Commette il reato di offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio del Pontefice previsto e punito ex art. 403 cod. pen. colui che raffigura il Pontefice all’interno di un bersaglio da colpire con delle freccette
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA 17 gennaio 2017, n.1952
Ritenuto in fatto
La Corte di appello di Lecce, con sentenza del 3 ottobre 2014, ha confermato la sentenza del Tribunale di Lecce del 14 giugno 2012 che aveva condannato S. S., F. M. A., D. F. G., P. S. e P. C. alla pena, condizionalmente sospesa, di 4 mila Euro di ammenda, per il reato di cui agli artt. 110, 403, e. 2 c.p. perchè, in concorso tra loro, offendevano la confessione religiosa cattolica, mediante vilipendio del Pontefice collocando, in modo da essere ben visibile, nel corso di una manifestazione, ad un angolo del sagrato della Chiesa di Santa Irene dei Teatini, un cartellone raffigurante sullo sfondo una sagoma costituita dall’immagine del Pontefice Benedetto XVI. ed, in primo piano, un bersaglio costituito da una serie di cerchi concentrici con l’indicazione di punteggi vari, riportante in calce la scritta: ‘1.000 punti, caramelle, preservativi, vino e ostie sconsacrate se centri quel buco di culo da cui quotidianamente vomita fiumi di merda’ ed iniziando un accanito lancio di freccette multicolori; reato commesso in Legge il 30 aprile 2010.
Gli imputati S., D. F., P. e F. hanno presentato personalmente separati ricorsi per cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza per i seguenti motivi:
1) Inosservanza od erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 403 comma 2 c.p. (ex art. 606, lett. b) c.p.p. e contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in merito al medesimo articolo (ex art. 606 lett. e) c.p.p.), in quanto il bene giuridico tutelato dalla norma è la ‘confessione’, inteso quale generalizzato sentimento religioso ritenuto meritevole di tutela e non già il ministro di culto, che rappresenta solo il mezzo attraverso il quale si realizza il fine di offendere la confessione. Nel caso di specie la condotta posta in essere ha riguardato il Pontefice in quanto persona e non quale strumento mediante il quale offendere la religione cattolica; si intendeva esprimere il dissenso dalla linea seguita dal Pontefice in tema di omosessualità ed abusi su minori. Il reato in esame sussisterebbe solo quando le condotte ingiuriose interessino il ministro di culto in maniera strumentale, e quindi indiretta, essendo rivolte al culto religioso, mentre l’integrazione del reato è esclusa se riguardano direttamente il soggetto che amministra il culto, come nel caso di specie. Non esiste infatti una disposizione analoga a quella prevista dall’art. 278 c.p. che tutela la personalità morale del presidente della Repubblica, mentre nel nome del principio di laicità dello Stato è stata data tutela penale solo al culto religioso, restando garantita la libertà di manifestazione del pensiero riguardo al pontefice.
Anche l’imputato P., per il tramite del proprio difensore di fiducia, ha proposto ricorso avverso la decisione di conferma della condanna, deducendo:
1) Inosservanza od erronea applicazione della legge penale (ex art. 606, lett. b) c.p.p. e contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in merito al medesimo articolo (ex art. 606 lett. e) c.p.p.), in relazione alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato previsto dall’art. 403 comma 2 c.p. Il ricorrente ha lamentato che la sentenza impugnata, dopo avere ampiamente riassunto le pronunce della Corte Costituzionale, si sarebbe limitata a valutare, apoditticamente il contenuto della frase indicata nel manifesto, che faceva riferimento alle parole del pontefice, come indirizzato ai principi di fede professati nella religione cattolica, ritenendo con ciò che qualunque offesa ad rappresentante della Chiesa configuri automaticamente un’offesa alla religione da esso rappresentata (come espressamente ritenuto nella sentenza a pag. 3). Di contro la frase era indirizzata in via esclusiva al ministro di culto, e pertanto non sussiste l’elemento oggettivo del reato, che non consiste nel vilipendere il ministro di culto, ma nell’offendere la confessione religiosa attraverso il vilipendio di colui che la rappresenta. Secondo anche quanto affermato dalla giurisprudenza, per aversi il reato è necessario che l’offesa riguardi l’indistinta generalità dei credenti, ovvero l’intima sostanza della confessione religiosa, e non possa essere desunto semplicisticamente né dal vilipendio di chi la professa, né da quello che la amministra. Nel caso di specie, non risulta che le pur pesanti espressioni utilizzate abbiano chiamato in causa i valori fondamentali e l’intima sostanza della fede cattolica, essendosi esauriti nell’offesa al Pontefice, che, pur grave, non integra il reato.
Considerato in diritto
Nella presente sede di legittimità è preclusa, come è noto, una rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione o l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione dei fatti (cfr., ex multiis, Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, B., Rv. 234148): quando il giudice di merito abbia esposto le motivazioni della propria decisione in coerenza con i dati risultanti dal processo non è ammessa una diversa ricostruzione in fatto della vicenda oggetto del giudizio da parte dei giudici di legittimità, che non possono sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito o seguire possibili interpretazioni e ricostruzioni alternative dei fatti, suggerite dai ricorrenti, ma quello di stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Nel caso di specie le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni e nella interpretazione della fattispecie di reato qui in contestazione, della quale hanno fornito ampia motivazione, in particolare la sentenza impugnata ha adeguatamente argomentato la propria decisione, confermando l’interpretazione dell’art. 403 c.p. già fatta propria dal giudice di prime cure, con ampio riferimento alle indicazioni interpretative in merito al reato offerte da alcune decisioni del Giudice delle leggi.
E’ infatti essenziale considerare quanto affermato in merito alla disposizione di legge della quale si lamenta l’erronea applicazione, dalle sentenze pronunciate dalla Corte costituzionale. Nella decisione n. 168 del 2005 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 403 cod. pen. nella parte in cui prevedeva, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice), evidenziando con chiarezza l’esistenza di “esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle al tre confessioni religiose”, la Consulta ha confermato che tutte le norme contemplate nel Capo ‘Dei delitti contro il sentimento religioso’ “Si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l’art. 403 cod. pen. tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto”. In precedenza, con la decisione n. 188 del 1975, era stato affermato che il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti (ex artt. 2, 8 e 19 Cost., ed indirettamente, art. 3 c. 1 e art. 20 Cost). Di conseguenza, il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., ed addirittura nei confronti del Capo della Chiesa, ossia il Papa, rappresenta una limitazione di operatività dell’art. 21 Cost., il quale garantisce la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero anche in materia religiosa.
La condotta di vilipendio certamente si connota entro i confini segnati dallo stesso significato etimologico della parola (‘tenere a vile’, ossia additare al pubblico disprezzo o dileggio, ovvero svilire), per cui è ben vero che il vilipendio alla religione non deve mai essere confuso con la discussione, scientifica o meno, sui temi religiosi, né con la critica, o con l’espressione di dissenso dai valori religiosi per l’adesione ad ideologie atee o di altra natura, ovvero con la confutazione, anche con toni ‘accesi’, dei dogmi della fede (in tal senso cfr. Sez.3, n. 10535/2009 dell’11/12/2008 D., Rv. 243084). Del resto anche recentemente (cfr. Sez.3, n. 41044 del 07/04/2015, B., Rv. 264932) questa Corte ha ribadito che ‘in materia religiosa, la critica è lecita quando -sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati – si traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione, mentre trasmoda in vilipendio quando – attraverso un giudizio sommario e gratuito -manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione cattolica, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità, e diventi una mera offesa fine a se stessa. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito che aveva ravvisato il reato di cui all’art. 403 cod. pen. nella condotta di imputato il quale aveva realizzato ed esposto nel centro di Milano un trittico raffigurante il Papa ed il suo segretario personale accostati ad un pene con testicoli con la didascalia ‘Chi di voi non è culo scagli la prima pietra’).
Risultano quindi pretestuose argomentazioni difensive, e pertanto manifestamente infondate, quelle che vorrebbero far assumere alla frase riportata nel cartellone predisposto dai ricorrenti, all’angolo del sagrato della chiesa – frase certamente oltraggiosa nei confronti del pontefice, oltre che certamente idonea a vilipendere il suo ruolo e la religione cattolica che tale ruolo riconosce – la ‘dignità’ di critica, seppure ‘accesa’ alla sola persona fisica del Pontefice, con esclusione di ogni offesa alla religione cattolica, ed ancor più al sentimento religioso. Infatti non solo il contenuto del cartellone, le azioni intraprese sullo stesso (il lancio di freccette), il luogo ove tale flash-mob era stato organizzato risultano oggettivamente, e senza equivoci, idonei e volti a ‘svilire’ e ferire il sentimento religioso cattolico, ma è proprio nei motivi di ricorso, laddove i ricorrenti hanno adombrato le ragioni di tale loro contestazione (per le posizioni assunte dal Papa nei confronti dei gay ed altre), che emerge, con vivida chiarezza, che l’attacco violento e volgare al papa era rivolto allo stesso in quanto Capo della Chiesa cattolica, e quindi in quanto il contenuto delle dichiarazioni e dei messaggi del Papa, era in grado di orientare i fedeli e di raggiungere il sentimento religioso degli stessi.
Nel caso di specie, come argomentato con motivazione giuridicamente ineccepibile e coerente con quanto accertato nel corso del giudizio dalla Corte di appello, la condotta ascritta ai ricorrenti si era palesata obiettivamente offensiva del sentimento religioso, offesa realizzata mediante pesanti contumelie ed inequivoca istigazione alla derisione del pontefice, risultando perciò integrato il reato di vilipendio.
In conclusione, sia per la manifesta infondatezza, sia per il fatto che i motivi dei ricorsi risultano ancorati ai contenuti già esposti nelle doglianze in precedenza avanzate innanzi al giudice di appello, in merito alle quali la stessa Corte aveva già fornito ampia motivazione, è evidente che gli stessi devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p. e di una somma di duemila Euro in favore della Cassa delle ammende
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende
Leave a Reply