Le massime

Nel regime anteriore all’attuale art. 339 cod. proc. civ. (come modificato dall’art. 1, comma 1, del d. lgs. n. 40 del 2006), qualora siano proposte al giudice di pace domanda principale di valore non eccedente i limiti (millecento Euro) previsti per la decisione secondo equità e domanda riconvenzionale, la quale, pur rientrando nella competenza del giudice di pace, superi il limite di valore fissato dalla legge per le pronunce di equità, l’intero giudizio deve essere deciso secondo diritto, con la conseguenza che il mezzo di impugnazione della sentenza è, non già il ricorso per cassazione, ma l’appello (Cass. sez. un., ord. 6 giugno 2005, n. 17701; v. anche Cass., ord., 18 aprile 2008, n. 10238 che ha ribadito il principio precisando che è irrilevante che la riconvenzionale sia inammissibile; v. pure Cass. 30 marzo 2009, n. 7676 in motivazione; Cass., 17 dicembre 2009, n. 26518), ancorché, nel corso del giudizio di primo grado vi sia stata rinuncia totale o parziale alla domanda riconvenzionale

La riduzione della domanda, in corso di causa, da parte dell’attore, come non può ricondurre nell’ambito della competenza del giudice adito una domanda che originariamente eccedeva la sua competenza per valore, così non è idonea a far rientrare tra le cause che il giudice di pace decide secondo equità, ai sensi dell’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., quella introdotta con una domanda che, in base al “petitum” originario, ne era esclusa (Cass. ord., 22 gennaio 2003, n. 968), ben può essere applicato anche alla domanda riconvenzionale, tenuto conto che, come già evidenziato, nella vigenza del testo del terzo comma dell’art. 339 cod. proc. civ., prima della sostituzione operata dall’art. 1 del d. lgs. n. 40 del 2006, al valore della domanda é correlato il regime dell’eventuale successiva impugnazione su cui non può, evidentemente incidere il comportamento della parte (arg. ex Cass. 3 marzo 2003, n. 4716).

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza del 13 settembre 2012, n. 15338

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 14.4.2004 P.A. conveniva in giudizio, dinanzi al Giudice di pace di Pescara, la s.r.l. S., per sentirla condannare al pagamento di Euro 1.000,00, o della minore somma ritenuta di giustizia, a titolo di rimborso di quanto versato, di risarcimento danni o anche di riduzione del prezzo di acquisto dell’auto Fiat Multipla Bipower tg. (…), vendutagli dalla convenuta concessionaria.
A fondamento della proposta domanda, l’attore esponeva di aver sostenuto, per la riparazione di un’avaria al motore della detta auto, un costo di Euro 850,00, che la convenuta aveva rifiutato di rimborsargli, aggiungendo che il medesimo inconveniente era stato riscontrato su altre vetture dello stesso tipo, alcune delle quali erano state riparate gratuitamente dalla stessa Fiat mentre altre erano state modificate o ritirate; rappresentava di aver eseguito puntualmente tutti i controlli previsti sicché la s.r.l. S. gli aveva venduto un veicolo affetto da vizi, difettoso e privo delle qualità promesse ed essenziali.
La convenuta si costituiva eccependo l’intervenuta prescrizione ex art. 1495 cod. civ. e contestando, nel merito, la domanda della quale chiedeva il rigetto.
Il giudice adito, disattesa l’eccezione di prescrizione e ritenuta fondata la domanda, condannava la convenuta al rimborso della somma di Euro 850,00, oltre interessi legali, e rigettava la domanda ex art. 96 cod. proc. civ. avanzata dalla s.r.l. S. per mancanza di presupposti. L’appello avverso tale decisione, proposto dalla società soccombente, veniva dichiarato inammissibile dal Tribunale di Pescara con sentenza del 30 marzo 2006, sul rilievo che si trattava di decisione emessa dal Giudice di pace in causa di valore non eccedente Euro 1.000,00 e, pertanto, impugnabile solo con ricorso per cassazione.
Avverso la sentenza del Tribunale la S.r.l. S. ha proposto ricorso per cassazione articolato su tre motivi.
Ha resistito con controricorso P.A.

Motivi della decisione

1. Va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dal ricorrente per essere stato l’appello proposto da persona fisica senza l’indicazione del titolo della rappresentanza della società. A prescindere dalla circostanza che un tale vizio, ove sussistente, non potrebbe comportare l’inammissibilità del ricorso per cassazione bensì dell’atto di appello, va evidenziato, comunque, che il limite della rilevanza del difetto di valida rappresentanza processuale è costituito dal formarsi del giudicato, che impedisce il riesame non solo delle ragioni o questioni giuridiche che sono state proposte e fatte valere in giudizio, ma anche di quelle che, seppur non espressamente dedotte o rilevate, costituiscono il necessario presupposto, anche di ordine processuale, della pronuncia di merito (il c.d. giudicato implicito) (ex plurimis Cass. 10 agosto 2000, n. 10606; v. pure Cass. 13 giugno 2002, n. 8442 e Cass. 30 ottobre 2009, n. 23035). Nella specie la questione proposta dal P. in comparsa di costituzione in appello è stata implicitamente disattesa dal Tribunale e non può, dunque, essere esaminata nel presente giudizio di legittimità, non essendo stato proposto ricorso incidentale sul punto.
2. Infondata è poi l’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente sul rilievo che lo stesso sarebbe privo dell’indicazione che il difensore della ricorrente è patrocinante in Cassazione. Al riguardo si osserva che, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, sotto il profilo dell’art. 365 cod. proc. civ., é necessario che il ricorso sia sottoscritto da avvocato iscritto all’albo speciale in forza di mandato a margine o in calce al ricorso o comunque a questo allegato rilasciato dopo la pubblicazione della sentenza impugnata e prima della notificazione del ricorso stesso (Cass. 16 novembre 1998, n. 11533) mentre non è prescritto che debba essere fatta espressa menzione di tale iscrizione. Da accertamenti effettuati per il tramite della Cancelleria, è risultato che l’avv. M. G. D’A., difensore della società ricorrente, è cassazionista ed è iscritta al relativo albo dal 26 settembre 2003.
3. Passando allo scrutinio del ricorso, si evidenzia che in ordine logico va esaminato per primo il terzo ed ultimo motivo, con il quale, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., la ricorrente denuncia che la sentenza impugnata, resa a seguito di discussione orale, “non rispecchia” le disposizioni della norma richiamata, che prescrive che la stessa debba essere inserita nel verbale di udienza, la cui sottoscrizione da parte del giudicante ne attesta l’avvenuta pubblicazione, sicché, non essendo stata rispettata detta procedura, la sentenza impugnata sarebbe nulla.
In relazione a tale motivo di ricorso la ricorrente pone il seguente quesito di diritto: “Può la sentenza emessa da Tribunale monocratico ai sensi dell’art. 281 sexies essere contenuta in atto separato dal verbale di causa?”
3.1. Il motivo va disatteso. Ed invero la violazione formale denunciata dalla ricorrente non ha, comunque, prodotto alcun pregiudizio alla detta parte, risultando peraltro, dal provvedimento in parola, che la sentenza è stata pronunciata all’esito della discussione svoltasi nella medesima udienza e sulla stessa risulta apposto il timbro della cancelleria attestante il deposito in pari data (arg. ex Cass. 23 giugno 2008 n. 17028, secondo cui la sentenza con motivazione contestuale, pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., non è nulla nel caso in cui il giudice non provveda alla lettura del dispositivo in udienza, quando sia comunque avvenuto il deposito immediato ed integrale del dispositivo e della motivazione; si veda pure Cass. 1 marzo 2007 n. 4883, nel senso che, nel caso di sentenza pronunciata e letta in udienza a norma dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., non è causa di nullità della pronuncia il deposito della stessa in cancelleria il giorno successivo, non interrompendo tale dilazione la stringente consecuzione prefigurata dal codice di rito con l’uso dell’avverbio “immediatamente” nel secondo comma della citata norma).
4. Con il primo motivo, denunciando la violazione dell’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., come modificato dal d.l. 8 febbraio 2003, n. 18, convertito nella legge 7 aprile 2003, n. 63, la ricorrente deduce che, ai sensi della norma richiamata, applicabile, ratione temporis, nel caso di specie, la sentenza del Giudice di pace de qua sarebbe appellabile, trattandosi di controversia concernente un contratto concluso secondo le modalità di cui all’art. 1342 cod. civ.
A conclusione del motivo in parola la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Può il Tribunale dichiarare inammissibile l’appello proposto avverso la sentenza del Giudice di pace resa in una causa di valore inferiore a millecento Euro nel caso in cui detta causa verta su un rapporto giuridico derivante da un contratto concluso secondo le modalità di cui all’art. 1342 c.c.?”.
4.1 Il motivo é inammissibile.
Va anzitutto premesso che le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza del 16 giugno 2006, n. 13917, hanno risolto il contrasto relativo all’art. 339 c.p.c., secondo comma, nella formulazione antecedente alla modifica apportata dal d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, secondo cui sono inappellabili le sentenze del Giudice di pace pronunciate secondo equità, facendo altresì presente che tale regola opera per i provvedimenti pubblicati entro la data di entrata in vigore del D.L. n. 40 del 2006 (pubblicato in G.U. 15 febbraio 2006), ai sensi dell’art. 27, comma 1, del decreto citato.
Le sentenze pubblicate successivamente a tale data infatti sono regolate dall’art. 339 cod. proc. civ., terzo comma, come modificato dall’art. 1 del d. lgs. n. 40 del 2006, ai sensi del quale “Le sentenze del Giudice di Pace, pronunziate secondo equità a norma dell’art. 113 cod. proc. civ., secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia”.
Le Sezioni Unite, con la richiamata decisione hanno affermato che l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile avverso le sentenze del Giudice di pace deve avvenire in funzione della domanda, con riguardo al suo valore (ai sensi dell’art. 10 e segg. cod. proc. civ.) ed all’eventuale rapporto contrattuale dedotto (”contratto di massa” o meno), e non del contenuto concreto della decisione e del criterio decisionale adottato (equitativo o di diritto).
Hanno, invece, ritenuto che opera il principio dell’apparenza nelle sole, residuali ipotesi in cui il Giudice di pace si sia espressamente pronunciato su tale valore della domanda o sull’essere la stessa fondata su un contratto concluso con le modalità di cui all’art. 1342 cod. civ. (v. pure Cass. 9 novembre 2006, n. 23896; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26518 e Cass. 11 maggio 2010, n. 11361).
Ai sensi dell’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., il Giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede Euro millecento, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 cod. civ.. Tale comma – così sostituito dal d.l. 8 febbraio 2003, n. 18, art. 1, convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63, art. 1 -ha stabilito che le disposizioni di cui all’art. 1 dello stesso decreto si applicano ai giudizi instaurati con citazione notificata dal 10 febbraio 2003.
Tanto premesso, va evidenziato che né il Giudice di pace ne il Tribunale in sede di appello si sono espressamente pronunciati sull’essere o meno la domanda proposta fondata su un contratto concluso con le modalità di cui all’art. 1342 cod. civ., con la precisazione che – come affermato in motivazione nella sentenza di questa Corte dell’11 maggio 2012, n. 11361 – il rinvio operato dall’art. 113, secondo comma cod. proc. civ., è un rinvio fatto dal legislatore, non per le ragioni che nell’art. 1342 cod. civ. ed in quello che lo precede, cui rinvia, presiedono alle particolari forme di tutela che in esse sono predisposte e riconosciute, ma per le particolari modalità di conclusione e per la idoneità a disciplinare, in modo uniforme, una pluralità di rapporti (v. anche Cass. 14.12.2007 n. 26297; Cass. 21.1.2009 n. 1548; v., in motivazione, Cass. 11 maggio 2010, n. 11361). Così individuata la ratio della previsione dell’art. 113 cod. proc. civ., va poi precisato che i contratti c.d. di massa o per adesione definiscono quelle fattispecie negoziali il cui contenuto è predeterminato da una delle parti, e non è oggetto di trattative individuali. Tali contratti sono, in genere, relativi a fornitura di servizi su larga scala e rispondono all’esigenza del fornitore di regolamentare, in modo uniforme, tutti i futuri rapporti contrattuali con gli utenti dei servizi stessi. La necessità, quindi di pianificare, per tempo, l’attività negoziale induce alla predisposizione, da parte delle imprese fornitrici, in modo unilaterale, di un nucleo comune di clausole alle quali viene devoluta la gestione standard di una serie indefinita di rapporti. In tali casi il cliente non ha alcuna possibilità di instaurare una trattativa specifica, finalizzata alla modifica di una o più di tali clausole, potendo soltanto scegliere di accettarle o rifiutarle.
Ma nel caso in esame la questione della ricorrenza di un contratto di massa non solo non risulta sia stata decisa nel giudizio di merito ma neppure é stato precisato in quale atto sia stata dedotta specificamente (non valendo, a tal fine, far riferimento ad un generico richiamo all’art. 113 cod. proc. civ., che é relativo anche al valore della causa, v. ricorso p. 3) dalla ricorrente, sicché risulta del tutto nuova. Al riguardo si osserva che, qualora il ricorrente proponga, in sede di legittimità, una questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della questione, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto o atto difensivo o atto precedente del giudizio l’abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 3 marzo 2009, n. 5070; Cass. 30 novembre 2006, n. 25546), e, nella specie all’esame, tale onere non é stato assolto.
5. Con il secondo motivo, dolendosi della violazione e falsa applicazione dell’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 36 e 10 cod. proc. civ., la ricorrente lamenta che il Tribunale, erroneamente interpretando la domanda riconvenzionale come limitata al danno ex art. 96 cod. proc. civ. e mal recependo le argomentazioni dell’appellante rivolte al valore della stessa e non al cumulo, aveva ritenuto inammissibile l’appello anche in forza del principio secondo cui, in presenza di un’impugnativa relativa ad un solo capo della decisione, si deve ricorrere al mezzo di impugnazione che le è proprio. Evidenzia la s.r.l. S. che, ritenendosi screditata dalla domanda dell’attore, aveva formulato, in via riconvenzionale, domanda di risarcimento di tutti i relativi danni, in essi compresi quelli di cui all’art. 96 cod. proc. civ., contenendone la quantificazione complessiva nel limite massimo della competenza per valore del giudice adito primo grado, e, pertanto, secondo la ricorrente – che richiama al riguardo alcune decisioni di questa Corte – non sarebbe applicabile il principio cui si é adeguato il Tribunale.
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Può il Tribunale, nel caso in cui sia proposta al giudice di pace domanda principale di valore non eccedente il limite previsto per la decisione secondo equità (millecento Euro) e domanda riconvenzionale connessa alla principale ed eccedente detti limiti, applicare il principio secondo il quale le diverse ed autonome statuizioni di una sentenza possono formare oggetto di gravame secondo i mezzi di impugnazione propri di ciascuna statuizione?”.
5.1. Il motivo è fondato.
Nella specie risulta pacifico in causa che il valore della domanda proposta dall’attore era pari a Euro 1.000,00 ed è altresì incontroverso che la convenuta aveva proposto domanda riconvenzionale di risarcimento danni, in essi compresi quelli di cui all’art. 96 cod. proc. civ., contenendone la quantificazione complessiva nel limite massimo della competenza per valore del Giudice di pace. Inoltre, come pure dedotto dal controricorrente, la convenuta nel corso del giudizio di primo grado aveva rinunciato alla riconvenzionale per i danni non ex art. 96 cod. proc. civ., insistendo, invece, per i danni di cui alla norma appena indicata anche in comparsa conclusionale. Si precisa che – come affermato anche dal giudice del merito – il valore della domanda di risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ. non può essere cumulato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 10 con il valore della domanda principale (nella specie e ai fini che qui rilevano, della domanda riconvenzionale), trattandosi di domanda che rientra nella competenza funzionale sia per l’an che per il quantum del giudice che è competente a conoscere della domanda principale (Cass. 22 maggio 2001, n. 6967) e non incide, pertanto, sul valore della controversia anche in relazione alla determinazione della sentenza come pronunciata secondo equità o secondo diritto (arg. ex Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726; Cass. 17 giugno 2011, n. 13387).
Tanto premesso, va affermato il principio secondo cui, nel regime anteriore all’attuale art. 339 cod. proc. civ. (come modificato dall’art. 1, comma 1, del d. lgs. n. 40 del 2006), qualora siano proposte al giudice di pace domanda principale di valore non eccedente i limiti (millecento Euro) previsti per la decisione secondo equità e domanda riconvenzionale, la quale, pur rientrando nella competenza del giudice di pace, superi il limite di valore fissato dalla legge per le pronunce di equità, l’intero giudizio deve essere deciso secondo diritto, con la conseguenza che il mezzo di impugnazione della sentenza è, non già il ricorso per cassazione, ma l’appello (Cass. sez. un., ord. 6 giugno 2005, n. 17701; v. anche Cass., ord., 18 aprile 2008, n. 10238 che ha ribadito il principio precisando che è irrilevante che la riconvenzionale sia inammissibile; v. pure Cass. 30 marzo 2009, n. 7676 in motivazione; Cass., 17 dicembre 2009, n. 26518), ancorché, nel corso del giudizio di primo grado vi sia stata rinuncia totale o parziale alla domanda riconvenzionale. Ed invero il principio, secondo cui la riduzione della domanda, in corso di causa, da parte dell’attore, come non può ricondurre nell’ambito della competenza del giudice adito una domanda che originariamente eccedeva la sua competenza per valore, così non è idonea a far rientrare tra le cause che il giudice di pace decide secondo equità, ai sensi dell’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., quella introdotta con una domanda che, in base al “petitum” originario, ne era esclusa (Cass. ord., 22 gennaio 2003, n. 968), ben può essere applicato anche alla domanda riconvenzionale, tenuto conto che, come già evidenziato, nella vigenza del testo del terzo comma dell’art. 339 cod. proc. civ., prima della sostituzione operata dall’art. 1 del d. lgs. n. 40 del 2006, al valore della domanda é correlato il regime dell’eventuale successiva impugnazione su cui non può, evidentemente incidere il comportamento della parte (arg. ex Cass. 3 marzo 2003, n. 4716).
6. La sentenza impugnata é cassata in relazione alla censura accolta. La causa va rinviata per il nuovo giudizio di appello al Tribunale di Pescara, nella persona di diverso magistrato che provvederà anche alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo, rigetta il terzo, e accoglie il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia per il nuovo giudizio di appello al Tribunale di Pescara nella persona di diverso magistrato che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Depositata in Cancelleria il 13.09.2012

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