Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 11 febbraio 2016, n. 5716

Ritenuto in fatto

1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cuneo, decidendo sulla richiesta di emissione di decreto penale di condanna, con sentenza del 07/01/2015, assolveva perché il fatto non costituisce reato, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., I.M. , imputato del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, perché, pur non essendo iscritto all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali, raccoglieva, trasportava e rivendeva alla ditta Ferviva Rottami s.r.l. di (omissis) rifiuti metallici, per tre volte, per complessivi kg. 932; fatti commessi in (omissis) tra il (omissis) e il (omissis) .
In particolare, il Giudice riteneva che l’imputato, privato conferitore di rifiuti ferrosi, versasse in un’ipotesi di errore scusabile, in quanto inevitabile, in considerazione della “notevole complessità della normativa che disciplina la materia della gestione dei rifiuti”, “della natura di extrema ratio del diritto penale” e della mancanza di professionalità nell’attività di vendita dei rifiuti; da tali elementi, oltreché dalla modestia del ricavo della vendita, dal rilascio delle proprie generalità al centro di raccolta, e dalla mancanza di contrarie indicazioni da parte della ditta acquirente, veniva dunque desunta la mancanza di “prova che l’imputato fosse consapevole del carattere illecito della propria condotta”.
2. Ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cuneo, impugnando la sentenza predetta, deducendo tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
Deduce, innanzitutto, il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 459, comma 3, cod. proc. pen.: la censura, invero, concerne la valutazione di occasionalità o sistematicità delle condotte contestate, fondata su pretese lacune probatorie in ordine alla esatta tipologia dei rifiuti conferiti ed alla entità dei ricavi conseguiti; in presenza di un quadro probatorio ritenuto lacunoso, infatti, il Giudice avrebbe dovuto disporre la restituzione degli atti al P.M., ai sensi dell’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., non già, sulla base di tale compendio, emettere sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen..
In secondo luogo, denuncia il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 5 cod. pen.: evidenzia, al riguardo, che la complessità della normativa è stata soltanto “postulata” dal provvedimento impugnato, in quanto, in presenza di un sistema pubblico di raccolta dei rifiuti urbani, l’imputato, privato venditore del materiale ferroso, non ha adempiuto al c.d. “dovere di informazione” sull’esatto contenuto della normativa di settore; né, tanto meno, ricorre un comportamento positivo degli organi amministrativi suscettibile di indurre il convincimento della liceità della condotta tenuta.
In terzo luogo, denuncia il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006: il provvedimento impugnato ha disposto una “abrogazione pretoria di norma di diritto positivo”, ritenendo penalmente irrilevante l’attività di ripetuto commercio di rifiuti metallici, concretizzatasi in tre distinti conferimenti di oltre 900 kg. di materiale ferroso, superiore di nove volte rispetto al quantitativo massimo annuale definito dalla legge quale limite massimo per la qualificazione di occasionalità del trasporto, ai sensi dell’art. 193, comma 5.
Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione ha chiesto l’accoglimento del ricorso ed il conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata, ribadendo le tre censure, ed evidenziando, con particolare riferimento al secondo motivo, che la consapevolezza dell’antigiuridicità della condotta non rileva.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato.
1.1. Quanto alla ritenuta lacunosità del compendio probatorio posto a fondamento della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, con particolare riferimento alla natura del materiale venduto ed al conseguente ricavo conseguito, è pacifico che il giudice per le indagini preliminari può prosciogliere la persona nei cui confronti il Pubblico Ministero abbia richiesto l’emissione di decreto penale di condanna solo per una delle ipotesi tassativamente indicate nell’art. 129 cod. proc. pen., e non anche perché la prova risulti mancante, insufficiente o contraddittoria ai sensi dell’art. 530, comma secondo, stesso codice, posto che queste categorie, in quanto non richiamate dall’art. 129 citato, possono acquisire rilievo soltanto quando le parti, compreso il P.M., abbiano potuto esercitare compiutamente, nella sede a ciò destinata, il diritto alla prova (ex multis, Sez. 3, n. 45934 del 09/10/2014, Fusco, Rv. 260941, in una fattispecie, per molti aspetti analoga, in cui la Corte ha annullato la sentenza emessa ex art. 129 cod. proc. pen. per la necessità di accertare in dibattimento la mancanza dell’elemento soggettivo, desunto, nella decisione impugnata, dall’importo contenuto dell’evasione contributiva e dall’episodicità della inadempienza); l’orientamento, del resto, si inserisce pacificamente nel solco dell’indirizzo risalente alla pronuncia delle Sezioni Unite del 1995, secondo cui, sempre a proposito dei poteri cognitivi e decisori in sede di emissione di decreto penale, l’art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce valore processuale alla mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell’art. 530 cod. proc. pen., comma 2 (così Sez. U, n. 18 del 9.6.1995, Cardoni, rv. 202375, che a loro volta richiamavano le sentenze nn. 19, 20, 21, 22, emesse in pari data, rispettivamente, nei proc. Omenetti, Valeri, Solustri e Tupputi; conf. sez. 5, n. 18059 del 25.3.2003, Bortolotti, rv. 224849; sez. 4, n. 4186 del 21.11.2007, Tricolore, rv. 238431).
Del resto, in subiecta materia, questa Corte ha ulteriormente precisato che il giudice per le indagini preliminari, richiesto dell’emissione di un decreto penale di condanna, può pronunziare sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. solo quando risulti evidente la prova positiva dell’innocenza dell’imputato o l’impossibilità di acquisire prove della sua colpevolezza, mentre è precluso un analogo esito decisorio sulla base di una valutazione di opportunità sul proficuo esercizio dell’azione penale o sulla inoffensività della condotta (così questa Sez. 3, n. 15034 del 24.10.2012, dep. 2013, Carboni, rv. 258013 e Sez. 3, n. 3914 del 5.12.2013 dep. 2014, Pintaldi, rv. 258298, entrambi casi in cui si sono giudicate fattispecie analoghe, con annullamento della sentenza di assoluzione dal reato di omesso versamento di ritenute previdenziali motivata in ragione dell’esiguità delle somme evase), ovvero quando l’infondatezza dell’accusa dovrebbe essere affermata mediante un esame critico degli elementi prodotti a sostegno della richiesta (Sez. 5, n. 14981 del 24.3.2005, Becatelli, rv. 231461).
Peraltro, la richiamata pronuncia delle Sezioni Unite del 1995 si poneva nel solco della giurisprudenza costituzionale (in particolare, Corte cost., ord. n. 300 del 1991 – che ha risolto il problema del concorso processuale tra l’insufficienza di prove e l’amnistia – e Corte cost., ord. n. 362 del 1991 – che ha risolto il problema del concorso tra l’insufficienza di prove e la prescrizione -), che aveva affermato il principio secondo cui la mancanza della prova potesse avere rilevanza solo “ad istruttoria ultimata” e, dunque, a dibattimento (o comunque a processo, nel codice di rito vigente, nel caso di giudizio abbreviato) concluso e non prima dello stesso.
1.2. Nel caso in esame non soltanto non ricorre la mancanza assoluta della prova non integrabile nelle fasi successive, cui pure fa riferimento la citata pronuncia delle S.U. n. 18 del 1995, unico requisito legittimante un proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. dal G.i.p. investito della richiesta ex art. 459 cod. proc. pen., ma in realtà la decisione fonda sulla ritenuta carenza probatoria – l’omessa indicazione del ricavo delle vendite e della natura del materiale conferito – un ragionamento congetturale sul presunto guadagno dell’imputato, per desumerne una carenza di professionalità ed una occasionalita della condotta dalla quale trarre, a sua volta, elemento per inferirne la mancanza di dolo, sotto il profilo della scusabilità dell’errore.
Tuttavia, la pretesa incompletezza probatoria avrebbe dovuto imporre, nell’ambito del procedimento “monitorio” attivato, la restituzione degli atti al pubblico ministero procedente, senza poter fondare un ragionamento congetturale dal quale desumere, a sua volta, un errore scusabile legittimante un proscioglimento per carenza di dolo (recte: di colpevolezza).
Va, pertanto, riaffermato il principio (già espresso da Sez. 3, n. 4862 del 13.12.2012, dep. 2013, Sechi, e Sez. 3, n. 47475 del 24.10.2013, Grasso, entrambe non massimate) secondo cui, premesso che il giudice per le indagini preliminari può emettere sentenza ex art. 459 c.p.p., comma 3, in assenza di contraddittorio solo qualora sussista l’evidenza di elementi che escludano la sussistenza del reato, a tale conclusione non può giungersi quando, invece, come nel caso che ci occupa, la valutazione operata dal giudice si fondi su percorsi valutativi che risolvono elementi contrastanti e che trovano nel giudizio la fase esclusiva di esame nel contraddittorio delle parti.
2. La ratio decidendi della sentenza impugnata è incentrata sulla pretesa scusabilità dell’errore nel quale è incorso l’imputato nella vendita dei rifiuti, in considerazione della “notevole complessità della normativa che disciplina la materia della gestione dei rifiuti”, “della natura di extrema ratio del diritto penale” e della mancanza di professionalità nell’attività di vendita dei rifiuti; da tali elementi, oltreché dalla modestia del ricavo della vendita, dal rilascio delle proprie generalità al centro di raccolta, e dalla assenza di contrarie indicazioni da parte della ditta acquirente, veniva dunque desunta la mancanza di “prova che l’imputato fosse consapevole del carattere illecito della propria condotta”.
Ebbene, a prescindere dal ridondante richiamo al principio di sussidiarietà del diritto penale – principio (recte: canone) di politica-criminale, non dotato di diretta prescrittività ermeneutica, ancor più nel prisma (essenzialmente soggettivo) della scusabilità dell’errore -, l’inevitabilità dell’errore è stata postulata dal giudicante sulla base della notevole complessità della normativa settoriale e della mancanza di professionalità.
Tuttavia, la complessità della normativa settoriale non può rappresentare di per sé elemento scusante, sussistendo un dovere di informazione fondato sugli obblighi solidaristici affermati dall’art. 2 Cost., che esclude l’inevitabilità dell’errore di diritto.
Al riguardo, va rammentato che l’attuale disciplina sull’errore di diritto (art. 5 cod. pen.) rappresenta l’esito di un bilanciamento tra la piena affermazione del principio di colpevolezza e l’esigenza generalpreventiva di non vanificare l’effettiva tenuta dell’ordinamento penale, e si inserisce in un antico e mai sopito dibattito sul contenuto del dolo. Invero, la c.d. “teoria del dolo” (Vorsatztheorie, secondo la terminologia della letteratura di lingua tedesca dove si è originato il dibattito) postula l’essenzialità della effettiva conoscenza degli elementi normativi per l’integrazione di un dolo rispetto al quale possa muoversi un rimprovero di colpevolezza. Al contrario, la c.d. “teoria della colpevolezza” (Schuldtheorie), non a caso elaborata ed affermatasi soprattutto all’esito delle esperienze sconvolgenti della seconda guerra mondiale, sostiene la non indispensabilità della coscienza dell’illiceità per l’integrazione del dolo; viene dunque assunta la mera conoscibilità del divieto come requisito normativo della colpevolezza.
La c.d. Schuldtheorie è stata recepita nel nostro ordinamento anche dall’interpretazione della Corte costituzionale, che, con la celebre sentenza n. 364 del 1988, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 5 cod. pen. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile. La sentenza costituzionale ha, infatti, ribadito, nell’evidente intento di “responsabilizzazione” del cittadino, attraverso il richiamo all’art. 2 Cost. ed ai doveri di solidarietà sociale che impongono ai consociati un onere di informazione, che l’antigiuridicità formale del fatto, la c.d. scientia iuris, non è oggetto del dolo, neppure nei reati c.d. artificiali (ovvero di pura creazione legislativa); presupposto della rimproverabilità del fatto è la “possibilità di conoscere la norma penale” (par. 15), nell’assolvimento dei doveri “strumentali” di informazione e di conoscenza delle leggi (par. 18).
Il rischio che un eccesso di normativismo ed un deficit di offensività dei reati c.d. artificiali possa assecondare violazioni del principio di personalità della responsabilità penale, mediante la valorizzazione della rimproverabilità della c.d. culpa iuris (nell’omessa informazione sulla disciplina di settore), peraltro, viene bilanciato dall’affermazione secondo cui la responsabilità penale va esclusa allorquando la condotta tipica derivi non già dal mero fatto negativo dell’ignoranza della legge, bensì dal fatto positivo altrui, determinante la convinzione della liceità dell’agire (in tal senso, di recente, in fattispecie analoga, Sez. 3 n. 42021 del 18/07/2014, Paris, Rv. 260657, secondo cui “in materia contravvenzionale, la buona fede del trasgressore può costituire causa di esclusione della responsabilità penale solo quando il comportamento antigiuridico sia stato determinato da un fatto positivo dell’autorità amministrativa, idoneo a produrre uno scusabile convincimento di liceità della condotta posta in essere. (Fattispecie relativa a violazione della normativa sui rifiuti, in cui la Corte ha escluso che l’invocata buona fede del ricorrente possa derivare da un fatto negativo, quale la mancata rilevazione, da parte degli organi di vigilanza e controllo, di irregolarità da sanare)”; analogamente, Sez. 3, n. 29080 del 19/03/2015 Palau, Rv. 264184).
Anche nella diversa e più ampia prospettiva della distinzione tra ignoranza inevitabile ed ignoranza evitabile fondata sui parametri tipici del giudizio colposo, alla stregua di un’argomentazione che – nella consapevolezza dell’insufficienza euristica della tesi del fatto positivo altrui (in quanto irragionevolmente limitata ai reati contravvenzionali), e nel solco dei criteri enunciati dalla Corte costituzionale n. 364 del 1988 (par. 27) – concentra il discrimine sulla volontarietà ovvero sulla colposità dell’ignoranza, non risulta ricorrere alcun elemento dal quale trarre, se non in maniera esclusivamente congetturale, l’osservanza della regola cautelare di condotta – il dovere di informazione sull’esistenza e sul contenuto della normativa di settore – potenzialmente impeditiva dell’ignoranza, e l’esigibilità rispetto all’homo eiusdem condicionis et professionis.
Al riguardo, dopo la pronuncia del 1988 della Corte costituzionale, le Sezioni Unite hanno, già nel 1994, chiarito che “a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto” (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885).
Nel caso di specie, non risulta ricorrere alcun fatto positivo altrui, suscettibile di determinare un errore inevitabile dell’agente, atteso che la sentenza impugnata afferma l’inevitabilità dell’errore sulla base della “notevole complessità della normativa che disciplina la materia della gestione dei rifiuti”, e della “qualità di privato cittadino”, privo di competenze professionali.
Pur ammettendo la notevole complessità della disciplina di settore, non viene meno il dovere strumentale di informazione, il cui adempimento avrebbe impedito la (asserita, ma non provata) ignoranza della legge penale; al contrario, non risulta che l’agente abbia avanzato richieste di chiarimento agli organi amministrativi competenti o ad altre fonti qualificate, né, del resto, tale obbligo viene meno in caso di non professionalità dell’attività; a maggior ragione trattandosi di persona priva di specifiche competenze settoriali, incombe sull’agente il dovere di informarsi sulla disciplina di settore dell’attività che si intende porre in essere, assolvendo agli obblighi del c.d. homo eiusdem professionis et condicionis.
Né in tal senso rileva, a fini esimenti, che l’agente abbia fornito le proprie generalità al centro di raccolta, oppure che la società acquirente non abbia rifiutato il conferimento, indirizzando il privato verso la consegna all’isola ecologica; invero, comunque non ricorre un fatto positivo altrui, trattandosi della mancata espressione di un diniego (fatto negativo) da parte dell’acquirente, ma esso non proviene neppure da fonte qualificata (pubblica amministrazione o altra autorità pubblica) e indifferente, bensì da una società privata che trae profitto proprio dalla gestione dei rifiuti; del resto, risulta che il conferimento – e dunque la vendita – sia avvenuta non in un’unica occasione, e dunque in maniera accidentale, ma in ben tre circostanze; pertanto, una condotta non già occasionale, bensì saltuaria, la cui rilevanza penale, come si dirà, non può essere obliterata ermeneuticamente.
Nel caso di specie, dunque, potrebbe affermarsi, all’esito di una mirata istruttoria, non già come frutto di un ragionamento meramente congetturale, soltanto il fatto negativo dell’ignoranza della normativa settoriale, che, come si è evidenziato, è insufficiente a fondare una valutazione di inevitabilità/scusabilità dell’errore (nel senso che “nelle fattispecie contravvenzionali, la buona fede può acquistare giuridica rilevanza solo a condizione che si traduca in mancanza di coscienza dell’illiceità del fatto (commissivo od omissivo) e derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto. La prova della sussistenza di un elemento positivo di tal genere, però, deve essere data dall’imputato, il quale ha anche l’onere di dimostrare di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata”, Sez. 3, n. 46671 del 05/10/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, D’Alessandro, Rv. 200950).
3. In ordine alla pretesa irrilevanza penale della condotta in ragione della occasionalità, va ribadito che, trattandosi di illecito istantaneo, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152 del 2006, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale (Sez. 3, n. 8979 del 2/10/2014, dep. 2015, Cristinzio, Rv. 262514; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino, Rv. 257631; Sez. 3, n. 24428 del 25/05/201 l,D’Andrea, Rv. 250674; Sez. 3, n. 21655 del 13/04/2010, Hrustic, Rv. 247605), purché costituisca una “attività” e non sia assolutamente occasionale.
3.1. La natura occasionale delle condotte di gestione di rifiuti è strettamente legata alla qualificazione della fattispecie penale in termini di reato comune o proprio, e, di conseguenza, alla dimensione delle attività di gestione.
L’art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, infatti, punisce “chiunque” effettua una attività di “raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti” in mancanza delle autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni prescritte dagli artt. 208-216.
Innanzitutto, l’utilizzazione dell’espressione “chiunque” a proposito del reato di esercizio abusivo di attività di gestione di rifiuti indizia una qualificazione dell’illecito in termini di reato comune, atteso che, al contrario, nel reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti disciplinato dal successivo comma 2 (che rinvia al solo trattamento sanzionatorio del primo comma, non già al precetto), i soggetti attivi sono espressamente indicati come i “titolari di imprese” ed i “responsabili di enti”; in tal senso, del resto, depone altresì la soppressione, ad opera dell’art. 7, comma 6, d.lgs. 8 novembre 1997, n. 389, dell’inciso, riferito all’appartenenza dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, “prodotti da terzi”, contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22 del 1997 (successivamente trasfuso nell’art. 256 T.U. amb.) (nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925 del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro).
Tuttavia, si è sostenuto, in dottrina, che il pronome “chiunque” non è riferibile ad un agente indefinito, essendo in realtà il destinatario della norma penale soltanto il soggetto che abbia l’obbligo di sottoporsi al controllo della P.A., individuabile mediante il richiamo alle norme autorizzatorie di cui agli artt. 208-216 T.U. amb.; in altri termini, soltanto i soggetti che esercitano l’attività di gestione in forma imprenditoriale possono (e devono) dotarsi dei titoli abilitativi. In tal senso, a corroborare la qualifica di reato proprio della fattispecie penale in oggetto, si è, dunque, evidenziata la necessità, per l’integrazione della tipicità, dei requisiti di organizzazione e professionalità dell’attività di gestione; e se ne è tratta conferma dal principio secondo cui “In materia di rifiuti, il soggetto privato, non titolare di una attività di impresa o responsabile di un ente, che abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto e che, a tal fine, lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato, risponde solo dell’illecito amministrativo di cui all’art. 255 del D.Lgs. n. 152 del 2006 per l’abbandono e non anche del reato di trasporto abusivo previsto dall’art. 256, comma primo, del D.Lgs. cit., in quanto il trasporto costituisce solo la fase preliminare e preparatoria rispetto alla condotta finale di abbandono, nella quale rimane assorbito” (Sez. 3, n. 41352 del 10/06/2014, Parpaiola).
La tesi, tuttavia, a parere di questo Collegio, dimostra più di quanto la norma incriminatrice consenta.
Invero, se l’uso del pronome “chiunque” rappresenta un mero indizio della qualificazione in termini di reato comune, e la costruzione della fattispecie incriminatrice secondo la consueta “tecnica ingiunzionale” – mediante penalizzazione di condotte poste in essere in assenza di provvedimenti amministrativi autorizzatori, alla stregua di un modello di tutela penale “condizionato”, e non “puro” – individua i soggetti destinatari degli obblighi delineati dagli artt. 208-216 T.U. amb., nondimeno qualificare la fattispecie quale reato proprio rischia di determinare un’inversione metodologica nell’ermeneusi proposta. Ed anche il richiamo al principio di diritto espresso da Sez. 3, n. 41352 del 10/06/2014, Parpaiola, non appare del tutto conferente, in quanto la pronuncia richiamata esclude la rilevanza penale del trasporto abusivo in quanto del tutto occasionale, perché esclusivamente propedeutico e strumentale ad un abbandono dei rifiuti (sanzionato in via amministrativa dall’art. 255 T.U. amb.).
Quanto al soggetto attivo del reato, va chiarito che l’uso normativo del pronome indefinito “chiunque” va interpretato alla luce della tecnica di tutela “relativa” adottata dal legislatore, secondo il modello “ingiunzionale”: in altri termini, l’agente può essere “chiunque” eserciti abusivamente una delle attività di gestione indicate, in via alternativa, nell’art. 256 cit. (fattispecie a condotte alternative), anche se non costituito formalmente in veste imprenditoriale; ciò che rileva, dunque, per assumere la veste di agente del reato non è una qualifica soggettiva (una forma imprenditoriale, necessaria, ad esempio, per l’iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali), bensì la concreta attività posta in essere.
In tal senso, si è espressa altresì la giurisprudenza più recente che ha affrontato il profilo della rilevanza penale dell’attività “ambulante” di raccolta e trasporto, secondo cui “la condotta sanzionata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli art. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 226 del medesimo Decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionante” (Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro; Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014, dep. 2015, Seferovic).
Appare, dunque, improprio, e frutto di un’inversione metodologica, qualificare la fattispecie di cui all’art. 256, comma 1, T.U. amb. come reato proprio, il cui soggetto attivo può essere individuato soltanto nei soggetti operanti in forme imprenditoriali, in quanto legittimati all’iscrizione nell’Albo nazionale gestori ambientali. Sarebbe sufficiente essere privi – come normalmente si rileva – della qualifica soggettiva asseritamente richiesta dalla norma per sottrarsi all’applicazione della fattispecie incriminatrice.
Non è la astratta qualifica soggettiva, bensì la condotta concretamente posta in essere di gestione abusiva di rifiuti a rilevare ai fini dell’applicabilità della fattispecie in oggetto, che può essere “svolta anche di fatto o in modo secondario” (Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro), purché in assenza di uno dei titoli abilitativi, e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Del resto, che l’attività imprenditoriale possa essere esercitata, anche solo di fatto, in forma anche individuale implica che non è la forma giuridica rivestita, bensì l’attività concretamente posta in essere ad assumere rilievo ai fini dell’obbligo di autorizzazione (art. 212 T.U. amb.), e, di conseguenza, ai fini dell’individuazione del soggetto attivo del reato.
Peraltro, la rilevanza della “assoluta occasionalità” ai fini dell’esclusione della tipicità deriva non già da una arbitraria delimitazione interpretativa della norma, bensì dal tenore della fattispecie penale, che, punendo la “attività” di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il disvalore d’azione su un complesso di azioni, che, dunque, non può coincidere con la condotta assolutamente occasionale (in tal senso, già Sez. 3, n. 5031 del 17/01/2012, Granata, non massimata, secondo cui “con il termine “attività” deve intendersi ogni condotta che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, mentre la norma non richiede ulteriori requisiti di carattere soggettivo o oggettivo perché sia integrata la fattispecie criminosa. Si tratta, infatti, di reato comune, in quanto può essere commesso da “chiunque”, e non di reato proprio, sicché non occorrono i requisiti della professionalità della condotta ovvero di un’organizzazione imprenditoriale della stessa (sez. 3, 28.10.2009 n. 79 del 2010, Guglielmo, RV 245709) (sez. 3, 15.1.2008 n. 7462, Cozzoli, RV 239011)).
È dunque la descrizione normativa ad escludere dall’area di rilevanza penale le condotte di assoluta occasionalità (si pensi alla dismissione, da parte di. un privato, di quanto contenuto in un proprio locale cantina).
Al contrario, proprio il pronome “chiunque” impone di includere nella portata applicativa della norma incriminatrice anche il “detentore” del rifiuto, ovvero “il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso” (secondo la norma definitoria generale di cui all’art. 183, comma 1, lett. h), T.U. amb.), allorquando l’attività di raccolta, trasporto, commercio, ecc, sia caratterizzata non da assoluta occasionalità.
Al riguardo, giova rilevare che la norma definitoria generale in materia di rifiuti (art. 183, comma 1, lett. f), g), h), i), l), T.U. amb.) distingue tra “produttore di rifiuti” (“il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione”), “produttore del prodotto” (“qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti”), “detentore” (il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso”), “commerciante” (“qualsiasi impresa che agisce in qualità di committente, al fine di acquistare e successivamente vendere rifiuti”) e “intermediario” (“qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi”). Ebbene, il carattere imprenditoriale dell’attività viene richiesto soltanto per i “commercianti” e gli “intermediari” (“qualsiasi impresa”), mentre la professionalità dell’attività è requisito indispensabile per la categoria del “produttore del prodotto” (“professionalmente”); al contrario, per il “produttore di rifiuti” e per il “detentore” – che espressamente comprende anche la nozione di produttore di rifiuti – non è richiesto alcun requisito ulteriore, né di imprenditorialità, né di professionalità.
Da tale considerazione deriva che il pronome indefinito “chiunque” contenuto nella fattispecie di cui all’art. 256, comma 1, T.U. amb., fa riferimento a tutte le categorie indicate nella norma definitoria generale, e quindi anche al “detentore”, senza che al riguardo possano essere introdotte surrettizie limitazioni interpretative fondate sui requisiti – non espressamente richiesti – di imprenditorialità e/o di professionalità; ciò che assume rilievo, ai fini dell’individuazione dell’autore del reato, è l’attività concretamente svolta di gestione di rifiuti, che, al di fuori dell’ipotesi di assoluta occasionalità, integra la tipicità del reato di gestione abusiva allorquando svolta in assenza di autorizzazione.
In tal senso, del resto, depone altresì, come osservato in precedenza, la soppressione, ad opera dell’art. 7, comma 6, d.lgs. 8 novembre 1997, n. 389, dell’inciso, riferito all’appartenenza dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, “prodotti da terzi”, contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22 del 1997 (successivamente trasfuso nell’art. 256 T.U. amb.) (nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925 del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro).
Pertanto, l’assoluta occasionante non può essere desunta esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto agente (privato, imprenditore, ecc), dovendo invece ritenersi non integrata in presenza di una serie di indici dai quali poter desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura esclusivamente solipsistica della condotta (ad es., dato ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, necessità di un veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, fine di profitto perseguito). In altri termini, se un soggetto – anche, come nel caso di specie, mero “detentore” di rifiuti – appresta una serie di condotte finalizzate alla gestione di rifiuti, mediante preliminare raccolta, raggruppamento, trasporto e vendita di rifiuti, pur non esercitando in forma imprenditoriale, pone in essere una “attività” di gestione di rifiuti per la quale occorre preliminarmente ottenere i necessari titoli abilitativi.
Evidentemente il profilo della assoluta occasionalità sarà oggetto precipuo della valutazione di fatto rimessa al giudice del merito, e dunque questione essenzialmente probatoria, e, ove congruamente motivata, non sarà suscettibile di censura in sede di legittimità.
3.2. Nel caso di specie, e limitandosi alle condotte che risultano contestate nell’imputazione, risulta che il trasporto ed il conseguente commercio di rifiuti ferrosi siano stati effettuati in tre distinte occasioni; tali condotte, lungi dall’essere connotate da assoluta occasionalità, denotano un minimum di organizzazione, atteso che la raccolta di ben 932 kg. di rifiuti metallici implica una preliminare fase di raggruppamento e cernita dei soli metalli, il trasporto di un tale consistente quantitativo di rifiuti necessita di un apposito veicolo, adeguato e funzionale al contenimento degli stessi, ed il commercio è evidentemente finalizzato all’ottenimento di un profitto.
Peraltro, anche il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alla norma derogatoria di cui all’art. 193, comma 5, d.lgs. 152 del 2006 (come riformulato dall’art. 16, commi 1 e 2, d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205) appare non conferente, in quanto, oltre a superare di oltre nove volte il limite massimo dei trasporti “in deroga” (100 kg. all’anno), essa riguarda l’applicabilità della disciplina sulla tracciabilità dei rifiuti al gestore del servizio pubblico di raccolta ed al produttore di rifiuti, ferma restando l’illiceità del trasporto e del commercio dei rifiuti in assenza delle prescritte autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni di cui agli artt. 208-216 T.U. amb..
4. La sentenza impugnata va dunque annullata con trasmissione al Tribunale di Cuneo, in diversa composizione personale, per l’ulteriore corso.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata ed ordina la trasmissione degli atti al Tribunale di Cuneo.

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