Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 29 febbraio 2016, n. 3926
Svolgimento del processo
Con quattro distinti atti di citazione notificati tra il 24 ed il 25 marzo 2003, lo STUDIO ASSOCIATO G. DI CONSULENZA AZIENDALE, in persona del suo socio e legale rappresentante Dott. G.G. , convenne Z.M. , Z.P.D. , la M.Z. & C. S.a.p.a. (poi GASDA & C. S.a.p.a.), in persona del suo rappresentante Z.M. , nonché la EMMEZETA FOOD DI VERGIATE s.r.l., davanti al Tribunale di Busto Arsizio, sezione distaccata di Gallarate, chiedendo il compenso per le diverse prestazioni professionali svolte in favore dei convenuti negli anni compresi fra il 1994 e il 1999, variamente consistenti in attività di consulenza aziendale in operazioni di cessione o di acquisto di quote societarie, predisposizione delle dichiarazioni dei redditi, trasferimenti di investimenti o capitali, assistenza in contenziosi tributari ed in accertamenti fiscali. Contestata dai convenuti l’esistenza dei vantati crediti professionali, riuniti i distinti procedimenti, espletata istruttoria testimoniale ed acquisite le risultanze di prove per testi assunte in procedimenti connessi, il Tribunale di Busto Arsizio, sezione distaccata di Gallarate, con sentenza del 10 ottobre 2008, accoglieva le domande proposte dallo STUDIO ASSOCIATO G. DI CONSULENZA AZIENDALE e perciò condannava: a) la Emmezeta Food di Vergiate s.r.l. in liquidazione al pagamento della somma di Euro 15.710,01; b) Z.M. alla corresponsione della somma di Euro 95.213,82 (per prestazioni professionali tutte erogate nel corso del 1996, dedotto l’acconto pagato dal cliente il 14 marzo 1997); c) Z.P.D. alla corresponsione della somma di Euro 45.014,21 (per attività professionali svolte dal 1996 al 1999, dedotto l’acconto pagato dal cliente il 19 marzo 1997); d) la M.Z. & C. S.a.p.a., al pagamento della somma di Euro 7.777,23 (per prestazioni professionali ricevute tra il 1998 ed il 1999); oltre, per tutti gli importi, gli interessi legali dall’i1 dicembre 2001 sino al saldo.
Veniva proposto appello con citazione del 9 gennaio 2009 da Z.M. , in proprio e come legale rappresentante della GASDA & C. SAPA (già M.Z. & C. S.a.p.a.), Z.P.D. , Z.M. e Z.A.M. , già soci della EMMEZETA FOOD s.r.l. in liquidazione, avverso la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, sezione distaccata di Gallarate, con sette motivi di gravame. Si costitutiva nel giudizio d’appello BT&O STUDIO ASSOCIATO CONSULENZA AZIENDALE, già Studio Associato G. , eccependo il difetto di legittimazione ad impugnare di Z.M. e Z.A.M. , quali soci della EMMEZETA FOOD s.r.l. in liquidazione, e comunque chiedendo il rigetto dell’impugnazione in quanto infondata.
La CORTE D’APPELLO di MILANO, con sentenza n. 748/2011 del 18 marzo 2011, accoglieva l’impugnazione limitatamente alla decorrenza degli interessi legali dalla costituzione in mora, spostata al 29 marzo 2002 (data di ricezione della raccomandata), confermando quanto al resto la decisione di primo grado. La Corte milanese in via pregiudiziale riconosceva la legittimazione ad appellare di Z.M. e Z.A.M. , quali soci della EMMEZETA FOOD s.r.l. in liquidazione, in quanto ex soci, interessati ai diritti patrimoniali che facevano capo alla società; così come riconosceva la legittimazione processuale e la legitimatio ad causam dello Studio Associato G. di Consulenza Aziendale. La pronuncia del collegio d’appello verificava che lo Studio Associato G. di Consulenza Aziendale potesse promuovere il giudizio in quanto parte sostanziale dei rapporti dedotti in lite, giacché studio composto da dottori commercialisti che aveva assistito gli Z. e le rispettive società in svariati affari. Da due bozze di fattura dell’11 dicembre 2001 e dalla documentazione relativa agli acconti corrisposti si dava in sentenza per accertato che i rapporti contrattuali fossero intercorsi esclusivamente con lo Studio Associato G. e non con il singolo professionista. La Corte di Milano illustrava che lo Studio Associato G. non costituisse una semplice associazione professionale di mezzi, avendo essa, piuttosto, natura di società semplice, come da atto costitutivo allegato. Circa l’eccezione di nullità ed inefficacia del contratto d’opera, ex artt. 2231-2232 c.c., per violazione di norme imperative, non avendo i clienti conferito gli incarichi allo studio associato, la Corte d’Appello giudicava la stessa inammissibile perché tardiva, in quanto proposta soltanto in comparsa conclusionale nel giudizio di primo grado, e perciò pure implicitamente rigettata dal Tribunale. In ogni caso, la Corte di merito osservava come l’art. 2 delle legge n. 1815/1939 neppure potesse essere più invocato, in quanto abrogato dall’art. 24 della legge n. 266/1997. La medesima sentenza d’appello reputava, poi: 1)correttamente utilizzate dal Tribunale per la sua decisione le risultanze di prove testimoniali raccolte in altri procedimenti tra le stesse parti; 2) superflua l’assunzione di altre prove sollecitate dagli appellanti, essendo sufficienti gli elementi già acquisiti, nonché, in particolare, inammissibile il deferito giuramento decisorio; 3) adeguata la valutazione delle risultanze istruttorie, come anche la distribuzione dell’onere delle prova, da parte del Tribunale; 4) inevitabile che tutti i rapporti dedotti in lite non potessero che essere successivi al 2 maggio 1994, giorno di costituzione dello Studio Associato G. ; 5) mancante di prova il dedotto accordo che accollava alla Salzam s.r.l. ogni spesa delle prestazioni professionali svolte dal commercialista G. in favore degli Z. ; 6) provato, piuttosto, il credito dello Studio Associato, atteso che i pagamenti di acconti da parte di Z.M. e P.D. risultavano eseguiti mediante disposizioni bancarie in favore del conto corrente intestato proprio allo Studio Associato G. e non del singolo commercialista; 7) ulteriormente dimostrate le attività svolte dallo Studio G. in base alla documentazione richiamata (ricorso a Commissione Tributaria di Varese, Verbale della Guardia di Finanza del 9 maggio 1995, ecc.). Circa la quantificazione dei compensi, la Corte di Milano negava fondatezza ai motivi di appello, ritenendo applicabile la tariffa professionale dei dottori commercialisti, giacché tutta l’attività professionale svolta dallo Studio Associato G. doveva dirsi tipica dell’opera del dottore commercialista. Alcuna nullità le tariffe professionali applicabili portavano, secondo i giudici d’appello, con riguardo all’art. 81, comma 1, Trattato CE.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano propongono ricorso articolato in undici motivi Z.M. , in proprio e come legale rappresentante della GASDA & C. SAPA, Z.P.D. , nonché Z.M. e Z.A.M. , quali ex soci della EMMEZETA FOOD s.r.l. in liquidazione.
Resiste con controricorso BT&O STUDIO ASSOCIATO CONSULENZA AZIENDALE (già Studio Associato G. ), chiedendo il rigetto del ricorso in quanto inammissibile ed infondato. Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
I. Il primo motivo di ricorso concerne la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1 e 2, legge n. 1815/1939 e art. 2232 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la natura giuridica e i poteri del soggetto che agisce in relazione alla domanda spiegata, con correlata violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 360,comma 1, n. 4, c.p.c., il difetto di legittimazione processuale e di legittimazione ad agire. Vi si sostiene che lo Studio Associato G. di Consulenza Aziendale fosse carente di legittimazione processuale ed ad agire per il pagamento dei compensi delle prestazioni professionali pretesi dai clienti, non essendo esso studio titolare dei poteri di proposizione della domanda giudiziale, né della situazione sostanziale vantata come bisognosa di tutela.
I/2. Con il primo motivo “bis” si aggiunge la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1418, 1421 e 2232 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per la nullità del contratto d’opera, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 345, 112, 184, 101 comma 1, c.p.c. e art. 24 Cost., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., l’erronea applicazione del divieto di novum e delle preclusioni ex art. 184 c.p.c., per l’omesso rilievo d’ufficio di eccezione in senso lato. Si osserva che, ove il giudice avesse ritenuto costituito il rapporto di consulenza professionale direttamente e impersonalmente con lo Studio Associato, allora i contratti sarebbero stati nulli ed inefficaci per violazione di norme imperative, con conseguente venir meno del titolo per ottenere il pagamento dei compensi. I ricorrenti fanno espresso riferimento all’art. 2232 c.c. in relazione agli artt. 1 e 2, legge n. 1815/1939, norme imperative con correlata nullità dei contratti. Nullità che doveva essere rilevata d’ufficio dal giudice, era stata comunque dedotta utilmente dai convenuti nella comparsa conclusionale in primo grado, era stata riallegata in appello, stante l’omessa pronuncia sul punto ad opera del Tribunale, ed era stata infine disattesa dalla Corte del gravame, anche sul dato dell’avvenuta abrogazione dell’art. 2, legge n. 1815/1939, questione l’ultima mai sottoposta al contraddittorio delle parti, con conseguente violazione dell’art. 101, comma 2, c.p.c..
II. Il secondo motivo censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 111 Cost., 115 e 116 c.p.c., 101 c.p.c., e il difetto di motivazione, quanto all’acquisizione ed utilizzazione delle risultanze di prove testimoniali relative ad altri giudizi.
II/2.11 secondo motivo “bis” denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 274 e 40 c.p.c., per la mancata autonomia istruttoria e la comune decisione impressa alle quattro cause riunite.
III. Il terzo motivo attiene alla violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 2230 e 1218 c.c., avendo la sentenza impugnata ritenuto sussistente la prova del credito professionale sulla base di documenti unilaterali, ovvero di testimonianze rese in altri giudizi.
IV. Il quarto motivo sostiene la violazione dell’art. 2687 c.c. in combinato con l’art. 2725 c.c., essendo stata negata nei gradi di merito la richiesta prova per testimoni circa un contratto di consulenza fiscale tra il G. e la Società Capogruppo del Gruppo Z. Salzam s.r.l., trattandosi di contratto comunque sottratto ad obblighi di forma scritta, né ad substantiam né ad probationem.
V. Col quinto motivo di critica l’omessa o immotivata valutazione delle risultanze istruttorie, e quindi la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2699 e ss. c.c., nonché 115, 116 e 252 c.p.c., sia quanto alle prove testimoniali che alla documentazione prodotta, analiticamente indicando le singole fonti di convincimento poste dalla Corte di merito a fondamento della sua decisione.
VI. Il sesto motivo allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1218, 2233 c.c., in ordine alla quantificazione dei compensi professionali, stante l’indeterminatezza della tipologia e della portata delle prestazioni rese, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, d.P.R. 645/1994 circa l’applicabilità affermata della tariffa professionale dei dottori commercialisti ad uno Studio Associato, che non può definirsi soggetto iscritto nel relativo albo professionale.
VII. Il settimo motivo attiene alla violazione e falsa applicazione dell’art. 81, comma 1, Trattato CE, ed alla omessa o insufficiente motivazione, questo con riguardo alla nullità della tariffa professionale applicata per la sua inderogabilità dei minimi, di per sé limitativa della concorrenza.
VIII. L’ottavo motivo sostiene attiene la violazione e falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., e pure omessa motivazione, quanto alla dedotta questione dell’esigua importanza dell’opera prestata, questione che avrebbe dovuto influenzare la liquidazione dei compensi accordati.
IX. Con il nono motivo, i ricorrenti infine censurano la violazione e falsa applicazione dell’art. 245 c.p.c., e sempre l’omessa motivazione, in ordine al giudizio di ammissibilità e rilevanza delle prove dedotte dai convenuti, singolarmente richiamate in ricorso, prove dapprima solo parzialmente ammesse dal Tribunale e poi neppure espletate.
I. Il primo motivo di ricorso è infondato laddove assume che lo Studio Associato G. di Consulenza aziendale (attore in primo grado e poi appellato e qui controricorrente quale BT&O Studio associato Consulenza aziendale) non potesse assumere la qualità di “parte” del presente giudizio, e ciò sia inteso come “parte in senso formale” (ovvero come soggetto dell’azione, idest colui che compie gli atti del processo), sia come “parte in senso sostanziale” (ovvero come soggetto della lite, idest colui che è titolare del rapporto sostanziale per cui è causa e perciò subisce gli effetti dell’accertamento giudiziale).
Questa Corte ha più volte ribadito, con orientamento che merita adesione e che è stato seguito pure dai giudici dell’appello, che l’art. 36 c.c. stabilisce che l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute sono regolati dagli accordi tra gli associati, i quali ben possono attribuire all’associazione la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati. Ne consegue che, ove il giudice accerti tale circostanza, sussiste la legittimazione attiva dello studio professionale associato cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomo centro d’imputazione di rapporti giuridici, anche se privo di personalità giuridica, in quanto però rientrante nel novero di quei fenomeni di aggregazione di interessi di cui anche i liberi professionisti possono essere membri rispetto ai crediti per le prestazioni svolte dai singoli prestatori d’opera a favore del cliente conferente l’incarico, in quanto il fenomeno associativo tra professionisti può non essere univocamente finalizzato alla divisione delle spese ed alla gestione congiunta dei proventi (Cass. 8 settembre 2011, n. 18455; Cass. 28 luglio 2010, n. 17683). La legittimazione dello Studio Associato G. (poi BT&O Studio associato) a promuovere il presente giudizio in ordine ai rapporti sostanziali oggetto delle diverse cause riunite, ed a configurarsi quale effettivo beneficiario del pagamento dei pretesi compensi da Z.M. , da Z.P.D. , dalla M.Z. & C. S.a.p.a. (poi GASDA & C. S.a.p.a.), nonché dalla EMMEZETA FOOD DI VERGIATE s.r.l., rimane indubitabile sulla base della prospettazione delle vicende contrattuali offerta dallo stesso attore nelle sue domande. Va ulteriormente ricordato qui, peraltro, l’orientamento altrettanto consolidato espresso da questa Corte in tema di ammissione al passivo fallimentare, laddove la domanda proposta da parte di uno studio associato lasci presumere l’esclusione della personalità del rapporto d’opera professionale, e dunque induce a negare l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 2 c.c., a meno che non sia allegata e provata la cessione del credito della prestazione professionale svolta personalmente dal singolo associato (Cass. 2 luglio 2012, n. 11052; Cass. 8 settembre 2011, n. 18455).
1/2. È invece fondata la seconda parte del primo motivo di ricorso, denominato “Motivo 1 bis”. La Corte d’Appello di Milano, come visto, ha reputato tardiva, e perciò inammissibile, la deduzione di nullità dei contratti d’opera oggetto di lite, in quanto formulata dai convenuti soltanto in sede di comparsa conclusionale. Quanto alla fondatezza della stessa eccezione, la Corte di merito ha sottolineato come l’invocato art. 2 delle legge n. 1815/1939 fosse ormai stato abrogato dall’art. 24 della legge n. 266/1997. La soluzione prescelta nell’impugnata sentenza non può essere condivisa sia sotto il profilo sostanziale che sotto il profilo processuale.
Com’è noto, la legge 23 novembre 1939, n. 1815, recava la disciplina giuridica degli studi di assistenza e di consulenza. Il suo articolo 2, in particolare, prevedeva che fosse ” vietato costituire, esercire o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di cui al precedente articolo, società, istituti, uffici, agenzie od enti, i quali abbiano lo scopo di dare, anche gratuitamente, ai propri consociati od ai terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria”. La “forma” unica prevista dall’art. 1 della legge n. 1815/1939 era in tal senso descritta: “Le persone che, munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate all’esercizio di specifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge, si associano per l’esercizio delle professioni o delle altre attività per cui sono abilitate o autorizzate, debbono usare, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati”. L’art. 24 della legge 7 agosto 1997, n. 266, aveva poi, al primo comma, abrogato detto art. 2 della legge n. 1815/1939. Successivamente, l’intera legge 23 novembre 1939, n. 1815, era stata abrogata dal d.l. 22 dicembre 2008, n. 200, quindi ripristinata della legge 18 febbraio 2009, n. 9, in sede di conversione, ulteriormente prorogata dal d.lgs. 1 dicembre 2009, n. 179, ed infine abrogata dall’articolo 10, comma 11, della legge 12 novembre 2011, n. 183, a decorrere dal 1 gennaio 2012.
Ora, è proprio la sentenza della Corte d’Appello di Milano che afferma che “sotto la denominazione Studio Associato G. di Consulenza aziendale non v’era una semplice associazione professionale di mezzi, sibbene un’associazione professionale avente natura di società semplice (vedesi atto costitutivo, pag. 4, di cui all’allegato n. 16 di parte attrice in primo grado, che richiama gli artt. 2251 e segg. c.c.”. Il dato è confermato anche nelle difese del controricorrente.
I ricordati divieti e limiti posti per le cosiddette professioni protette dalla legge 23 novembre 1939, n. 1815, però, non consentivano la costituzione di società aventi ad oggetto la prestazione di attività professionale, permettendo soltanto l’associazione ai professionisti muniti dei necessari titoli di abilitazione. Il divieto di cui all’art. 2 della legge n. 1815/1939, in particolare, appariva tale da abbracciare tutte le forme societarie, di capitali come pure di persone (compreso le società semplici), essendo lo “studio associato” ex art. 1, legge n. 1815/1939, l’unica forma consentita di esercizio in comune dell’attività professionale. Tale disciplina normativa mirava, in sostanza, ad impedire l’esercizio in modo anonimo delle professioni protette “ex art. 2229 c.c., in quanto contrastante con la natura del rapporto di prestazione d’opera professionale, nel quale assume spiccato rilievo l’esecuzione personale e fiduciaria dell’incarico (art. 2232 c.c.). La giurisprudenza di questa Corte, in vigenza della legge n. 1815/1939, si era più volte orientata nel senso che, rispetto all’esercizio delle professioni “protette”, poiché l’unica veste di associazione consentita era quella che non facesse venir meno il rapporto di immediatezza tra professionista e cliente basato sull’intuitus personae, la necessità di un tale rapporto fiduciario dovesse indurre ad escludere comunque che più professionisti intellettuali potessero costituirsi in società, quale che fosse il tipo sociale, potendo la società non incorrere nel divieto legislativo solo se la stessa non avesse come scopo l’espletamento dei compiti propri del professionista, ma soltanto quello di porre a disposizione di quest’ultimo un apparato di strutture e di mezzi. (Cass. 7 gennaio 1993, n, 79; Cass. 13 luglio 1993, n. 7738).
La giurisprudenza aveva anche spiegato che la disciplina dei rapporti interni tra i partecipanti alle associazioni fra professionisti ben poteva essere stabilita mediante regole pattizie organizzative tipiche dello schema della società di persone, senza che però ciò implicasse un’automatica assunzione della forma societaria nei rapporti esterni, cui avrebbe fatto seguito un contrasto con il divieto di legge (Cass. 16 aprile 1991, n. 4032).
La stessa sentenza della Corte d’Appello di Milano ha poi accertato che tutta l’attività professionale oggetto di lite fosse “tipica dell’opera del dottore commercialista”. E il divieto di esercizio in forma societaria delle attività di consulenza e assistenza tecnica, ex artt. 1 e 2 legge n. 1815 del 1939, era applicabile certamente ai dottori commercialisti in quanto professione “protetta”, per il cui esercizio è necessaria l’iscrizione in apposito albo , proprio con riguardo alle prestazioni interamente rientranti nell’attività professionale tipica del commercialista, e non in attività preparatorie o accessorie. Da ciò discenderebbe la nullità del contratto che, nella vigenza del divieto di cui all’art. 2, legge n. 1815/1939, avesse affidato ad una società l’esecuzione di incarichi rientranti totalmente nell’ordinaria attività del libero professionista commercialista, così che tali prestazioni risultassero imputabili in via diretta alla società e non ai professionisti che alla stessa facessero capo, senza che assumesse rilievo la circostanza per cui le singole prestazioni oggetto del contratto fossero state poi concretamente effettuate da un professionista iscritto all’albo o effettuate sotto la sua direzione e vigilanza (Cass. 18 aprile 2007, n. 9236).
Va allora conclusivamente osservato, quanto ai profili sostanziali della censura in esame, che l’avvenuta abrogazione dell’art. 2, legge n. 1815/1939 per effetto dell’art. 24 della legge 7 agosto 1997, n. 266, a far tempo dall’11 agosto 1997 (data di entrata in vigore della legge abrogante), non incide in ordine alla valutazione di eventuale nullità dei contratti di prestazione professionale precedentemente conclusi tra lo Studio Associato G. e Z.M. , Z.P.D. , la M.Z. & C. S.a.p.a. e la EMMEZETA FOOD DI VERGIATE s.r.l. (cfr. Cass. 29 dicembre 2007, n. 24922), ove risultasse accertato in fatto che il primo fosse costituito per l’esercizio dell’attività professionale di commercialista in forma societaria, trattandosi di nullità insanabile per contrasto con norma imperativa di legge. In base ai principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, l’illiceità (e la conseguente invalidità) del contratto deve essere riferita alle norme in vigore nel momento della sua conclusione e, pertanto, il negozio giuridico nullo all’epoca della sua perfezione, perché contrario a norme imperative, non può divenire valido e acquistare efficacia per effetto della semplice abrogazione di tali disposizioni, in quanto, perché questo effetto si determini, è necessario che la nuova legge operi retroattivamente, incidendo sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore (Cass. 21 febbraio 1995, n. 1877).
Né, sotto il profilo processuale, è corretta la soluzione adottata dalla Corte d’Appello di Milano, consistente nel giudicare tardivo, e perciò inammissibile, il rilievo di nullità dei contratti d’opera oggetto di lite, in quanto effettuato dai convenuti soltanto in sede di comparsa conclusionale.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito come, alla luce del ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell’assetto negoziale, il rilievo “ex officio” di una nullità negoziale deve ritenersi consentito pure in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento, rescissione), sicché il giudice ha il poteredovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti “ex actis”, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso (Cass. sez. un. 4 settembre 2012, n. 14828; Cass. sez. un. 12 novembre 2014, n. 26242). Tanto più va ribadito come la nullità del contratto sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo in una causa, quale quella in esame, in cui di tale contratto si chieda l’adempimento, essendo il giudice tenuto a verificare l’esistenza delle condizioni dell’azione e a rilevare d’ufficio le eccezioni che, senza ampliare l’oggetto della controversia, tendano al rigetto della domanda e possano configurarsi come mere difese del convenuto. E in quanto, appunto, il rilievo della nullità del contratto dedotto in lite integra gli estremi non di un’eccezione in senso stretto, bensì di una mera difesa, esso ben può essere formulato, come avvenuto nel caso in esame, in comparsa conclusionale, purché sia fondato su elementi già acquisiti al giudizio.
L’accoglimento del “motivo 1 bis” assorbe la trattazione delle ulteriori censure contenute nel ricorso.
La sentenza impugnata va pertanto cassata, per quanto di ragione, e la causa rinviata ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Il giudice di rinvio riesaminerà la causa tenendo conto dei rilievi sopra esposti e dei principi affermati, avendo riguardo, in particolare, all’applicabilità del divieto di cui all’art. 2, legge n. 1815/1939, nella valutazione della validità dei contratti di prestazione professionale intercorsi tra le parti prima dell’11 agosto 1997; alla tempestività del rilievo di nullità di tali contratti operato dai convenuti, ed in ogni caso alla rilevabilità ex officio della stessa; alla portata, infine, del divieto di esercizio in forma societaria delle attività di consulenza e assistenza tecnica ex artt. 1 e 2 legge n. 1815 del 1939.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie, per quanto di ragione, il “motivo 1 bis”, dichiara assorbito l’esame degli ulteriori motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.
Leave a Reply