Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 6 novembre 2013, n. 25019
Svolgimento del processo
Con atto di citazione, notificato il 24 aprile 1999, la sig.ra B.O. , condomina del Condominio di (omissis) , conveniva, dinanzi al Giudice di Pace di Ancona, lo stesso Condominio, in persona dell’amministratore pro tempore, perché fossero dichiarate illegittime le immissioni acustiche provenienti dall’ascensore condominiale e perché, conseguentemente, ne fosse ordinata la cessazione con condanna del medesimo Condominio alla realizzazione di tutte le conseguenti opere necessarie.
Si costituiva in giudizio il convenuto contestando, nel merito, le deduzioni attoree ed eccependo, inoltre, l’incompetenza e/o inammissibilità della domanda diretta ad ottenere la condanna del Condominio ad un “facere”, esulando essa dalla competenza del Giudice. Il Giudice di Pace di Ancona, in parziale accoglimento della domanda attrice, dichiarava che le immissioni acustiche provenienti dall’ascensore erano illegittime, ordinandone la cessazione (demandando all’assemblea, sulla scorta della relazione del c.t.u., di provvedere all’attuazione dei rimedi indispensabili allo scopo), ponendo integralmente a carico del convenuto le spese di lite. Interposto appello da parte del predetto Condominio, nella costituzione dell’appellata, il Tribunale di Ancona, con sentenza n. 1144/07, depositata il 12 settembre 2007 e notificata l’11 ottobre 2007, rigettava l’appello, condannando il Condominio appellante al pagamento delle spese di lite.
Il Tribunale adito, a sostegno della sua decisione, riteneva di accogliere pienamente le valutazioni operate dal c.t.u., il quale aveva rilevato che l’ascensore produceva emissioni rumorose superiori ai limiti imposti dalla specifica normativa, apparendo esse immuni da vizi logici e giuridici, oltre ad essere frutto di rigorose indagini. Pertanto, lo stesso giudice di appello confermava la valutazione di intollerabilità, in danno dell’appellata, dei rumori prodotti dalla movimentazione dell’ascensore, non potendosi applicare al caso di specie il criterio della normale tollerabilità e quello del limite differenziale.
Avverso detta sentenza il Condominio (omissis) , ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi.
B.O. ha resistito con controricorso.
Il difensore del ricorrente Condominio ha, altresì, depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il Condominio ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 132, co. 1, n. 4 c.p.c. e 118, co. 1, disp. att. c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., formulando, ex art. 366 bis c.p.c. (ratione temporis applicabile alla fattispecie, risultando la sentenza impugnata pubblicata il 12 settembre 2007), i seguenti quesiti di diritto: “dica la Suprema Corte se il giudice sia tenuto a dare un’esposizione concisa ma non sommaria degli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della decisione ed offrire una motivazione logica ed adeguata al dispositivo, evidenziando le norme di diritto e le prove ritenute idonee a confortarla; se la mera ed acritica trasposizione nella parte motiva della sentenza del contenuto di atti difensivi di parte, renda la motivazione inidonea a consentire quell’indispensabile controllo delle ragione che stanno a base della decisione in esito ad un autonomo percorso argomentativo con conseguente nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 118, co. 2, disp. att. c.p.c.”.
2. Con il secondo motivo il Condominio ricorrente ha prospettato la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 DPCM 14/11/97, nonché l’insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio, ponendo – con riferimento alla supposta violazione di legge – il seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se la norma di cui all’art. 4, co. 3, DPCM 14/11/1997 abbia portata privatistica e sia diretta a disciplinare i rapporti tra condomini, relativamente alle immissioni prodotte da impianti o servizi di uso comune interni al condominio, introducendo una presunzione di tollerabilità delle immissioni che superino il limite differenziale di 5 db (diurno) e 3 db (notturno)”. Quanto al denunciato vizio motivazionale il ricorrente ha inteso censurare la sentenza impugnata nella parte in cui non aveva congruamente spiegato in che cosa consistesse il criterio di normale tollerabilità alla luce del relativo quadro normativo che escludeva l’applicazione di qualsivoglia limite differenziale.
3. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 844-2728-2697 c.c., nonché il vizio di omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo ai fini del giudizio, il tutto in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., formulando i seguenti quesiti di diritto, quanto alla violazione di legge: “dica la Suprema Corte se, nel caso di immissioni sonore contenute nei limiti della specifica normativa sull’inquinamento acustico, sussista una presunzione di liceità delle stesse; se sia onere del preteso danneggiato vincere tale presunzione, fornendo specifica prova dell’oggettiva intollerabilità delle immissioni nel caso concreto; se il giudice nell’individuazione del limite di normale tollerabilità debba valutare la specificità del caso considerando anche la durata dell’effettiva esposizione al rumore, la frequenza e gli orari in cui concretamente detta esposizione si manifesta, tenendo anche conto del preesistente e protratto (per oltre 20 anni) utilizzo del medesimo impianto, valutando il tutto sullo sfondo del particolare contesto ambientale e sociale”. In ordine al dedotto vizio motivazionale il ricorrente ha prospettato che, nella sentenza impugnata, non si ravvisava un idoneo percorso argomentativo in relazione al concreto accertamento sulla effettiva intollerabilità delle immissioni e sulla loro oggettiva idoneità a dar luogo a fenomeni di disturbo (fisici e psichici).
4. Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo ai fini del giudizio, il tutto in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., formulando il seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se il giudice sia tenuto a pronunciarsi su tutti i capi della domanda e, in caso di appello, su tutti i motivi di impugnazione autonomamente apprezzabili”.
5. Rileva il collegio che la prima riportata censura è manifestamente infondata e deve, perciò, essere respinta.
Si osserva che – secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 17145 del 2006 e Cass. n. 8294 del 2011, ord.) – la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c. (nella sua versione “ratione temporis” applicabile nella fattispecie) non richiede l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l’”iter” seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata.
Alla stregua di tale principio, la doglianza in esame è da ritenersi priva di pregio perché il Tribunale di Ancona, con la sentenza qui impugnata e sulla scorta delle complessive risultanze della c.t.u. rinnovata nel giudizio di appello, ha dato sufficientemente conto del ragionamento logico che lo ha condotto al rigetto dell’impugnazione, fondando il suo percorso argomentativo soprattutto – come era lecito attendersi, in relazione alla natura ed all’oggetto della instaurata controversia – sulle conclusioni emergenti dal duplice accertamento tecnico peritale espletato, dai quali, in considerazione delle caratteristiche delle emissioni analizzate e degli altri elementi in proposito rilevanti (quali la conformazione dell’ascensore e le modalità del suo funzionamento, anche in relazione alle connotazioni della zona, dell’edificio condominiale e dell’ubicazione dell’appartamento di proprietà della B. ), era scaturito che i rumori prodotti dall’elevatore condominiale superavano, di gran lunga, la soglia di normale tollerabilità, in tal modo respingendo – per incompatibilità con tali conclusioni decisivamente valorizzate – le avverse difese dedotte nell’interesse del Condominio appellante. In particolare, con la sentenza impugnata, il Tribunale anconetano, proprio sulla scorta degli esiti istruttori, ha concluso per l’intollerabilità dei predetti rumori provocati dalla movimentazione dell’ascensore relativi al trascinamento dello stesso lungo le proprie guide, al motore elettrico posizionato nel vano sottotetto ed alle porte a soffietto della cabina oltre a quelle ad anta esistenti al livello dei piani, sprovviste di sufficienti guarnizioni.
In sostanza, dunque, il denunciato vizio di motivazione ricondotto alla supposta violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c. è del tutto insussistente, avendo il giudice di appello indicato adeguatamente le ragioni poste a base del proprio convincimento, non essendosi limitato, genericamente e “per relationem”, a fare rinvio al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, ma avendo provveduto al una disamina logico-giuridica delle risultanze processuali tale da far trasparire il percorso argomentativo seguito.
6. Anche il secondo e terzo motivo – esaminabili congiuntamente siccome strettamente connessi ed inerenti alla medesima questione giuridica – sono destituiti di fondamento e devono, quindi, essere respinti.
Alla stregua della giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, Cass. n. 5679 del 2001), si è ritenuto, con riferimento al D.P.C.M. 1 marzo 1991, che i criteri dallo stesso previsti per la determinazione dei limiti massimi di esposizione al rumore, ancorché dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati come parametro di riferimento per stabilite l’intensità e – di riflesso – la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati come un limite minimo e non massimo, dato che i suddetti parametri sono meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., con la conseguenza che, in difetto di altri eventuali elementi, il loro superamento è idoneo a determinare la violazione di tale norma.
Orbene, nella specie, il giudice di appello – valorizzando le risultanze delle effettuate c.t.u. – ha accertato il superamento della normale tollerabilità delle emissioni provenienti dall’ascensore condominiale, apprezzabile in relazione all’art. 844 c.c., prendendo come parametro di riferimento il criterio comparativo tra il rumore con e senza la sorgente disturbante nella differenza massima di 3 db, evidenziandosi, inoltre, come lo stesso giudicante non si sia limitato, ai fini della valutazione di intollerabilità delle emissioni, a considerare solo questo criterio, ma ne ha rafforzato la sua rilevanza alla stregua della constatata emergenza di altri univoci criteri oggettivamente riscontrati, riconducibili al livello medio dei rumori della zona (a carattere residenziale e con scarsa presenza di attività commerciali e di servizi), alle rilevazioni ed agli accertamenti effettuati dall’ASL (oltre che, naturalmente, dagli ausiliari tecnici), nonché al riconoscimento della loro rumorosità (non fisiologica) da parte della medesima assemblea condominiale.
Peraltro, è stato chiarito nella giurisprudenza di questa stessa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 1151 del 2003 e Cass. n. 17281 del 2005), che i parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li eccedano, non sono necessariamente vincolanti per il giudice civile che, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo al giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c., delle emissioni, ancorché (in ipotesi) contenute in quei limiti, sulla scorta di un prudente apprezzamento che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica (invero posta preminentemente a tutela di situazioni soggettive privatistiche, segnatamente della proprietà), la cui valutazione, ove adeguatamente motivata (come verificatosi nella specie), costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità.
7. Il quarto ed ultimo motivo si prospetta inammissibile perché – al di là della genericità del formulato quesito di diritto – con esso si riproducono, in effetti, le analoghe doglianze già dedotte con la prima censura (già ritenuta infondata), riferite alla supposta inadeguatezza ed incompletezza della motivazione della sentenza impugnata, che, peraltro, non avrebbero potuto essere sussunte sotto la violazione dell’art. 112 c.p.c. (come, invece, avvenuto nel caso di specie, anche in relazione al tenore del quesito di diritto indicato), bensì come vizio riconducibile all’art. 360 n. 5 c.p.c..
Oltretutto, recentemente, le Sezioni unite di questa Corte (con la sentenza n. 17931 del 2013) hanno chiarito che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, primo comma, c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, pur non essendo indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., è, tuttavia, necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile l’impugnazione allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (proprio come accaduto nel caso in questione).
Quanto alla censura sull’assunta immotivata condanna alle spese, deve sottolinearsi che il giudice di appello ha legittimamente applicato il criterio della soccombenza previsto dall’art. 91 c.p.c., offrendone univoca esplicitazione in dipendenza dell’integrale rigetto del gravame.
8. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere totalmente respinto, con la conseguente condanna del soccombente ricorrente Condominio anche al pagamento delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell’art. 41 dello stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.
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