Corte di Cassazione, sezione III, ordinanza 22 giugno 2017, n. 15537

Rimesso il ricorso al Primo Presidente, perche’ valuti l’assegnazione di esso alle Sezioni Unite, alle quali sottoporre le seguenti questione di diritto:

(A) Se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla cd. compensatio lucri cum damno (istituto o principio non individuabile nell’ordinamento giuridico); e di conseguenza stabilire, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, se di essi il giudice deve tenere conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo;

(B) se il risarcimento del danno patrimoniale patito dalla vittima di lesioni personali, e consistente nelle spese da sostenere per l’assistenza personale ed infermieristica, vada liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della indennita’ di accompagnamento di cui alla L. 21 novembre 1988, n. 508, articolo 1, oppure di cui alla L. 12 giugno 1984, n. 222, articolo 5, comma 1.

Suprema Corte di Cassazione

sezione III civile

ordinanza 22 giugno 2017, n. 15537

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere

Dott. RUBINO Lina – Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25377/2013 proposto da:

(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), (OMISSIS) eredi di (OMISSIS), elettivamente domiciliate in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), AZIENDA OSPEDALIERA (OMISSIS);

– intimati –

nonche’ da:

AZIENDA OSPEDALIERA (OMISSIS) – (OMISSIS) in persona del Direttore Generale pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al ricorso incidentale;

– ricorrenti incidentali –

contro

(OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 413/2013 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 28/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/01/2017 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del 5 motivo;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega;

udito l’avvocato (OMISSIS).

FATTO E DIRITTO

La Corte osserva:

1. Nel 1999 (OMISSIS) e (OMISSIS), dichiarando di agire sia in proprio che quali rappresentanti ex articolo 320 c.c., del figlio minore (OMISSIS), convennero dinanzi al Tribunale di Mantova, sezione staccata di Castiglione delle Stiviere, l’Azienda Ospedaliera (OMISSIS) (d’ora innanzi, per brevita’, “l’Azienda”), (OMISSIS) (che decedera’ nelle more del giudizio, e la cui posizione processuale e’ stata coltivata dagli eredi, ovvero (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)), e (OMISSIS), esponendo che:

(-) il (OMISSIS), nell’ospedale di (OMISSIS) (gestito dall’Azienda convenuta) nacque il loro figlio (OMISSIS);

(-) il neonato, sano durante la gestazione, pati’ una grave ipossia cerebrale a causa della ritardata esecuzione del parto cesareo, ascrivibile a colpa del medico di turno, Dott.ssa (OMISSIS) e del primario del reparto, Dott. (OMISSIS);

(-) l’ipossia intra partum provoco’ gravissimi postumi permanenti, consistiti in una tetraparesi.

Chiesero, percio’, la condanna dei convenuti in solido al risarcimento dei danni rispettivamente patiti.

2. (OMISSIS) e l’Azienda si costituirono, negando la propria responsabilita’. (OMISSIS) rimase invece contumace.

Il Tribunale di Mantova, sezione di Castiglione delle Stiviere, con sentenza 6 marzo 2007 n. 33, accolse la domanda nei confronti di tutti i convenuti.

La sentenza venne appellata da tutte le parti.

3. La Corte d’appello di Brescia, con sentenza 28 marzo 2013 n. 413, rigetto’ l’appello dei danneggiati, accolse quello degli eredi (OMISSIS) e, in parte, quelli proposti dall’Azienda e da (OMISSIS).

La Corte d’appello ritenne che:

(-) (OMISSIS) tenne si’ una condotta colposa, ma essa fu priva di efficienza causale nel determinismo del danno; infatti anche se egli avesse praticato il parto cesareo non appena avvisato del rischio, il feto non avrebbe evitato l’ipossia;

(-) la stima del danno non patrimoniale e patrimoniale patito dalla vittima primaria ( (OMISSIS)) fosse corretta;

(-) escluse dai danni risarcibili il pregiudizio patito dalla sig.ra (OMISSIS) e consistito nella rinuncia al lavoro retribuito, per potersi occupare stabilmente del figlio;

(-) corresse il conteggio del danno da mora e lo scomputo degli acconti pagati prima della sentenza, rispetto a come era stato calcolato dal Tribunale.

4. La sentenza d’appello e’ stata impugnata per cassazione:

(-) in via principale da (OMISSIS), con ricorso fondato su cinque motivi;

(-) in via incidentale (adesiva) dall’Azienda, con ricorso fondato su tre motivi.

Hanno resistito con controricorso (OMISSIS) e (OMISSIS), le quali hanno altresi’ depositato memoria.

(OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) non si sono difesi in questa sede.

La causa, fissata per l’udienza pubblica del 3 dicembre 2015, con ordinanza del 19 febbraio 2016 n. 3364 venne rinviata a nuovo ruolo, in attesa che le Sezioni Unite di questa Corte si pronunciassero su una questione di diritto analoga a quella posta dal ricorso principale.

Il ricorso e’ stato infine fissato, discusso e trattenuto in decisione all’udienza pubblica del 12 gennaio 2017.

5.1. Col quinto motivo di ricorso la ricorrente lamenta formalmente – il vizio di “motivazione carente, insufficiente e contraddittoria” circa la stima del danno patrimoniale.

Deduce che la Corte d’appello ha sovrastimato il danno, perche’ non ha detratto da esso il valore dell’indennita’ di accompagnamento erogata dall’INPS al minore, ne’ il valore economico delle prestazioni pubbliche di assistenza domiciliare.

5.2. Prima di esaminare il motivo nel merito, v’e’ da rilevare come il suo contenuto non sia coerente con la sua intitolazione.

La ricorrente infatti, pur lamentando formalmente un “difetto di motivazione” (vizio, come detto, non piu’ censurabile, se non nei limitati casi di motivazione totalmente inesistente o totalmente incomprensibile), nella sostanza lamenta la violazione delle regole sulla stima del danno (in particolare, delle regole dettate dagli articoli 1223 e 1226 c.c.), censura che rientra nel differente vizio di violazione di legge, di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 3.

Questo errore nell’inquadramento della censura, tuttavia, non e’ di ostacolo all’esame nel merito del quinto motivo di ricorso.

Infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioe’ erri nell’inquadrare, in una delle cinque categorie previste dall’articolo 360 c.p.c., l’errore commesso dal giudice di merito), il ricorso non puo’ per cio’ solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile il vizio censurato, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).

Nel caso di specie, l’illustrazione contenuta nelle pp. 31-33 del ricorso e’ sufficientemente chiara nel prospettare la violazione, da parte della Corte d’appello, della regola dettata dall’articolo 1223 c.c.: e quindi il motivo e’ ammissibile, previa qualificazione d’ufficio come denuncia d’un error in iudicando.

5.3. Nel merito, ritiene il Collegio che il motivo ponga a questa Corte una questione di massima di particolare importanza la quale, avendo dato luogo in passato ad opinioni discordi, debba essere sottoposta all’esame delle Sezioni Unite.

Il quinto motivo del presente ricorso pone infatti a questa Corte la seguente questione di diritto: se nella liquidazione del danno patrimoniale, consistito nelle spese sanitarie e di assistenza che una persona invalida sara’ costretta a sostenere vita natural durante, debba tenersi conto della indennita’ di accompagnamento erogata dall’INPS, come pure dei benefici accordati alla vittima dall’assistenza pubblica.

Tale questione giuridica viene tradizionalmente indicata come “problema della compensatio lucri cum damno”. Di essa si discute da secoli senza frutto, e ad essa sono state date di volta in volta le soluzioni piu’ disparate tanto nei presupposti teorici, quanto negli effetti pratici. Persino nella giurisprudenza di questa Corte il problema della compensatio lucri cum damno ha trovato soluzioni contrastanti, e quel che e’ piu’ grave senza che le une si facessero carico di confutare gli argomenti delle altre: sicche’ puo’ parlarsi di autentici contrasti occulti.

A fronte del ciclico perpetuarsi di divisioni dottrinarie e contrasti giurisprudenziali, ritiene questa Corte che il tema in questione dovrebbe essere rimeditato funditus, e che a prescindere dalla ricerca spesso illusoria d’una soluzione dogmaticamente perfetta, ad esso dovrebbe data una sistemazione chiara, idonea ai sensi dell’articolo 65 ord. giud. a prevenire le liti e rendere prevedibili le decisioni giudiziarie.

5.4. I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla.

In dottrina, infatti, si ravvisano al riguardo ben tre orientamenti diversi: alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che cio’ avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.

Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto, ed aggiunge un immancabile richiamo alla “iniquita’” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore d’un fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.

Chi aderisce al secondo orientamento condivide l’affermazione secondo cui non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma generale che preveda l’istituto della compensatio lucri cum damno, ma soggiunge che il problema delle individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fato dannoso e’ una questione di fatto, da risolversi caso per caso; e che nel singolo caso non puo’ escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio. Noto e risalente, al riguardo, e’ l’esempio della mandria che, invadendo il fondo altrui, distrugga parte del raccolto, ma nello stesso tempo fertilizzi il terreno.

Chi aderisce al terzo orientamento, infine, sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno era noto alle fonti romane (tra le quali con maggior frequenza si invocano un passo dalle Quaestiones di Paolo, tramandato da Dig., 22, 1, 11; ed uno dei Libri 21 ad Quintum Mucium di Pomponio, tramandato da Dig., 3, 5, 11); che essa fu accettata e condivisa dai glossatori; che l’istituto fu teorizzato nei presupposti dogmatici dalla Pandettistica; che esso e’ implicitamente presupposto dall’articolo 1223 c.c., la’ dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito; che inoltre quel principio generale e’ desumibile da varie leggi speciali, tra le quali si invoca la L. 14 gennaio 1994, n. 20, articolo 1, comma 1-bis (il quale stabilisce che nel giudizio di responsabilita’ contabile “deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione (…) in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilita’”); o il Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2011, n. 327, articolo 33, comma 2 (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilita’ stabilisce che “se dall’esecuzione dell’opera deriva un vantaggio immediato e speciale alla parte non espropriata del bene, dalla somma relativa al valore della parte espropriata e’ detratto l’importo corrispondente al medesimo vantaggio”).

E’ doveroso comunque soggiungere che anche gli autori i quali ammettono l’esistenza dell’istituto della compensatio lucri cum damno, esprimono poi opinioni assai diverse quando si tratta di ravvisarne il fondamento e l’ambito di operativita’.

Alcuni ammettono la compensatio solo per i danni patrimoniali, altri anche per i danni non patrimoniali.

Alcuni ammettono la compensatio solo se danno e lucro siano conseguenza diretta della lesione del diritto; altri si contentano che danno e lucro traggano origine dalla condotta illecita.

Alcuni esigono, per l’applicabilita’ della compensatio, che danno e lucro siano generati dall’azione del danneggiato, senza il concorso di altri; altri ammettono che la compensatio possa operare anche quando il lucro derivi dalla condotta di un terzo.

La maggior parte degli autori che ammettono la compensatio, infine, per l’operativita’ dell’istituto pretende che il fatto illecito sia stato causa, e non gia’ mera occasione, tanto del danno, quanto del lucro: salvo poi tornare a dividersi allorche’ si tratta di stabilire quando un fatto illecito possa dirsi “causa”, e quando “occasione”, del lucro.

5.5. Non minori contrasti si ravvisano nella giurisprudenza di questa Corte.

Essa, in verita’, ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico generale definibile “compensatio lucri cum damno”. Tuttavia, quando si e’ trattato di stabilirne l’ambito applicativo, le soluzioni adottate sono state assai distanti tra loro.

5.5.1. Secondo un primo orientamento, la compensatio lucri cum damno opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito.

In applicazione di questo principio e’ stata esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, oppure i congiunti di persona deceduta in conseguenza dell’illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennita’ previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, pubbliche amministrazioni, come pure di indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi – si disse – il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto illecito, mentre il diritto all’indennita’ scaturisce dalla legge. Mancando la medesimezza della fonte, mancherebbe l’operativita’ della compensatio.

Si e’ esclusa, in particolare:

(a) la detraibilita’ della pensione di reversibilita’ dal risarcimento del danno patrimoniale da morte dovuto alla vedova della vittima (Sez. 3, Sentenza n. 5504 del 10/03/2014; Sez. 3, Sentenza n. 3357 del 11/02/2009; Sez. 3, Sentenza n. 18490 del 25/08/2006; Sez. 3, Sentenza n. 12124 del 19/08/2003; Sez. 3, Sentenza n. 8828 del 31/05/2003; Sez. 3, Sentenza n. 2117 del 14/03/1996; Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 22/12/1987; Sez. 3, Sentenza n. 1928 del 10/10/1970; Sez. 3, Sentenza n. 2491 del 17/10/1966; Sez. 3, Sentenza n. 2530 del 07/10/1964);

(b) la detraibilita’ degli indennizzi erogati dallo Stato al Comune di Castellavazzo, in conseguenza del disastro del Vajont, dal risarcimento del danno (patrimoniale e non) dovuto al medesimo Comune dal responsabile della sciagura (Sez. 3, Sentenza n. 3807 del 15/04/1998);

(c) la detraibilita’ della indennita’ di accompagnamento (ex lege 11 febbraio 1980, n. 18) dal diritto al risarcimento del danno patrimoniale dovuto alla vittima di lesioni personali (Sez. 3, Sentenza n. 10291 del 27/07/2001);

(d) la detraibilita’ della pensione di invalidita’ civile (L. 30 marzo 1971, n. 118, articolo 2) dal risarcimento del danno patrimoniale da incapacita’ lavorativa, a sua volta causato da lesioni personali (Sez. 3, Sentenza n. 11440 del 18/11/1997);

(e) la detraibilita’ dell’indennizzo pagato dall’assicuratore privato contro gli infortuni dal risarcimento del danno biologico dovuto alla vittima di lesioni personali (Sez. 3, Sentenza n. 4475 del 15/04/1993).

Le decisioni che aderiscono a questo orientamento non sono motivate in altro modo che col richiamo – spesso tralatizio – al principio per cui la compensatio lucri cum damno non opera quando danno e lucro traggano origine da fonti diverse (in alcune decisioni peraltro si parla di “titoli” diversi).

5.5.2. Un diverso orientamento, all’opposto, ammette con maggior larghezza l’operativita’ della compensatio lucri cum damno. Questo orientamento tuttavia perviene a tale identico risultato attraverso percorsi motivazionali diversi.

5.5.3. Talune decisioni ammettono l’istituto della compensatio, ed ammettono altresi’ che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscono in via immediata e diretta dal fatto illecito: tuttavia, elevando il fatto illecito dal rango di “occasione” a quello di “causa” del vantaggio patrimoniale, giungono al risultato di detrarre quest’ultimo dal risarcimento.

In applicazione di questo principio si e’ escluso, ad esempio, il cumulo tra il risarcimento del danno alla persona patito dal militare di leva durante lo svolgimento del servizio in conseguenza d’un fatto colposo dell’amministrazione della difesa, e la pensione c.d. “privilegiata tabellare” dovuta alla vittima ex Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601 (Sez. 3, Sentenza n. 9094 del 13/05/2004; Sez. 3, Sentenza n. 64 del 04/01/2002; Sez. 1, Sentenza n. 9779 del 16/09/1995).

5.5.4. Altre decisioni pervengono al medesimo risultato, ma senza dichiarare apertamente di fare applicazione dell’istituto della compensatio. In esse si afferma, piuttosto, che se non si tenesse conto del lucro derivato dall’illecito, il danneggiato sarebbe pagato due volte sine causa; ed il danneggiante sarebbe costretto a risarcire due volte lo stesso danno: una volta al danneggiato, e l’altra all’ente previdenziale od all’assicuratore sociale, in sede di surrogazione. In applicazione di questi principi si e’ escluso:

(a) il cumulo tra risarcimento del danno patrimoniale da incapacita’ di lavoro e quanto percepito dalla vittima a titolo di pensione di invalidita’ (Sez. 3, Sentenza n. 9228 del 12/07/2000);

(b) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto al lavoratore infortunato (od ai suoi congiunti) dal datore di lavoro responsabile dell’infortunio, e la rendita attribuita alla vittima (od ai suoi congiunti) dall’INAIL (Sez. 3, Sentenza n. 5964 del 16/11/1979, Rv. 402644; Sez. 3, Sentenza n. 3806 del 15/04/1998, Rv. 514496; Sez. L, Sentenza n. 3503 del 24/05/1986, Rv. 446446);

(c) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto alla vittima di infezione da emotrasfusione, e l’indennizzo erogatole ai sensi della L. 25 febbraio 1992, n. 210 (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 991 del 20/01/2014; Sez. 3, Sentenza n. 6573 del 14/03/2013):

(d) il cumulo tra le spese per l’assistenza domiciliare e l’indennita’ di accompagnamento (Sez. 3, Sentenza n. 7774 del 20/04/2016).

5.6. Questo Collegio auspica che i problemi interpretativi ed applicativi sin qui riassunti vadano risolti affermando i seguenti principi:

(a) alla vittima d’un fatto illecito spetti il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione;

(b) nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato del fatto illecito, ed abbia per risultato diretto o mediato quello di eliderne le conseguenze;

(c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalita’ utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell’illecito.

Corollario di quanto precede e’ che non puo’ dirsi esistente nel nostro ordinamento un istituto definibile “compensatio lucri cum damno”. La regola tralatiziamente definita con questa espressione altro non e’ che un modo diverso di definire il principio di integralita’ della riparazione o principio di indifferenza, in virtu’ del quale il risarcimento deve coprire l’intera perdita subita, ma non deve costituire un arricchimento per il danneggiato. Tale principio e’ desumibile dall’articolo 1223 c.c..

All’illustrazione dei princi’pi appena esposti saranno dedicati i §§ che seguono, nei quali questo Collegio ritiene utile esporre dapprima i vulnera dell’orientamento tradizionale, e quindi i criteri ritenuti applicabili per la soluzione del problema qui in esame.

5.6. L’orientamento che nega la compensatio lucri cum damno quando vantaggio e svantaggio non trovino ambedue causa immediata e diretta nell’illecito si fonda su quattro presupposti teorici non piu’ accettabili.

5.6.1. Il primo vulnus dell’orientamento tradizionale e’ di tipo logico.

Esso, infatti, pretendendo la medesimezza del “titolo” per il danno e per il lucro, al fine dell’operare della compensatio, finisce per negare di fatto qualsiasi spazio a questo preteso “istituto”. E’ infatti assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da se’ solo, e cioe’ senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno.

Come messo in evidenza dalla dottrina prevalente da oltre un secolo, la compensatio lucri cum damno di compensazione non ha che il nome. Essa non costituisce affatto una applicazione della regola di cui all’articolo 1241 c.c., cosi’ come la “compensazione delle spese” di cui all’articolo 92 c.p.c., non e’ una compensazione in senso tecnico, ne’ lo e’ la c.d. “compensazione delle colpe” di cui all’articolo 1227 c.c., comma 1.

La c.d. compensatio lucri cum damno costituisce piuttosto, come accennato, una regola operativa per l’accertamento dell’esistenza e dell’entita’ del danno risarcibile, ai sensi dell’articolo 1223 c.c..

Noti sono gli esempi addotti dalla dottrina storica al riguardo: al padrone d’un animale ucciso da un terzo non si dira’ che si e’ impoverito dell’animale ma arricchito del valore della sua pelle: gli si dira’ per contro che ha patito un danno pari al valore dell’animale meno il valore della pelle; al proprietario di un frutteto tagliato da un terzo non si dira’ che si e’ impoverito della piantagione ma arricchito dei tronchi, ma gli si dira’ che ha patito un danno pari al valore della piantagione meno il valore dei tronchi; al proprietario di un veicolo distrutto da un sinistro stradale non si dira’ che si e’ impoverito del veicolo, ma arricchito del valore del metallo venduto al rottamatore, ma si dira’ che ha patito un danno pari al valore commerciale del veicolo, meno il valore del relitto.

“Lucro” e “danno”, pertanto, non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte. Del c.d. “lucro” derivante dal fatto illecito occorre invece stabilire unicamente se costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’articolo 1223 c.c..

5.6.2. Il secondo vulnus dell’orientamento tradizionale e’ di tipo dogmatico. L’affermazione secondo cui la (pretesa) regola della compensatio opera soltanto se “danno” e “lucro” scaturiscano in modo diretto ed immediato dal fatto illecito appare infatti frutto di un equivoco, a sua volta scaturente da un inconsapevole fraintendimento della dottrina tradizionale.

Questa aveva infatti da tempo individuato, tra i presupposti della compensatio lucri cum damno, la necessita’ che danno e lucro derivassero dalla stessa condotta del responsabile.

Colui il quale con una condotta “A” dovesse causare un danno, e con una condotta “B” dovesse procurare un vantaggio al danneggiato, di fonte ad una richiesta di risarcimento non potrebbe certo invocare che l’importo del secondo si sottragga dal primo, a meno che non ricorrano i presupposti dell’ingiustificato arricchimento (articolo 2041 c.c.). Se, infatti, tali presupposti mancassero, non potrebbe giammai attribuirsi all’autore dell’illecito una posizione piu’ favorevole rispetto a quella di chi, senza avere commesso alcun fatto illecito, ha tuttavia arrecato ad altri un vantaggio non ripetibile ex articolo 2041 c.c..

Cosi’, ad esempio, chi investa una persona con un autoveicolo, e poi offra spontaneamente alla vittima una vacanza a Roma, non potra’ pretendere di compensare il proprio debito risarcitorio con il costo del soggiorno.

La regola secondo cui la compensatio esige la medesimezza della condotta, col passare degli anni, venne applicata sempre piu’ tralatiziamente: e poiche’ la condotta e’ uno degli elementi dell’illecito, intorno agli anni Cinquanta del 20 sec. la giurisprudenza nell’applicare il principio in esame incorse in un’autentica metonimia, finendo con l’indicare la parte per il tutto: cosi’ l’originario requisito della “medesimezza della condotta”, da secoli fondamento della compensatio lucri cum damno, si trasformo’ nella “medesimezza del fatto”, e questa a sua volta nella “medesimezza della fonte” tanto del lucro quanto del danno.

Ma e’ ovvio che altro e’ affermare che danno e lucro, per essere compensati, devono scaturire da una unica condotta del danneggiante, ben altro e’ sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa.

Mentre infatti la prima concezione ammetteva il concorso di cause, la seconda lo esclude.

La regola applicata dall’orientamento tradizionale, in definitiva, non e’ affatto fondata sulla “dottrina tradizionale”, come si pretenderebbe, ma costituisce anzi una deviazione dai principi di quella.

5.6.3. Il terzo vulnus dell’orientamento tradizionale e’ un corollario del secondo: negando infatti l’operare della (pretesa) regola della compensatio se non quando lucro e danno abbiano per causa unica ed immediata la condotta del danneggiante, si accorda alla vittima un risarcimento integrale in tutti i casi in cui in conseguenza del fatto illecito abbia ottenuto un vantaggio patrimoniale per effetto d’una norma di legge (ad esempio, nel caso di percezione di benefici da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o d’un contratto (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi).

In questi casi, si afferma, il fatto illecito costituirebbe una mera occasione del lucro, e non la causa di esso, con conseguente esclusione della compensatio.

Questa opinione, oltre che tralatiziamente erronea nei presupposti, appare incoerente:

(a) con la nozione di “causalita’” che si e’ venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte ormai da molti anni in qua.

(b) sia coi principi generali della responsabilita’ civile.

5.6.3.1. E’ erronea nei presupposti, perche’ storicamente nacque da un vero e proprio equivoco: ovvero l’erroneo recepimento d’una glossa di Bartolo, altrettanto erronea nell’interpretare un passo di Paolo (Dig., 22, 1, 11). In quel passo Paolo si chiedeva se il pubblico amministratore, che avesse riscosso crediti erariali maggiorati di interessi superiori a quelli dovuti, potesse compensare per tal via la perdita patita dall’erario in conseguenza dell’inadempimento di altri debitori morosi. Chiosando questo passo, che nulla aveva a che vedere col nostro problema, Bartolo ne trasse la conclusione che hominis culpa non compensatur cum provisione legali: principio che nei secoli successivi ebbe immeritata fortuna, e venne fino alla fine dell’Ottocento invocato dai sostenitori della tesi dell’inoperativita’ della compensatio quando il lucro nasca dalla legge.

5.6.3.2. L’orientamento tradizionale e’ poi incoerente con la moderna nozione di causalita’ giuridica (articolo 1223 c.c.), la quale ha abbandonato da tempo la distinzione scolastica tra “causa remota”, “causa prossima” ed “occasione”, sostituendola con la nozione di “regolarita’ causale”. Secondo tale nozione, per stabilire se un fatto possa dirsi causato da un altro non e’ proficuo arrovellarsi a discettare se il secondo sia stato causa o mera occasione del primo: non foss’altro che per la difficolta’, quando non per l’impossibilita’, di distinguere tra l’una e l’altra.

Occorrera’, invece, per affermare l’esistenza d’un nesso di causalita’ giuridica tra lesione dell’interesse e danno, ricorrere al criterio della regolarita’ causale, altrimenti detto della “probabilita’ dell’evidenza”, in virtu’ del quale una condotta e’ causa di un evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato.

Questa Corte infatti, nell’interpretare l’articolo 1223 c.c., ha ripetutamente affermato che ai sensi dell’articolo 1223 c.c., “tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota” (cosi’ Sez. 3, Sentenza n. 12103 del 13/09/2000; nello stesso senso, ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013; Sez. 3, Sentenza n. 15789 del 22/10/2003); e che “il nesso di causalita’ va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarita’ causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento puo’ anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo” (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 16163 del 21/12/2001).

Non e’ dunque, corretto interpretare l’articolo 1223 c.c., in modo asimmetrico, e ritenere che “il rapporto fra illecito ed evento puo’ anche non essere diretto ed immediato” quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito.

5.6.3.3. La tesi secondo cui l’illecito sarebbe mera “occasione” del lucro, quando questo e’ ottenuto dalla vittima in virtu’ della legge o del contratto, collide infine coi principi generali della responsabilita’ civile.

Non vi e’ dubbio che nel rapporto tra l’assistito e il soggetto obbligato al pagamento del beneficio previdenziale il diritto del primo scaturisce dalla legge, e l’illecito e’ mera condicio iuris per l’erogazione di esso. E tuttavia e’ solo nell’ambito di questo rapporto, che il fatto illecito puo’ dirsi mera occasione o condicio iuris dell’attribuzione patrimoniale.

Ben diversa e’ la prospettiva se ci si pone nell’ottica del rapporto di diritto civile che lega vittima e responsabile.

In questo diverso rapporto giuridico si tratta di stabilire non gia’ se il beneficio dovuto per legge o per contratto spetti o meno, ma di quantificare con esattezza le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito.

E per quantificare tali conseguenze dal punto di vista economico non puo’ spezzarsi la serie causale, e ritenere che il danno derivi dall’illecito e l’incremento patrimoniale no: per la semplice ragione che, senza il primo, non vi sarebbe stato il secondo.

Dunque l’affermazione secondo cui l’illecito non sarebbe “causa” in senso giuridico delle attribuzioni erogate alla vittima per legge o per contratto non tiene conto dell’intrecciarsi dei due ordini di rapporti: quello tra danneggiato e terzo sovventore, e quello tra danneggiato e danneggiante. Che l’illecito non sia “causa” dell’attribuzione patrimoniale e’ affermazione che potra’ ammettersi forse nell’ambito del primo di tali rapporti, ma non certo nell’ambito del secondo.

5.6.4. Il quarto vulnus dell’orientamento tradizionale e’ anch’esso di tipo sistematico, e riguarda l’ipotesi in cui il lucro derivato dal sinistro consista nella percezione d’un beneficio previdenziale od assicurativo, per il quale la legge attribuisca all’ente erogatore il diritto di surrogazione.

L’orientamento che nega la compensatio tra il danno ed i benefici erogati alla vittima dall’ente previdenziale o dall’assicuratore sociale, infatti, puo’ sortire il paradossale effetto di abrogare di fatto l’azione di surrogazione spettante (ex articolo 1203 c.c., articolo 1916 c.c., o in virtu’ delle singole norme previste dalla legislazione speciale) a quest’ultimo.

E’ noto infatti che limite oggettivo della surrogazione e’ il danno effettivamente causato dal responsabile, il quale non puo’ mai essere costretto, per effetto dell’azione di surrogazione, a pagare due volte il medesimo danno: una al danneggiato, l’altra al surrogante (principio pacifico e consolidato: ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 4642 del 27/04/1995, Rv. 492023; Sez. 3, Sentenza n. 8597 del 07/08/1991, Rv. 473411; sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 380 del 15/02/1971, Rv. 349954).

Pertanto, una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l’intero risarcimento senza tener conto del beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell’illecito, non potrebbe poi essere costretto dall’ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima.

Questo risultato pero’ cozza contro evidenti ragioni di diritto e di giustizia.

Quanto alle prime, l’orientamento tradizionale priva l’assicuratore sociale o l’ente previdenziale d’un diritto loro espressamente attribuito dalla legge (ex permultis, articolo 1916 c.c., applicabile anche alle assicurazioni sociali in virtu’ del rinvio di cui all’articolo 1886 c.c.; Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, articoli 10-11, con riferimento all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; L. 4 novembre 2010, n. 183, articolo 42, comma 1, con riferimento alle prestazioni di malattia erogate dall’INPS).

Quanto alle seconde, l’orientamento tradizionale – privando l’ente previdenziale o l’assicuratore sociale dell’azione di surrogazione addossa alla fiscalita’ generale, e quindi alla collettivita’, un onere il cui peso economico serve non a ristorare la vittima, ma ad arricchirla: cosi’ posponendo di fatto l’interesse generale a quello individuale.

5.7. Si badi comunque che l’istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito non sono legati da alcun nesso di implicazione bilaterale.

Se le conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall’intervento d’un assicuratore, privato o sociale che sia; ovvero da un qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento da tale soggetto compiuto, se ha avuto per effetto o per scopo quello di eliminare le conseguenze dannose, andra’ sempre detratto dal credito risarcitorio – come correttamente rilevato dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni -, a nulla rilevando ne’ che l’ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, ne’ che, avendolo, vi abbia rinunciato.

La detrazione dell’aliunde perceptum e’ infatti necessaria per la corretta stima del danno, non per evitare al danneggiante un doppio pagamento. La situazione non e’ dissimile da quella del fideiussore che paghi il debito altrui, e poi muoia senza lasciare eredi: la circostanza che nessuno piu’ possa esercitare il regresso verso il debitore principale non impedisce certo che il diritto del creditore si riduca in misura pari a quanto percepito dal garante.

5.8. Detto delle ragioni per le quali non e’ condivisibile l’orientamento tradizionale che concepisce la compensatio lucri cum damno come un istituto giuridico autonomo, e la ammette nei ristretti limiti sopra censurati, occorre ora esaminare se ed a quali condizioni il vantaggio patrimoniale scaturito da un fatto illecito vada imputato nel risarcimento, con conseguente riduzione di quest’ultimo di un importo pari al vantaggio.

5.9. Che nella stima del danno risarcibile debba tenersi conto dei vantaggi economici procurati alla vittima dall’illecito e’ principio che discende dal c.d. “principio di indifferenza” del risarcimento.

Il principio di indifferenza e’ la regola in virtu’ della quale il risarcimento del danno non puo’ rendere la vittima dell’illecito ne’ piu’ ricca, ne’ piu’ povera, di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito.

Esso si desume da un reticolo di norme diverse.

Innanzitutto dall’articolo 1223 c.c., secondo cui il risarcimento deve includere solo la perdita subita ed il mancato guadagno.

In secondo luogo dagli articoli 1909 e 1910 c.c., i quali assoggettano l’assicurazione contro i danni al c.d. principio indennitario, e di conseguenza escludono che la vittima d’un danno possa cumulare il risarcimento e l’indennizzo.

Il principio in esame e’ altresi’ confermato indirettamente dall’articolo 1224 c.c., comma 1, u.p.: tale norma, stabilendo che nelle obbligazioni pecuniarie sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali “anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno”, rende palese che, la’ dove il legislatore ha inteso derogare al principio di indifferenza, ha sentito la necessita’ di farlo in modo espresso.

Il “principio di indifferenza” e’ altresi’ desumibile da varie norme codicistiche che lo richiamano implicitamente: si considerino al riguardo le fattispecie previste dall’articolo 1149 c.c. (che prevede la compensazione tra il diritto del proprietario alla restituzione dei frutti e l’obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli); articolo 1479 c.c. (che nel caso di vendita di cosa altrui prevede la compensazione tra il minor valore della cosa e il rimborso del prezzo); articolo 1592 c.c. (compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti).

Anche varie previsioni contenute in leggi speciali confermano l’esistenza del principio in esame: ad esempio la L. 14 gennaio 1994, n. 20, articolo 1, comma 1-bis (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione); il Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2011, n. 327, articolo 33, comma 2 (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilita’ prevede la compensabilita’ del credito per l’indennita’ espropriativa col vantaggio arrecato al fondo); come pure – a contrario il Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66, articolo 1905 (Codice dell’ordinamento militare), il quale nel prevedere che la speciale elargizione ivi prevista a favore delle vittime di incidenti verificatisi nel corso o in conseguenza di attivita’ operative svolte dalle Forze armate sul territorio nazionale, soggiunge che tale elargizione “non esclude il risarcimento del maggior danno eventualmente dovuto”: norma che risulterebbe inutile, se le erogazioni indennitarie fossero di per se’ sempre e comunque cumulabili col risarcimento del danno.

Da tali disposizioni si desume l’esistenza d’un principio generale, secondo cui vantaggi e svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge.

Corollario di questo principio e’ che il risarcimento non puo’ creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito.

5.10. A queste conclusioni si obietto’ in passato che ammettere la fitti compensatio in limiti cosi’ ampi solleverebbe il responsabile del danno dalle conseguenze di questo.

Osservazioni di questo tipo sono erronee per due ragioni.

La prima ragione e’ che nella maggior parte dei casi di compensatio l’offensore non si sottrae affatto alle conseguenze dell’illecito, ma semplicemente cambia creditore (paghera’ infatti non la vittima a titolo di risarcimento, ma il terzo solvens a titolo di surrogazione).

La seconda ragione e’ che l’obiezione e’ comunque figlia d’una concezione ancestrale dell’illecito, che ravvisava nell’offensore un reo, ed una sanzione nel risarcimento. Una concezione, quindi, cui appariva inconcepibile che l’autore d’un danno potesse sottrarsi alle conseguenze di esso.

Il nostro sistema della responsabilita’ civile, tuttavia, in linea generale non assegna funzioni punitive al risarcimento del danno, e non vede nel responsabile un reo da sanzionare (ne’ di vera e propria sanzione potrebbe mai parlarsi, al cospetto degli innumerevoli casi di responsabilita’ presunta od oggettiva previsti dall’ordinamento).

Il nostro diritto della responsabilita’ civile e’ mirato sul danno, non sull’offensore: sicche’, nella liquidazione del risarcimento, all’entita’ di questo deve guardarsi, e non alla punizione del secondo (cosi’ gia’ Sez. 3, Sentenza n. 4043 del 19/02/2013, al § 7.1 dei “Motivi della decisione”).

5.11. Conclusione di quanto esposto sin qui e’ il superamento della vieta concezione della compensatio come una regola da applicare dopo avere liquidato il danno, allo scopo di “evitare l’arricchimento”:

illusione ottica che, come si e’ cercato di dimostrare, tanti equivoci ha generato nel presente e nel passato.

In realta’ quando si procede alla stima dei danni civili non ci sono affatto due operazioni da compiere (prima si liquida e poi si “compensa”).

L’operazione e’ una soltanto, e consiste nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima residuato al sinistro. E se in tale operazione ci si imbatte in un vantaggio che sia conseguenza dell’illecito non si dira’ che per quella parte si sta “compensando” danno e lucro, ma si dira’ che l’illecito non ha provocato danno.

I principi appena esposti, gli unici coerenti col quadro normativo nazionale tracciato nei §§ precedenti, risultano altresi’:

(a) condivisi dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che in un giudizio di responsabilita’ l’eccezione di compensatio “non si puo’, in via di principio, considerare infondata” (Corte giust. CE, 4 ottobre 1979, Deutsche Getreideverwertung, in cause riunite C-241/78 ed altre);

(b) recepita dai principi europei di diritto della responsabilita’ (Principles of European Tort Law – PETL, articolo 10:103, secondo cui “when determining the amount of damages benefits, which the injured party gains through the damaging event, are to be taken into account unless this cannot be reconciled with the purpose of the benefit”), I quali ovviamente non hanno valore normativo, ma costituiscono pur sempre un utile criterio guida per l’interprete.

5.12. A conforto delle osservazioni sin qui svolte, utili insegnamenti possono trarsi dalla storia di una vicenda per certi versi analoga: quello del cumulo di stipendio e risarcimento del danno da incapacita’ lavorativa temporanea, nel caso di danno alla salute di un impiegato.

Per piu’ di dieci anni, tra il 1966 ed il 1978, questa Corte aveva costantemente affermato che, nel caso in cui un impiegato resti assente dal lavoro a causa di un infortunio, continuando a percepire la retribuzione, egli ha diritto di chiedere al danneggiante anche il danno da incapacita’ temporanea di guadagno, in quanto – si diceva in quel caso non poteva operare la compensatio lucri cum damno, avendo risarcimento e stipendio cause diverse (principio costantemente affermato a partire da Sez. 3, Sentenza n. 2284 del 27/08/1966, sino a Sez. 3, Sentenza n. 1439 del 12/05/1972).

Si badi come la motivazione addotta per consentire il cumulo di stipendio e risarcimento del danno da incapacita’ lavorativa era del tutto identico a quella ancora oggi invocata per giustificare il cumulo di risarcimento e benefici previdenziali, assicurativi o assistenziali: e cioe’ l’inapplicabilita’ della compensatio lucri cum damno a causa della diversita’ della fonte del lucro e della perdita.

Dopo molto tempo (ed aspre critiche da parte della dottrina), questa Corte a partire dalla fine degli anni Settanta del 20 sec. muto’ avviso, stabilendo che, nel caso in cui il lavoratore infortunato abbia continuato a percepire la retribuzione durante la malattia, nulla gli compete a titolo di danno patrimoniale da inabilita’ temporanea, e cio’ non perche’ non possa applicarsi il principio della compensatio lucri cum damno, ma semplicemente perche’ non esiste un danno risarcibile (Sez. 3, Sentenza n. 3507 del 11/07/1978, in seguito sempre conforme).

Ebbene, la vicenda appena descritta non appare concettualmente diversa da quella concernente il divieto cumulo di risarcimento e benefici previdenziali, assicurativi od assistenziali, e non v’e’ ragione per non risolverla nello stesso modo.

5.13. A quanto precede va soggiunta una ultima notazione, di carattere processuale.

La circostanza che la vittima abbia realizzato un vantaggio in conseguenza del fatto illecito, e che questo vantaggio abbia diminuito od escluso il danno, costituisce oggetto di una eccezione in senso lato: essa infatti attiene alla stima del danno, e gli elementi costitutivi del danno sono rilevabili d’ufficio dal giudice.

Ne consegue che essa non soggiace all’onere di tempestiva allegazione, ne’ di tempestiva deduzione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., Ordinanza interlocutoria n. 10531 del 07/05/2013).

Tuttavia resta onere di chi invoca la c.d. compensatio dimostrarne il fondamento, ed in caso di insufficienza di prova (sull’an del vantaggio ottenuto dalla vittima, od anche solo sul quantum di esso), le conseguenza di essa ricadranno sul convenuto, che restera’ tenuto al risarcimento integrale (come gia’ ritenuto da Sez. 6-3, Ordinanza n. 9434 del 10/05/2016; Sez. 6-3, Sentenza n. 20111 del 24/09/2014).

5.14. Alla luce dei principi esposti sin qui, ritiene questo Collegio che si puo’ ora tornare ad esaminare il quinto motivo del ricorso principale.

Essendo il risarcimento del danno governato dal principio di indifferenza, nella stima di esso deve tenersi conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’illecito: sia in bonam, che in malam partem.

Nello stabilire se il fatto illecito abbia provocato anche conseguenze favorevoli per la vittima, deve applicarsi il principio di equivalenza causale, di cui all’articolo 41 c.p., a norma del quale “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalita’ fra l’azione od omissione e l’evento”.

Nota e’ l’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte in merito all’applicazione di tale norma in materia di responsabilita’ civile: il nesso di causa sussiste – si e’ ripetutamente stabilito – quando, senza l’illecito, l’evento non si sarebbe mai verificato (teoria della “regolarita’ causale”: ex plurimis, in particolare, Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008).

Il risarcimento spettante alla vittima dell’illecito andra’ dunque ridotto in tutti i casi in cui, senza l’illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile.

Tale condizione ricorre quando il vantaggio dovuto alla vittima e’ previsto da una norma giuridica che fa dell’illecito, ovvero del danno che ne e’ derivato, uno dei presupposti di legge per l’erogazione del beneficio.

5.14.1. Orbene, nel caso di specie, la Corte d’appello non ha messo in dubbio che la vittima principale percepisse una “indennita’ di accompagnamento”.

La Corte non precisa se si tratta della misura prevista dalla L. 21 novembre 1988, n. 508, articolo 1 (spettante a tutti i cittadini), ovvero del beneficio analogo di cui alla L. 12 giugno 1984, n. 222, articolo 5, comma 1 (previsto per i pensionati per inabilita’).

Tuttavia tanto la prima, quanto la seconda di tali indennita’ sono concesse alle persone “che si trovano nella impossibilita’ di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore”.

Si tratta, dunque, d’un emolumento volto a ristorare un pregiudizio patrimoniale: giustappunto, quello consistente nella necessita’ di dovere retribuire un collaboratore od assistente per fronteggiare le necessita’ della vita quotidiana.

La percezione di tale emolumento dovrebbe dunque incidere sulla misura del danno risarcibile, per il semplice fatto che lo elimina in parte, e nulla rileva che l’indennizzo scaturisca da una norma previdenziale.

Considerazioni analoghe valgono per l’assistenza domiciliare prestata dal Servizio Sanitario Nazionale o Regionale.

In Lombardia, luogo – a quanto consta – di residenza del danneggiato, l’assistenza domiciliare costituisce oggetto di un complesso sistema normativo, bastato in primo luogo sulla Legge Regionale Lombardia 30 dicembre 2009, n. 33, articolo 26, comma 5, lettera (c), (d) ed (e), (recante “Testo unico delle leggi regionali in materia di sanita’”), il quale individua nell’assistenza domiciliare uno degli obiettivi primari del servizio sanitario regionale.

Tale norma ha ricevuto attuazione dapprima con la delibera della giunta regionale (D.G.R.) 9 maggio 2003 n. 12902 (in B.U. Lombardia 20 maggio 2003, n. 21, 1 suppl. straord.), la quale ha introdotto il sistema dei cc.dd. “voucher socio-sanitari”, ovvero titoli di legittimazione utilizzabili dalle famiglie per l’acquisto di prestazioni di assistenza domiciliare socio-sanitaria da enti erogatori accreditati, pagabili senza limiti ne’ di eta’, ne’ di reddito.

In seguito la D.G.R. Lombardia 18 maggio 2011, n. 9/1746 (recante “Determinazione in ordine alla qualificazione della rete dell’assistenza domiciliare in attuazione del PSSR 2010-2014”, in B.U. Lombardia 6.6.2011, n. 23) ha riformato ed incrementato il sistema dei “voucher” previsto dalla precedente Delib. D.G.R. del 2003.

Dopo la pronuncia della decisione d’appello, infine (13 novembre 2013), venne approvata la D.G.R. Lombardia 27 settembre 2013, n. 10/740, concernente l’approvazione del Programma Operativo Regionale in materia di gravi e gravissime disabilita’, la quale accordo’ un buono mensile di Euro 1.000 alle persone con gravi disabilita’, “erogato senza limite di reddito (e) finalizzato a compensare le prestazioni di assistenza assicurate dal caregiver familiare (autosoddisfacimento) e/o per acquistare le prestazioni da assistente personale” (cosi’ la suddetta Delib., Allegato “B”, punto (B1)).

Non tenere conto di tali previsioni porterebbe pertanto ad una sovrastima del danno patrimoniale per l’assistenza domiciliare, e di conseguenza alla violazione dell’articolo 1223 c.c..

5.15. Alla luce di quanto esposto sin qui, pertanto, il Collegio ritiene necessario rimettere il ricorso al Primo Presidente, perche’ valuti l’assegnazione di esso alle Sezioni Unite, alle quali sottoporre le seguenti questione di diritto:

(A) Se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla cd. compensatio lucri cum damno (istituto o principio non individuabile nell’ordinamento giuridico); e di conseguenza stabilire, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, se di essi il giudice deve tenere conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo;

(B) se il risarcimento del danno patrimoniale patito dalla vittima di lesioni personali, e consistente nelle spese da sostenere per l’assistenza personale ed infermieristica, vada liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della indennita’ di accompagnamento di cui alla L. 21 novembre 1988, n. 508, articolo 1, oppure di cui alla L. 12 giugno 1984, n. 222, articolo 5, comma 1.

P.Q.M.

(-) rimette il ricorso al Primo Presidente, perche’ valuti l’opportunita’ di assegnarlo alle Sezioni Unite.

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