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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza n. 20847  dell’11 settembre 2013

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 3/9/1986 M.G. conveniva in giudizio B.P. chiedendone la condanna al pagamento della somma di lire 3.443.310 quale prezzo della vendita di materiale in pietra leccese.
Il B. chiedeva il rigetto della domanda eccependo di avere pagato il prezzo a T.G. , rappresentante di zona dell’attore, che chiamava in causa per essere tenuto indenne dalle pretese avversarie.
Con sentenza del 5/10/2002 il Giudice di Pace rigettava la domanda nei confronti del B. e condannava il terzo chiamato a pagare all’attore la somma che aveva ricevuto dal B. .
Il M. proponeva appello lamentando che non poteva ritenersi estinto il debito con il pagamento al T. , rappresentante di zona, perché il T. non era autorizzato a riceverlo.

Il B. si costituiva e chiedeva il rigetto dell’appello; il T. non si costituiva.
Il Tribunale di Lecce con sentenza del 6/2/2006 rigettava l’appello ritenendo di condividere la motivazione e le conclusioni del giudice di primo grado che aveva riconosciuto efficacia liberatoria, ai sensi dell’art. 1189 c.c., al pagamento effettuato al T. , rappresentante di zona e aggiungeva che sarebbe stato onere dell’attore dimostrare il contenuto e i limiti del potere conferito al rappresentante.
Il M. propone ricorso affidato ad un unico motivo.
Resiste con controricorso B.P. .

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il presente ricorso riguarda solo la domanda di accertamento e condanna formulata dal M. nei confronti B. .
1. Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione di norme di diritto e, in particolare, la mancata applicazione dell’art. 1744 c.c. e l’erronea applicazione dell’art. 1189 c.c..
Il ricorrente, riportando stralci delle dichiarazioni rese dalle parti nell’interrogatorio libero e uno stralcio della testimonianza di L.S. , afferma che il T. (il quale ha ammesso di avere dichiarato di essere stato incaricato della riscossione e di avere ricevuto il pagamento senza riversarlo al M. ) era un procacciatore di affari; sulla base di quest’ultimo assunto lamenta che non è stato applicato l’art. 1744 c.c. che esclude che l’agente possa riscuotere crediti se non autorizzato.
Il ricorrente lamenta inoltre l’erronea applicazione dell’art. 1189 c.c. in quanto applicato in assenza del presupposto di un comportamento colposo del creditore che abbia fatto sorgere nel debitore una ragionevole presunzione sull’effettività dei poteri apparenti dell’accipiens.
2. Il motivo è fondato e va accolto.
Occorre premettere che l’art. 1189 c.c. è applicabile, per identità di ratio, anche al pagamento al soggetto che appare autorizzato a riceverlo per conto del creditore effettivo, ma è sempre necessario che il creditore effettivo, il quale abbia determinato o concorso a determinare l’errore del “solvens”, abbia fatto sorgere in quest’ultimo in buona fede una ragionevole presunzione sulla rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell'”accipiens” (Cass. 3/9/2005 n. 17442; Cass. 9/8/2007 n. 17484; Cass. 13/9/2012 n. 15339; Cass. 4/6/2013 n. 14028). La norma in esame deroga al principio generale stabilito dall’art. 1188 c.c. per il quale il pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al suo rappresentante.
Siccome l’effetto liberatorio di cui all’art. 1189 c.c. è collegato al principio dell’apparenza giuridica che ne costituisce il fondamento e siccome l’apparenza deve essere ricondotta ad un comportamento del creditore (non potendo dipendere dalle mere affermazioni o dal comportamento dell’accipiens), l’art. 1189 c.c. è applicabile solo se l’apparenza risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento, esente da colpa, sulla effettiva sussistenza della facoltà apparente dell’accipiens di ricevere il pagamento.
In presenza di tale prova, incombe sul creditore l’onere di provare che il debitore non ignorasse la reale situazione ovvero che l’affidamento di quest’ultimo fosse determinato da colpa (cfr. Cass. 30/10/2008 n. 26052).
Con la sentenza impugnata il giudice di appello ha affermato che la dedotta mancanza di autorizzazione all’incasso non era idonea a contrastare il convincimento del compratore di avere pagato il prezzo al rappresentante di zona del venditore e che sarebbe stato onere dell’attore dimostrare il contenuto e i limiti del potere conferito al rappresentante.
Così decidendo il giudice del merito ha erroneamente applicato l’art. 1189 c.c. che, in quanto norma derogatoria rispetto all’art. 1188 c.c., pone espressamente a carico del debitore l’onere di provare la propria buona fede, prova che, come detto, può dirsi raggiunta solo in presenza di un comportamento del creditore tale da far sorgere nel solvens in buona fede una ragionevole presunzione sulla rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens. Nella sentenza impugnata non è dato rinvenire alcun accertamento in merito al presupposto di applicazione della norma, ossia la creazione di una apparenza riconducibile al comportamento del creditore, ma, al contrario, viene affermato che il creditore sarebbe onerato della prova che l’accipiens non aveva il potere di rappresentanza, ma tale prova non attiene all’applicazione dell’art. 1189 c.c. che invece presuppone, appunto, l’assenza di potere rappresentativo; se l’accipiens avesse avuto il potere di rappresentanza avrebbe dovuto applicarsi l’art. 1188 c.c., ma è lo stesso giudice di appello ad escludere che fosse provato il potere di rappresentanza quando afferma che non risulta l’esatto rapporto contrattuale intercorso tra il T. e il M. .

3. Ne consegue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata (con riferimento al rapporto processuale tra M.G. e B.P. ) con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, ad altro giudice del Tribunale di Lecce che si atterrà al seguente principio di diritto:
nell’ipotesi di pagamento al creditore apparente ex art. 1189 c.c. il pagamento fatto al rappresentante apparente, al pari di quello fatto al creditore apparente, libera il debitore di buona fede, ai sensi dell’art. 1189 c.c., ma a condizione che il debitore, il quale invoca il principio dell’apparenza giuridica, fornisca la prova non solo di avere confidato senza sua colpa nella situazione apparente, ma, altresì, che il proprio erroneo convincimento sia stato determinato da un comportamento colposo del creditore che abbia fatto sorgere nel solvens in buona fede una ragionevole presunzione sulla rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, ad altro giudice del Tribunale di Lecce.

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