Cassazione 3

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

ORDINANZA 24 aprile 2015, n. 8433

 

Premesso che

L’associazione ‘Codacons’ (‘Coordinamento Associazioni Difesa Ambiente e diritti utenti e Consumatori’), agendo sia in proprio che quale mandatario dei sigg.ri A.M., D.B. e P.V., nel 2010 convenne dinanzi al Tribunale di Roma la società BAT Italia s.p.a. ai sensi dell’art. 140 bis d. Igs. 5.9.2005 n. 206, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati agli attori per avere generato in essi una dipendenza da fumo.

La condotta illecita veniva ravvisata nell’avere svolto un’attività pericolosa (produzione e vendita di sigarette) senza adottare le opportune cautele vòlte a prevenire i rischi per la salute dei fumatori.

II Tribunale di Roma con ordinanza 1.4.2011 dichiarò inammissibili le domande.

L’ordinanza dei Tribunale venne reclamata dai soccombenti.

La Corte d’appello di Roma, con ordinanza 27.1.20012, ha rigettato il reclamo, ma con una motivazione parzialmente diversa rispetto a quella posta dal Tribunale a fondamento del giudizio di inammissibilità della domanda.

La Corte d’appello ha ritenuto infatti inammissibile la domanda perché:

(a) fondata su una condotta materiale della società resistente anteriore al 15.8.2009, e quindi sottratta ratione temporis all’applicazione dell’art. 140 bis d. Igs. 206/05;

(b) i diritti azionati erano privi dei requisito della ‘identità’, prescritto dall’art. 140 bis, comma 2, lettera (b);

(c) non vi era prova dell’esistenza d’un danno risarcibile.

L’ordinanza della Corte d’appello è stata impugnata per cassazione dal Codacons e dai sigg.ri A.M., Daniela Bricca e Pietro Valentini, sulla base di quattro motivi.

Ha resistito con controricorso la BAT s.p.a..

La Corte osserva:

La società resistente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso. Tale eccezione si fonda sull’assunto che l’ordinanza con la quale la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile l’azione collettiva, ai sensi dell’art. 140 bis, comma 7, d. Igs. 6.9.2005 n. 206, non ha carattere decisorio né definitivo, e dunque non può essere impugnato per cassazione. La BAT ha invocato, a fondamento della propria eccezione, il precedente specifico rappresentato dalla decisione di questa Corte pronunciata da Sez. 1, Sentenza n. 9772 del 14/06/2012, Rv. 623061, secondo cui ‘l’ordinanza d’inammissibilità dell’azione di classe ex art. 140 bis del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo) è fondata su una delibazione sommaria ed è unicamente finalizzata ad una pronuncia di rito, idonea a condizionare soltanto la prosecuzione di quel processo di classe senza assumere la stabilità del giudicato sostanziale ovvero impedire la riproposizione dell’azione risarcitoria anche in via ordinaria; deve essere, pertanto, esclusa l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso detta ordinanza, salvo per quel che attiene la pronuncia sulle spese e sulla pubblicità’.

La sentenza della Prima Sezione di questa Corte, appena ricordata, ha fondato la propria decisione su quattro rilievi, così riassumibili: (a) l’ordinanza di inammissibilità ex art. 140 bis cod. cons. non impedisce la proposizione dell’azione risarcitoria in sede ordinaria; ciò che è inibita (dall’ordinanza di inammissibilità) ‘non è la tutela giurisdizionale di un diritto, sebbene la tutela giurisdizionale in una determinata forma di un diritto tutelabile nelle forme ordinarie’; il provvedimento di rigetto del reclamo avverso l’ordinanza di inammissibilità è dunque analogo a quello di rigetto della ‘domanda d’ingiunzione’, cioè un provvedimento che ‘non pregiudica la riproposizione della domanda anche in via ordinaria’; (b) anche quando l’azione collettiva venga rigettata per manifesta infondatezza, ciò non impedirebbe la presentazione di una nuova istanza, anche soltanto fondata su una migliore esposizione in iure della propria pretesa;

(c) l’ordinanza di inammissibilità dell’azione di classe si fonda su una delibazione sommaria, e quindi non può assumere la stabilità del giudicato sostanziale;

(d) l’art. 140 bis, comma 14, d. lgs. 206/05 stabilisce che ‘non sono proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la scadenza del termine per l’adesione assegnato dal giudice ai sensi del comma 9’.

Da questa norma pertanto, secondo il precedente in esame, si trae il corollario che è l’ordinanza di ammissibilità dell’azione di classe a precludere la proposizione della medesima azione di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa: l’ordinanza di inammissibilità, per contro, non ne precluderebbe la riproponibilità.

Questo Collegio ritiene di non potere condividere la soluzione adottata dalla decisione n. 9772 del 2012, in punto di ammissibilità dei ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che dichiari inammissibile l’azione collettiva. Alla con divisibilità della suddetta tesi sembrano ostare infatti varie ragioni.

3.1. In primo luogo, l’art. 140 bis d. Igs. 206/05 in nessuno dei suoi commi prevede espressamente la riproponibilità dell’azione collettiva che sia stata dichiarata inammissibile. La norma si limita infatti a prevedere la libera riproponibilità dell’azione individuale (combinato disposto dei commi 3 e 15), non di quella di classe.

3.2. In secondo luogo, non sembra appagante sostenere che l’azione di classe costituisca una mera forma processuale di tutela dei diritti, alternativa ed equipollente rispetto all’azione individuale: con la conseguenza che, dichiarata inammissibile la prima, la libera riproponibilità della seconda impedirebbe di ritenere decisoria e definitiva la dichiarazione di inammissibilità.

Se, infatti, scire leges non est verba earum tenere, sed vim ac potestatem, pare a questo Collegio riduttivo leggere nell’art. 140 bis d. Igs. 206/05 solo la previsione di una ‘forma’ processuale alternativa a quelle ordinarie, che peraltro già di per sé non sarebbero poche (rito ordinario, rito sommario ex art. 702 bis c.p.c.; azione ‘ordinaria’ degli organismi rappresentativi dei consumatori, ex art. 140 d. Igs. 206/05).

L’azione collettiva infatti, per la maggiore pressione economica e psicologica in grado di esercitare sul professionista o produttore, offre a chi la propone una ‘valore aggiunto’ rispetto all’azione ordinaria: in termini di maggior persuasività, più efficace coazione all’adempimento, minor costo economico per chi partecipa al giudizio.

Ne consegue che, dichiarata inammissibile l’azione collettiva, il provvedimento che tale inammissibilità dichiari non potrebbe dirsi ‘non definitivo’, sol perché all’attore resti l’azione individuale. Quest’ultima, infatti, per quanto detto ha contenuto, scopi ed effetti ben diversi dall’azione collettiva:

(-) ha contenuto diverso, perché con essa non può promuoversi la tutela di ‘interessi collettivi’, al contrario dell’azione di classe; (-) ha scopi diversi, perché l’azione individuale avente ad oggetto diritti del consumatore lascia l’attore in una posizione di evidente squilibrio dinanzi al convenuto, là dove la ratio dell’azione collettiva è con evidenza quella di riequilibrare tale rapporto, in chiara attuazione dei precetto di cui all’art. 3, comma 2, cost.;

(-) ha effetti diversi, in quanto solo con l’azione collettiva il debitore è esonerato ‘da ogni diritto ed incremento’ sulle somme pagate entro 180 giorni dal deposito della sentenza (art. 140 bis, comma 12, d. Igs. 206/05).

3.3. In terzo luogo, non sembra convincente ritenere che l’ordinanza di inammissibilità dell’azione collettiva si fondi su una delibazione sommaria, e quindi non può assumere la stabilità del giudicato sostanziale. Questa affermazione non convince per due ragioni.

La prima è che l’art. 140, comma 6, secondo periodo, d. Igs. 206/05, stabilisce che l’azione collettiva ‘è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata’. Ma il concetto di ‘manifesta infondatezza’ non è un presupposto indefettibile d’una cognizione sommaria: anche una cognizione piena può condurre ad un giudizio di manifesta infondatezza.

La cognizione sommaria è la forma del giudizio, la manifesta infondatezza ne è il risultato. Sono concetti eterogenei e l’uno non implica l’altro.

La seconda ragione per cui non convince l’affermazione secondo cui l’ordinanza di inammissibilità dell’azione collettiva è un provvedimento a cognizione sommaria è di tipo letterale. L’art. 140 bis, comma 6, cit., è norma dei tutto identica all’art. 360 bis c.p.c., il quale stabilisce che la Corte di cassazione ‘dichiara inammissibile il ricorso (…) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione’ dei principi dei giusto processo.

E nessuno ha mai dubitato che la relativa cognizione demandata alla Corte di cassazione non sia certo una cognizione sommaria (cfr. in motivazione, Sez. U, Ordinanza n. 19051 del 06/09/2010, Rv. 614183).

3.4. In quarto luogo, non sembra appagante l’argumentum a contrario utilizzato da Cass. 9772/12, cit., secondo cui dal momento che altre azioni di classe per gli stessi fatti non possono proporsi dopo che la prima sia stata dichiarata ammissibile, a contrario la riproponibilità deve ritenersi ammessa nel caso di dichiarazione di inammissibilità.

La regola ermeneutica dell’inclusio unius, exclusio alterius, infatti, è utilizzabile quando tra due interpretazioni alternative sussiste un vincolo di incompatibilità od esclusione reciproca. Questo nesso non sussiste nel nostro caso. Infatti la circostanza che l’azione collettiva non possa essere riproposta dopo lo spirare dei termine per l’adesione di altre parti (art. 140 bis, comma 9, d. lgs. 206/05), non è affatto incompatibile con altre ipotesi di non riproponibilità, desumibili dal sistema: quali appunto l’accertamento preliminare dell’infondatezza della pretesa.

3.5. A quanto esposto sin qui debbono aggiungersi tre considerazioni.

La prima è che appare di difficile compatibilità con l’art. 111 cost., e col principio costituzionale di ragionevole durata dei processo, una interpretazione che consenta la reiterazione quomodo libet del giudizio, anche solo ‘meglio strutturando la domanda in punto di diritto’, come ritenuto dal precedente più volte ricordato.

La seconda è che se davvero l’azione collettiva fosse sempre liberamente riproponibile dopo l’ordinanza di inammissibilità, non avrebbe alcun senso la norma che impone al giudice di ordinare ‘la più opportuna pubblicità’ all’ordinanza di inammissibilità (art. 140 bis, comma 8, d. lgs. 206/05). La terza è l’evidente reductio ad absurdum cui si perverrebbe, se si seguisse l’interpretazione qui non condivisa: se l’infondatezza dell’azione collettiva non è evidente ictu oculi, e viene dichiarata con sentenza, sul relativo accertamento si forma il giudicato; se invece l’infondatezza è talmente sesquipedale da potere essere dichiarata con ordinanza, il giudicato non si forma e la domanda sarebbe riproponibile: il che vai quanto dire che la medesima domanda quanto meno merita di essere riesaminata, tanto più è ammessa al beneficio dei riesame.

Appare dunque opportuno, al fine di prevenire un contrasto di giurisprudenza, rimettere la causa al Primo Presidente, affinché valuti l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

P.Q.M.

la Corte rimette la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione dei giudizio alle sezioni Unite.

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