Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 18 gennaio 2017, n. 2240

Responsabile del reato di “getto pericoloso di cose” il legale rappresentante dell’azienda che emette fumi che, anche se al di sotto dei limiti di legge, hanno un cattivo odore fastidioso per chi abita nei pressi.

Suprema Corte di Cassazione

sezione III penale

sentenza 18 gennaio 2017, n. 2240

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMORESANO Silvio – Presidente

Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. RENOLDI Carlo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 30/07/2015 del Tribunale di Lanciano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Carlo Renoldi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale Dott. Fimiani Pasquale, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del Tribunale di Lanciano in data 30/07/2015, (OMISSIS) fu condannato, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, alla pena, condizionalmente sospesa, di 100,00 Euro di ammenda in relazione alla contravvenzione di cui all’articolo 674 c.p.; accertato in (OMISSIS), con condanna, altresi’, al risarcimento dei danni patiti dalle persone offese, costituitesi parti civili, da qualificarsi e valutarsi in separata sede, nonche’ alla rifusione delle spese del grado dalle stesse sostenute.

Nel dettaglio, l’imputato fu ritenuto responsabile di avere provocato, in qualita’ di responsabile legale della (OMISSIS) S.r.l., titolare di un impianto di microforatura ad aghi caldi, in casi non consentiti dalla legge, emissioni di gas atte ad offendere le persone abitanti in prossimita’ del suddetto impianto e segnatamente (OMISSIS) e (OMISSIS).

2. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato attraverso tre distinti motivi di impugnazione.

Con il primo viene dedotta, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 674 c.p. e dell’allegato 1 alla Parte 5 del TUA; nonche’ la contraddittorieta’ della motivazione risultante dal testo della sentenza e dagli atti del procedimento.

Il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto integrato il reato di cui all’articolo 674 c.p. in una ipotesi di emissioni olfattive, promananti da un impianto autorizzato e rispettoso dei relativi limiti d’emissione, originate da sostanze corrispondenti alle previsioni autorizzative da un punto di vista “tipologico e quantitativo”, atteso che l’autorizzazione alle emissioni, nel Quadro Riassuntivo (allegato 3), farebbe riferimento alle sostanze di cui alla c.d. “Classe 2, tabella D”, definite al punto 4 come “Composti organici sotto forma di gas vapori o polveri (tabella D)”, le quali sarebbero le particelle esitabili della lavorazione a caldo dei prodotti plastici, contemplate nella Tabella D dell’allegato 1 alla Parte 5 del Testo Unico Ambientale. E trattandosi di composti “organici” sarebbe ovvio che non potrebbe trattarsi di sostanze inodori.

In definitiva, l’immissione autorizzata di determinate tipologie e quantita’ di sostanze volatili sarebbe comprensiva, negli stretti limiti autorizzati, anche della loro manifestazione all’olfatto, anche perche’, diversamente opinando, dovrebbe irragionevolmente concludersi che l’ordinamento permetta e, all’un tempo, punisca uno stesso identico comportamento.

Con il secondo motivo, il ricorso censura la violazione dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e) per inosservanza, sotto altro profilo, dell’articolo 674 e dell’articolo 844 c.c., nonche’ per contraddittorieta’ ed erroneita’ della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata e dagli atti del procedimento.

La sentenza impugnata sarebbe contraddittoria laddove da un lato individuerebbe i limiti riportati nell’autorizzazione quale parametro per misurare la tollerabilita’ delle emissioni; e, dall’altro, attraverso il richiamo alla sentenza n. 12018/15 di questa Corte ed al criterio della c.d. “stretta tollerabilita’” da essa evocato, oblitererebbe l’esistenza di limiti autorizzati.

Secondo il ricorrente, l’unico criterio utilizzabile al di fuori del riferimento a regole positivamente legificate (cui sottintenderebbe l’inciso “nei casi non consentiti dalla legge”), sarebbe quello della “normale tollerabilita’” di cui all’articolo 844 c.c., che imporrebbe di valutare se sussistono accorgimenti tecnici trascurati, ovvero se, all’opposto, siano altri soggetti, come le stesse persone offese, a non rispettare quei limiti.

Con riferimento alla nozione di “tollerabilita’”, la sentenza impugnata avrebbe travisato le risultanze processuali, assumendo che l’impianto fosse collocato in zona residenziale, laddove le testimonianze del personale del Corpo Forestale avrebbero riportato che “la fabbrica e’ stata localizzata in zona artigianale”.

Inoltre, facendo applicazione del criterio della “normale tollerabilita’” previsto dall’articolo 844 c.c. il Tribunale avrebbe dovuto valorizzare il legittimo “preuso” del sito da parte dell’azienda, che, nel tempo, aveva adeguato le esigenze della produzione alle migliori tecniche disponibili, quantomeno ritenendo insussistente l’elemento soggettivo del reato.

Con il terzo motivo il ricorrente censura, ex articolo 606 c.p.p., lettera e), l’erroneita’ e contraddittorieta’ della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato e dagli altri atti del processo.

Il Tribunale avrebbe tratto la prova dell’intollerabilita’ delle emissioni unicamente dalle “interessate e non riscontrate parole delle parti civili”, considerato che nessuno degli altri residenti vicini all’insediamento si erano doluti delle immissioni e che il teste (OMISSIS), tecnico dell’ARTA, aveva riferito che sia in occasione del sopralluogo nell’azienda, effettuato nell’ottobre 2011, sia nel frangente del sopralluogo delegato dal pubblico ministero, gli operanti non avevano “rilevato cattivi odori”. Tanto piu’ che secondo (OMISSIS) l’azienda era stata autorizzata a produrre le emissioni entro il limite di 6 mg; e, dunque, ben al di sotto del limite di 35 mg previsto per la Regione Abruzzo, a sua volta inferiore del 30% rispetto ai limiti nazionali, pari a 50 mg.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ infondato e, pertanto, deve essere integralmente rigettato.

2. Con i primi due motivi il ricorrente sostiene per un verso che l’autorizzazione a immettere, nell’aria, determinate sostanze chimiche si estenderebbe anche alle relative emissioni odorigene; e, per altro verso, che la configurabilita’ del reato di getto pericoloso di cose dovrebbe essere esclusa in caso di emissioni provenienti da attivita’ autorizzata, ovviamente a condizione che esse siano contenute nei limiti dell’autorizzazione.

La tesi difensiva, tuttavia, non puo’ essere condivisa.

Questa stessa Sezione della Suprema Corte, infatti, si e’ gia’ pronunciata, in passato, sull’argomento, affermando che anche nel caso in cui un impianto sia munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in caso di produzione di “molestie olfattive” il reato di getto pericoloso di cose e’, comunque, configurabile, non esistendo una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori (cosi’ Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni, Rv. 265188; Sez. 3, n. 2475 del 9/10/2007, dep. 17/01/2008, Alghisi e altro, Rv. 238447). Ne consegue che non puo’ riconoscersi automatica valenza scriminante alla produzione di emissioni odorigene pur realizzata nell’ambito dell’ordinario ciclo produttivo dell’impresa, ancorche’ regolarmente autorizzato. Ne’ puo’ condividersi l’assunto difensivo secondo cui l’unicita’ e la coerenza dell’ordinamento non potrebbero consentire che da un lato sia permesso e, dall’altro, sia punito uno stesso identico comportamento, atteso che l’attivita’ autorizzata potrebbe essere in ogni caso realizzata con modalita’ tali da garantire, grazie all’adozione di puntuali accorgimenti tecnici, il mancato prodursi di emissioni moleste o fastidiose (in termini, v. Sez. 3, n. 15734 del 12/02/2009, dep. 15/04/2009, Schembri e altro, Rv. 243387).

3. Sempre nell’ambito del secondo motivo di ricorso, la difesa dell’imputato deduce che, anche a voler ritenere astrattamente configurabile la contravvenzione di cui all’articolo 674 c.p. nel caso in cui ricorra un provvedimento che autorizzi determinate emissioni, nondimeno per ritenere integrata la fattispecie in esame dovrebbe farsi ricorso, al fine di valutare la liceita’ delle emissioni olfattive, al criterio della normale tollerabilita’ di cui all’articolo 844 c.c..

Nondimeno, discende dalla premessa sviluppata al § 2, secondo cui non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, la coerente affermazione, che si rinviene nell’indirizzo qui condiviso, secondo cui il parametro alla stregua del quale valutare la legittimita’ dell’emissione deve essere individuato nel criterio della “stretta tollerabilita’”, attesa la inidoneita’ di quello della “normale tollerabilita’” previsto dall’articolo 844 c.c., ad assicurare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni, Rv. 265188; Sez. 3, n. 2475 del 9/10/2007, dep. 17/01/2008, Alghisi e altro, Rv. 238447; Sez. 3, n. 11556 del 21/02/2006, dep. 31/03/2006, Davito Bava, Rv. 233565; Sez. 3, n. 19898 del 21/04/2005, Pandolfini, Rv. 231651).

4. Da ultimo il ricorrente censura il fatto che il tribunale abbia ritenuto di ravvisare l’intollerabilita’ delle emissioni odorigene unicamente alla stregua delle dichiarazioni delle persone offese.

E tuttavia, anche con riferimento a tale profilo deve ritenersi che le doglianze difensive non possano essere accolte.

Sul punto giova, infatti, premettere che ai fini della sussistenza del reato di cui all’articolo 674 c.p. e’ necessario che le condotte consistenti nel gettare o versare abbiano attitudine concreta a molestare persone, non essendo sufficiente una attitudine potenzialmente idonea alla molestia (Sez. 3, n. 25175 del 11/05/2007, dep. 3/07/2007, Gagliardi e altro, Rv. 237137). Tuttavia, la natura di reato di pericolo concreto e il peculiare criterio di valutazione della tollerabilita’ delle emissioni olfattive, comporta che sia sufficiente l’apprezzamento diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di alcune persone, dalla cui testimonianza il giudice puo’ logicamente trarre elementi per ritenere l’oggettiva sussistenza del reato, a prescindere dal fatto che tutte le persone siano state interessate o meno dallo stesso fenomeno o che alcune non l’abbiano percepito affatto; non essendo nemmeno necessario un accertamento tecnico (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni, Rv. 265188; in termini sostanzialmente analoghi v. Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, dep. 23/03/2015, Pippi, Rv. 262710, secondo cui ai fini dell’accertamento puo’ farsi riferimento al fastidio dichiarato dai testimoni che hanno una percezione quotidiana dell’intensita’ dello stesso, nonche’ Sez. 3, n. 19206 del 27/3/2008, Crupi, Rv. 239874).

E lungo tale crinale interpretativo si e’ sicuramente mosso il Tribunale di Lanciano, atteso che secondo quanto si ricava dalla sentenza impugnata, il fastidio prodotto ad alcuni dei confinanti e’ stato positivamente accertato, sia attraverso l’esame delle parti civili (le quali hanno riferito che a causa delle esalazioni promananti dalla (OMISSIS) hanno sviluppato allergie ovvero “una intolleranza alle emissioni della fabbrica che si ripercuote sulla loro salute”), sia alla stregua della documentazione prodotta dalle parti; e gli stessi tecnici sentiti a dibattimento, pur riferendo che le emissioni di fumo prodotte dall’azienda erano al di sotto dei limiti di legge, hanno comunque sottolineato la possibilita’ che le emissioni si accompagnino ad un cattivo odore, suscettibile di dare fastidio alle persone che risiedano nelle vicinanze.

6. Alla stregua delle considerazioni che precedono deve conclusivamente ritenersi che il ricorso sia infondato e, pertanto, debba essere rigettato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

processuali

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