla verità di quanto da lui così dichiarato al PM – comunque esclude che potesse nella specie desumersi un’ammissione, da parte del diretto interessato, del fatto così come riportato nell’articolo (frequentazione dell’albergo per la fruizione di prestazioni sessuali corrispettive alla “vendita” della funzione di magistrato alla camorra).
In definitiva, il convincimento della corte di appello circa la natura diffamatoria non scriminata dell’articolo trova ampio ed autonomo basamento su circostanze della fattispecie diverse ed ulteriori rispetto alla “fonte” della notizia; il che rende non decisivo che quest’ultimo aspetto possa essere stato malamente inteso dal giudice di merito.
Sicché l’affermazione di responsabilità – nel ragionamento della corte territoriale – preserva sufficiente riscontro fattuale sia nel mancato raggiungimento della prova di verità di quanto contenuto dell’articolo, sia nel superamento dei limiti della continenza. In ciò è ravvisabile l’applicazione dei suddetti principi interpretativi in materia, nonché della regola (Cass. n. 25157 del 14/10/2008, ed altre) per cui: “per stabilire se uno scritto giornalistico abbia o meno contenuto diffamatorio non è sufficiente avere riguardo alla verità delle notizie da esso diffuse, né limitarsi alla sola analisi testuale dello scritto, ma è invece necessario considerare tutti gli ulteriori elementi come ad esempio i titoli, l’occhiello, le fotografie, gli accostamenti, le figure retoriche – che formano il contesto della comunicazione e che possono arricchirla di significati ulteriori, anch’essi lesivi dell’altrui onore o reputazione”.
Considerazioni analoghe valgono specificamente anche per il secondo articolo, con riguardo al quale la sentenza qui impugnata ha parimenti ritenuto l’insussistenza della invocata scriminante sulla scorta di una valutazione fattuale concernente i parametri tanto di continenza, quanto di verità della notizia. Nel senso che tale articolo riferiva due notizie (l’assoggettamento del M. a vicende giudiziarie, delle quali non si segnalava in maniera doverosamente chiara ed esplicita l’avvenuta archiviazione; la responsabilità del M. per aver fatto marcire per anni l’inchiesta sul dopo-terremoto) non rispondenti né ai canoni della dovuta temperanza verbale ed espositiva, né a quelli di verità.
Va anzi detto che – nell’ambito della già segnalata e corretta valutazione d’insieme degli articoli in questione – anche queste ultime circostanze sono state valorizzate dalla corte di appello a riscontro del proprio convincimento circa la natura complessivamente diffamatoria dei medesimi; ben al di là del problema della più appropriata lettura dell’inciso contenuto nella mozione CSM.
Ciò posto, deve concludersi nel senso che – in assenza dei denunciati vizi motivazionali – la censura mira a suscitare nulla più che una diversa valutazione di merito dei risvolti fattuali della fattispecie diffamatoria; il che è precluso nella presente sede di legittimità.
Ne segue il rigetto del ricorso, con condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate, come in dispositivo, ai sensi del DM Giustizia 20 luglio 2012 n.140.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorse-condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed il resto per compenso professionale; oltre accessori di legge.
 

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