www.studiodisa.it

La massima
In tema di appalto l’azione del committente per il risarcimento dei danni derivanti dalle difformità e/o dai vizi dell’opera appaltata si aggiunge, nel caso di colpa dell’appaltatore, a quella diretta all’eliminazione, a spese dell’appaltatore, delle difformità e dei vizi o alla riduzione del prezzo, specificamente prevista dall’art. 1668 c.c., senza identificarsi con questa, né è surrogabile con gli effetti della relativa pronuncia.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

SENTENZA 6 febbraio 2013, n.2829

Ritenuto in fatto

Con atto di citazione notificato il 20 aprile 1993 la s.a.s. IMMOBILIARE BARDONECCHIA evocava, dinanzi al Tribunale di Torino, la R.G. GRAFICA s.r.l. esponendo che fra le parti era stato concluso contratto di appalto con il quale la convenuta committente, per il complessivo prezzo di L. 95.000.000, aveva incaricato l’attrice della costruzione di un fabbricato industriale a struttura prefabbricata in Rivoli, affidando la progettazione e direzione dei lavori all’arch. G..M. ; aggiungeva che l’opera veniva consegnata alla committente il 12.2.1992, come da certificazione di regolare esecuzione dei lavori, la quale nell’aprile 1992 inviava all’appaltatrice una lettera di denuncia dei difetti dei pavimenti del piano terreno e del primo piano del fabbricato e che non essendo stato saldato il prezzo, l’attrice dopo qualche mese chiedeva invano il pagamento dell’importo di L. 34.815.068; concludeva chiedendo la condanna della società convenuta alla corresponsione di detto importo.
Instaurato il contraddittorio, si costituiva la società committente, la quale insisteva nella contestazione dei difetti, peraltro riconosciuti dallo stesso Stoppa, legale rappresentante dell’appaltatrice, e spiegava domanda riconvenzionale per ottenere l’eliminazione dei difetti ed il risarcimento dei danni.
Con separato atto introduttivo, notificato il 28 ottobre 1994, la committente evocava in giudizio, avanti al medesimo Tribunale, l’arch. G..M. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per responsabilità professionale, avendola investita dell’incarico di progettare e di seguire in qualità di direttore dei lavori la realizzazione dello stabilimento in (…). Instaurato il contraddittorio anche in detto giudizio, contestata dalla convenuta la propria responsabilità, la quale chiedeva ed otteneva di chiamare in manleva la S.A.I. Assicurazione, che nel costituirsi svolgeva difese ad adiuvandum, le cause venivano riunite ed il Tribunale adito, con sentenza del 7.8.2001, accertava l’esistenza dei vizi del pavimento e la sussistenza di ipotesi di responsabilità ex art. 1669 c.c. e pertanto, in accoglimento della riconvenzionale spiegata dalla committente, condannava l’appaltatrice al risarcimento dei danni, liquidati in L. 137.000.000, oltre accessori, rigettate le altre domande proposte nei confronti della professionista, assorbita quella in manleva.
In virtù di rituale appello interposto dalla IMMOBILIARE BARDONECCHIA s.a.s., con il quale lamentava la erroneità degli accertamenti della consulenza tecnica di ufficio, la Corte di appello di Torino, nella resistenza della appellata committente, la quale proponeva appello incidentale nei confronti della M. e quest’ultima insisteva nella domanda di garanzia nei confronti della SAI., disposta ed espletata una nuova c.t.u., ravvisata nella specie la sussistenza della fattispecie di cui all’art. 1667 c.c., in parziale accoglimento dell’appello principale, riformava la sentenza del giudice di primo grado, condannando la committente al pagamento del saldo del prezzo e l’appaltatrice al risarcimento dei danni liquidati in complessive L. 30.000.000 (pari ad Euro 15.493,71), oltre accessori; dichiarava inammissibile l’appello incidentale.
A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale – premessa la non accoglibilità dell’eccezione di decadenza – evidenziava che doveva essere confermato il giudizio di responsabilità a carico dell’appaltatrice con riferimento alla pavimentazione realizzata al piano terreno (avendo quote altimetriche variabili, con dislivelli massimi dell’ordine di cm. 1), ma che non era necessaria la demolizione della pavimentazione, anche perché i vizi accertati non ne avevano impedito del tutto l’utilizzo.
Aggiungeva che l’appello incidentale era inammissibile per mancanza assoluta di specificità delle censure.
Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione la R.G. GRAFICA s.r.l., articolato su cinque motivi, cui ha resistito la IMMOBILIARE BARDONECCHIA di Stoppa Severino & C. con controricorso, che ha anche presentato ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo. Si è costituita con separato controricorso anche la M. e non l’assicurazione FONDIARIA – SAI. s.p.a., seppure ritualmente intimata. La società resistente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Il ricorso principale ed il ricorso incidentale vanno preliminarmente riuniti, a norma dell’art. 335 c.p.c., concernendo la stessa sentenza.

Ciò posto, con il primo motivo del ricorso principale la R.G. GRAFICA censura la sentenza impugnata, sia per vizio di motivazione sia per violazione di legge, con riferimento agli artt. 1667, 1668 e 1669 c.c. per non avere dato adeguata giustificazione del convincimento maturato, né degli elementi posti a fondamento del proprio ragionamento, dal momento che il primo consulente tecnico di ufficio era pervenuto alla necessità del rifacimento integrale del pavimento del piano terra e del primo piano per non essere i vizi eliminabili con i normali interventi di manutenzione.

Aggiunge la ricorrente che il consulente nominato dal giudice del gravame non giunge a conclusioni diverse quanto all’esistenza dei vizi e loro tipologia, ma si differenzia dal primo accertamento affermando di non poter ritenere con certezza l’inidoneità del pavimento all’uso e soprattutto non fornisce alcuna indicazione in merito agli interventi (soluzioni tecniche) da adottare al fine dell’eliminazione dei difetti, né esclude, a priori, la necessità del rifacimento della pavimentazione. Conclude che nella specie avrebbe dovuto ritenersi applicabile l’art. 1669 c.c. e non l’art. 1667 c.c. o comunque l’art. 1667 c.c. con l’integrazione delle soluzioni tecniche necessarie per eliminare i vizi, per cui così operando ha errato nella determinazione dell’ammontare del risarcimento riconosciuto.

Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1667, 1668, 1223 e 1226 c.c., anche quale vizio di motivazione, per avere la corte di merito liquidato i danni con riferimento al solo pavimento posto al piano terreno, determinazione che sarebbe comunque errata anche a volerla ritenere equitativa, perché non fornisce l’indicazione dei criteri adottati per la quantificazione del danno; aggiunge che il parametro del valore di L. 30.000 al mq. non risulta utilizzato neanche dal citato consulente tecnico di ufficio, per cui viene apoditticamente introdotto un valore escluso dallo stesso c.t.u., né il collegio ha motivato in merito alla necessità di discostarsi dal valore riportato nel prezzario del Collegio Costruttori di Torino. Il giudice del gravame – ad avviso della ricorrente – ha, altresì, omesso di motivare in merito alla esclusione della liquidazione della voce di danno, pari a £. 25.000.000, relativa allo smontaggio dei macchinari.

Con il terzo motivo del ricorso principale viene denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1667 e 1668 c.c., oltre a vizio di motivazione, per avere la corte distrettuale escluso dal risarcimento del danno ‘tutto quanto relativo al primo piano’. In particolare, la relazione del c.t.u. nominato dalla corte di merito si limita a riferire che la tecnica esecutiva del pavimento del primo piano risulta diversa da quella del piano terra, stante il differente comportamento della struttura in elementi prefabbricati, ed il giudice del gravame – sulla base di detto accertamento – rileva la non emersione di elementi di pregiudizio, omettendo poi di motivare sul punto.

Le tre censure – che per la loro stretta connessione ed interdipendenza, vertendo tutte sulla rilevanza dei vizi dell’opera riscontrati, vanno esaminate congiuntamente – sono fondate nei limiti di seguito riportati.

Occorre premettere che costituisce principio fermo nella giurisprudenza di questa corte (cfr, tra le altre, Cass. 24 settembre 1994 n. 7851; Cass. 2 agosto 2001 n. 10571) che in tema di appalto l’azione del committente per il risarcimento dei danni derivanti dalle difformità e/o dai vizi dell’opera appaltata si aggiunge, nel caso di colpa dell’appaltatore, a quella diretta all’eliminazione, a spese dell’appaltatore, delle difformità e dei vizi o alla riduzione del prezzo, specificamente prevista dall’art. 1668 c.c., senza identificarsi con questa, né è surrogabile con gli effetti della relativa pronuncia.

Nella specie la corte di merito non ha applicato correttamente i suddetti principi e la motivazione posta a base della decisione impugnata non è né lineare e coerente, né immune da vizi logici e giuridici. Dalla lettura della sentenza di cui si chiede l’annullamento risulta che il giudice del gravame, riportando estesamente le considerazioni tecniche della consulenza tecnica disposta d’ufficio ed eseguita in secondo grado, tutte nel senso di escludere la inidoneità assoluta dell’opera al suo utilizzo, legittimante l’azione ex art. 1669 c.c., ha chiarito le ragioni per cui ha disatteso la consulenza redatta nel giudizio di primo grado, che sul punto era addivenuta a conclusioni affatto diverse (con il risultato di far propendere il giudice di prime cure verso la configurabilità della più grave ipotesi prevista dall’enunciata norma), ed ha fondato l’adesione alla seconda consulenza sull’argomento della utilizzazione da parte della committente del fabbricato industriale per ben dieci anni, collocandovi pesanti macchinari necessari per lo svolgimento della sua attività, con conseguente configurazione nel caso in esame della fattispecie dell’art. 1667 c.c., da cui discende la non condivisibilità della doglianza nella prima parte del primo motivo del ricorso principale; l’argomentazione però diviene illogica ed errata da un punto di vista giuridico con l’affermazione che la esclusione dell’art. 1669 c.c. impediva di per sé la ipotesi di un rifacimento completo della pavimentazione.

Invero la circostanza che l’accertamento tecnico espletato in secondo grado, ritenendo utilizzabile il pavimento, abbia portato il giudice distrettuale a concludere per la esclusione della esistenza dei gravi difetti rilevanti ex art. 1669 c.c., sussistendo ipotesi di cui all’art. 1667 c.c., non doveva comportare – come conseguenza – la impossibilità giuridica di chiedere ed ottenere l’eliminazione dei vizi.

In altri termini, la corte di merito ha confuso situazioni che si pongono su piani giuridici diversi: da un lato, la gravità giuridica dei vizi, dall’altro, le modalità tecniche di eliminazione dei difetti riscontrati, giungendo a conclusioni errate quanto alla struttura della disciplina del contratto di appalto. La esclusione della presenza di difformità o di vizi dell’opera di natura tale da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione comporta soltanto la impossibilità per il committente di chiedere la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1668 c.c., non certo la facoltà di chiedere, oltre al risarcimento dei danni, anche che i vizi vengano eliminati con opere a carico dell’appaltatore, in alternativa alla riduzione del prezzo.

Essendo stata nella specie simile domanda di eliminazione dei vizi mediante il rifacimento dell’opus espressamente avanzata in giudizio dalla committente, in aggiunta a quella diretta ad ottenere il risarcimento dei danni, il giudice di appello è perciò incorso nel dedotto vizio di illogicità ed erroneità della pronuncia giacché, dopo avere riconosciuto l’esistenza dei difetti costruttivi della pavimentazione dell’edificio, imputabile all’appaltatore, incidente negativamente sul valore dell’opera, ha limitato il contenuto della garanzia dovuta per tale vizio al diritto del committente al solo piano terra dell’opificio ed al risarcimento dei danni relativi a detto livello, escludendo irragionevolmente l’estensibilità dall’eliminazione dei vizi del pavimento del primo piano, pur essendo lo stesso affetto dai medesimi difetti. Né l’affermata assenza di un pregiudizio può valere a fare venire meno il diritto all’eliminazione del vizio accertato, si ribadisce, anche dalla consulenza svolta in seconde cure.

Con il quarto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., anche per omessa motivazione ed error in procedendo perché pur avendo espressamente riconosciuto la sussistenza di un nesso di causalità tra le carenze progettuali ed il verificarsi dei danni quale conseguenza della colpa anche della professionista, ha poi dichiarato ingiustificatamente la inammissibilità dell’appello incidentale.

Anche detto motivo va accolto.

Occorre premettere che a composizione di insorto contrasto, con recente sentenza n. 8077 del 22 maggio 2012, le Sezioni Unite di questa Corte si sono pronunciate su questione (di cui è stata anche sottolineata la riproponibilità in una molteplicità di casi, accomunati dalla natura processuale del vizio denunciato dal ricorrente e dalla sua interdipendenza con l’interpretazione da dare ad una domanda o ad un’eccezione di parte) che, seppure pronunciata con riferimento a specifica e diversa fattispecie, è rilevante in questo giudizio, essendo stati nella decisione preliminarmente definiti i limiti dell’indagine che il giudice di legittimità è chiamato a compiere in presenza della denuncia di vizi che, come nel caso in esame, attengono alla corretta applicazione di norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione del giudice di merito, ma, al tempo stesso, comportano anche la verifica del modo in cui uno o più atti di quel processo sono stati intesi e motivatamente valutati da parte dello stesso giudice di merito.

Infatti, anche sull’ambito dello scrutinio in sede di legittimità della censura sulla specificità dei motivi di appello si contrappongono due indirizzi aventi consistenza analoga a quelli oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite: uno, più risalente, secondo il quale la verifica del rispetto dell’onere di specificazione dei motivi di impugnazione – richiesta dagli artt. 342 e 434 c.p.c., per la individuazione dell’oggetto della domanda di appello e per stabilire l’ambito entro il quale deve essere effettuato il riesame della sentenza impugnata – non è direttamente effettuabile dal giudice di legittimità, dacché interpretare la domanda – e, dunque, anche la domanda di appello – è compito del giudice di merito e implica valutazioni di fatto che la Corte di Cassazione – così come avviene per ogni operazione ermeneutica – ha il potere di controllare soltanto sotto il profilo della giuridica correttezza del relativo procedimento e della logicità del suo esito (cfr. Cass. 14 agosto 2008 n. 21676; Cass. 1 febbraio 2007 n. 2217; Cass. 22 febbraio 2005 n. 3538; Cass. 14 luglio 1992 n. 8503) e l’altro, invece, contrastante, secondo il quale la specificità dei motivi di impugnazione, richiesta dall’art. 342 c.p.c., è verificabile in sede di legittimità direttamente, poiché la relativa censura è riconducibile nell’ambito dell’error in procedendo (cfr. Cass. 15 gennaio 2009 n. 806; Cass. 13 settembre 2006 n. 19661; Cass. 24 novembre 2005 n. 24817; Cass. 24 gennaio 2004 n. 1456).

Sul comune tema generale, dunque, le Sezioni Unite hanno conclusivamente affermato il principio di diritto secondo cui il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito.

Alla luce dei suddetti principi ed esaminati anche gli atti, deve concludersi per la fondatezza della censura, giacché nella specie la dichiarazione di inammissibilità dell’appello incidentale della R.G. GRAFICA relativo alla responsabilità della progettista e direttrice dei lavori oltre ad essere sul piano della motivazione alquanto scarna, non spiegando appieno le ragioni della rilevata mancata specificità della censura, risulta errata all’esito dello scrutinio dell’atto di appello incidentale, che non consente di confermare tale conclusione.

Infatti al punto 4) dell’appello incidentale, sotto la rubrica “Sulla responsabilità del Direttore dei lavori”, risulta svolta un’articolata parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, mirava ad incrinarne il fondamento logico – giuridico della decisione del giudice di primo grado, deducendone l’irragionevolezza proprio con riferimento all’ingiusto recepimento delle indicazioni della consulenza di ufficio in merito alla evidenziata mancanza totale della progettazione del pavimento, tanto più importante per le sollecitazioni alle quali si prevedeva sarebbe stato sottoposto, di cui veniva sottolineata anche la ‘totale mancanza di precisazione delle caratteristiche tecniche in sede contrattuale e di sorveglianza da parte della direzione dei lavori’, con specifica indicazione delle ragioni di dissenso, ricondotte all’erroneità delle valutazioni espresse, anche alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale in materia. D’altra parte, qualora l’atto d’appello denunci l’erronea valutazione, da parte del giudice di primo grado, degli elementi probatori acquisiti o delle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è sufficiente, al fine dell’ammissibilità dell’appello, l’enunciazione dei punti sui quali si chiede al giudice di secondo grado il riesame delle risultanze istruttorie per la formulazione di un suo autonomo giudizio, non essendo richiesto che l’impugnazione medesima contenga una puntuale analisi critica delle valutazioni e delle conclusioni del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ovvero l’espressa indicazione delle questioni decisive non esaminate o non correttamente esaminate (cfr, tra le altre e da ultimo, Cass. 12 settembre 2011 n. 18674).

Passando all’esame del quinto motivo del ricorso principale e dell’unico motivo del ricorso incidentale proposto dalla MOBILIARE BARDONECCHIA – con i quali viene denunciata, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione, anche per omessa motivazione, dell’art. 91 c.p.c. per avere il giudice del gravame del tutto omesso la valutazione dei motivi di appello incidentale relativi al mancato riconoscimento nella sentenza di prime cure del diritto della ricorrente ad ottenere la ripetizione delle spese sostenute con l’accertamento tecnico preventivo, nonché la violazione e falsa applicazione, oltre a vizio di motivazione, degli arti 1667, 1668, 1223 e 1226 c.c. per avere il giudice del gravame, pur qualificando come modesti i vizi, liquidato il danno equitativamente, prendendo le mosse dall’importo segnalato dal c.t.u. nominato dal giudice di primo grado – attenendo a questioni sostanzialmente accessorie rispetto alle censure accolte, riguardando il regime delle spese processuali e la liquidazione dei danni, restano assorbiti dalla decisione adottata.

La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata in relazione ai motivi accolti e nei limiti precisati.

La cassazione dell’impugnata sentenza rende necessario il rinvio della causa alla Corte di appello di Torino, alla quale competerà sia di pronunciarsi sul merito della controversia nei termini sopra indicati, sia di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi, accoglie nei sensi di cui in motivazione il ricorso principale, assorbito quello incidentale;

cassa e rinvia, anche per le spese processuali del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Torino.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *