In tema di accertamento delle imposte sui redditi, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi e a fronte della quale il contribuente che eserciti un’impresa, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative
Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sè fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare, come nel caso che interessa, l’applicazione di una misura cautelare reale
Suprema Corte di Cassazione
Sezione III Penale
sentenza 20 giugno 2016, n. 25451
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente –
Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere –
Dott. ACETO Aldo – Consigliere –
Dott. GENTILI Andrea – rel. Consigliere –
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pordenone;
nei confronti di:
P.S., nato a (OMISSIS);
avverso la ordinanza del Tribunale di Pordenone del 17 dicembre 2014;
letti gli atti di causa, la ordinanza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;
sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. SALZANO Francesco, il quale ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della ordinanza impugnata.
Con ordinanza del 17 dicembre 2014 il Tribunale di Pordenone ha annullato il decreto con il quale il Gip di quel Tribunale aveva disposto il sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente sino alla concorrenza della complessiva somma di Euro 1.862.956,00, dei beni mobili ed immobili in danno di P.S., il quale era indagato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 11, per avere, nel corso degli anni di imposta 2009, 2010 e 2011, omesso di dichiarare elementi reddituali a lui pervenuti – per importi per il primo anno superiori ed un milione di Euro e per gli anni successivi superiori a 600,000,00 Euro per ciascun anno – tramite rimesse bancarie operate sul suo conto corrente dalla Società di diritto straniero, nella specie di diritto croato, OMISSIS.
In sintesi il Tribunale friulano, adito in sede di riesame dal P., ha motivato il proprio provvedimento sulla scorta della considerazione che la presunzione di attrazione a reddito delle rimesse bancarie, non dichiarate in sede di denunzia dei redditi, e delle quali l’interessato non abbia saputo dare una giustificazione di irrilevanza tributaria, poteva essere valida in ambito strettamente tributario ma non era idonea a fondare un giudizio di omessa dichiarazione tributaria sotto il profilo penalistico.
In assenza, pertanto, di altri elementi probatori il provvedimento impugnato doveva essere annullato, con immediata restituzione al ricorrente di quanto sottoposto a sequestro.
Ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pordenone, contestando la legittimità della motivazione, tale da ridondare in violazione di legge, offerta dalla impugnata ordinanza, ricordando che ai fini della adozione della misura richiesta è sufficiente l’esistenza del fumus commissi delicti; rilevava, peraltro, il Pm che la linea difensiva del P., consistente nella riserva di produzione di documentazione comprovante il fatto che le somme versategli dalla OMISSIS erano state a lui date come restituzione di precedenti anticipazioni e finanziamenti dal medesimo operati nei confronti della detta società, come tali non costituenti reddito, non avevano avuto sviluppo alcuno.
Il ricorrente osservava, altresì, che diversamente da quanto sostenuto nella ordinanza impugnata, la richiesta di sequestro era stata formulata non solamente in relazione alla commissione del reato di cui al D.P.R. n. 74 del 2000, art. 4 ma anche in relazione al reato di cui al successivo art. 11, rispetto al quale la ordinanza impugnata non aveva preso posizione, sebbene dagli atti fosse emerso che il P., immediatamente dopo l’inizio della attività di verifica fiscale da parte della Guardia di Finanza, avesse provveduto a compiere atti di cessione dei beni al figlio in ipotesi simulati e volti a sottrarre i beni stessi alla esecuzione fiscale.
Il ricorso è fondato e lo stesso deve, pertanto, essere accolto.
Va preliminarmente ribadito l’orientamento secondo il quale, sebbene in linea di principio i provvedimenti cautelari reali emessi in sede di riesame siano suscettibili di essere impugnati di fronte a questa Corte esclusivamente per violazione di legge, rientra nell’ambiti di tale vizio anche l’ipotesi in cui la motivazione adottata in sede di riesame ovvero di appello cautelare sia tale da non offrire la possibilità di ricostruire l’iter seguito dal giudicante nell’adottare il provvedimento impugnato; in tali casi, si è rilevato nella giurisprudenza di questa Corte, la mera apparenza della motivazione, dovendo ritenersi solo apparente una motivazione che non assolva il suo compito di rendere accessibili al lettore di essa le effettive ragioni che hanno indotto il giudicante ad assumere una determinata decisione, si pone in contrasto col dettato di cui all’art. 125 c.p.p., comma 3, il quale, nel prevedere che, a pena di nullità, i provvedimenti giurisdizionali a contenuto decisorio debbono essere forniti di motivazione, si riferisce evidentemente ad una motivazione che esaurisca il suo compito illustrativo delle ragioni del decidere (nel senso della impugnabilità di fronte alla Corte di legittimità della ordinanza cautelare reale caratterizzata da motivazione apparente, fra le altre: Corte di cassazione, Sezione 4 penale, 17 ottobre 2014, n. 43480).
Va, d’altra parte, osservato che è, altresì, affetto dal vizio di violazione di legge un provvedimento giurisdizionale che fondi la propria motivazione su un’erronea interpretazione non del fatto – nel qual caso si tratterebbe di vizio motivazionale in senso stretto non sindacabile di fronte a questo giudice – ma della norma di legge che si ritiene di dovere applicare al caso di specie.
Tanto premesso, osserva la Corte che la ordinanza impugnata è stata argomentata dal Tribunale di Pordenone sulla base di un duplice rilievo; secondo il primo il provvedimento cautelare, essendo fondato sulle sole presunzioni legali previste dal diritto tributario le quali, secondo il Tribunale friulano, “non possono costituire di per sè fonte di prova della commissione del reato”, non sarebbe adeguatamente motivato; mentre in base al secondo rilievo, “non potendosi nel caso esaminato fare ricorso alla presunzione tributaria secondo la quale gli accrediti registrati sul conto corrente della persona giuridica contribuente si considerano ricavi” versandosi in fattispecie di contribuente persona fisica, il provvedimento di sequestro disposto a carico del P. sarebbe “carente di motivazione in ordine alla sussistenza del fumus del reato di dichiarazione infedele”.
Gli argomenti utilizzati dal Tribunale sono sotto più profili errati.
In primo luogo rileva la Corte che non ha fondamento la distinzione operata dal Tribunale di Pordenone in ordine alla sussistenza della presunzione di ripresa a reddito delle somme versate sui conti correnti bancari del contribuente solo nelle ipotesi in cui la movimentazione in questione sia relativa a conti bancari intestati a persone giuridiche.
Invero in più occasioni la Sezione tributaria di questa Suprema Corte ha precisato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi e a fronte della quale il contribuente che eserciti un’impresa, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative (Corte di cassazione, Sezione 5 civile, 11 marzo 2015, n. 4829; idem Sezione 5 civile, 12 febbraio 2015, n. 2781; idem Sezione 5 civile, 30 novembre 2011, n. 25502).
Tale principio è applicabile a qualunque contribuente che svolga attività imprenditoriale, quale che ne sia la forma giuridica, sia esso una persona giuridica ovvero, come nel caso che ora interessa, una persona fisica.
Per cui già sotto l’illustrato profilo la ordinanza del Tribunale di Pordenone risulta essere viziata, avendo essa fatto cattiva applicazione della norma tributaria, pur ritenuta dal Tribunale friulano pertinente al caso, che prevede la ripresa a reddito, in assenza di prova contraria che deve fornire il contribuente delle somme oggetto di movimentazione bancaria sui conti correnti riferibili al contribuente stesso.
La interpretazione normativa contenuta nella ordinanza impugnata è, d’altra parte, viziata anche sotto altro aspetto; infatti è in contrasto con il consolidato orientamento ermeneutico seguito da questa Corte l’argomento sviluppato dal Tribunale di Pordenone in ordine alla irrilevanza nel procedimento penale delle presunzioni proprie dell’ordinamento tributario.
Diversamente, infatti, da quanto ritenuto nella ordinanza impugnata, questa Corte ha puntualizzato che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sè fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare, come nel caso che interessa, l’applicazione di una misura cautelare reale (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 16 gennaio 2015, n. 2006; idem Sezione 3 penale, 13 febbraio 2013, n. 7078).
La ordinanza impugnata, nella quale si legge testualmente che il provvedimento di sequestro emesso dal Gip sarebbe illegittimo in quanto il fumus delicti, sarebbe stato fatto derivare dalle sole presunzioni legali previste dalle norme tributarie, è pertanto anche sotto il descritto profilo viziata e, la stessa deve di conseguenza essere annullata, con rinvio al Tribunale di Pordenone che, in diversa composizione personale, provvederà nuovamente, in applicazione dei principi dianzi esposti, in ordine alla richiesta di riesame presentato da P.S. avverso il decreto di sequestro preventivo emesso ai suoi danni dal Gip del Tribunale di Pordenone in data 8 novembre 2014.
Annulla la ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Pordenone.
Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2016.
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