Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 28 maggio 2014, n. 21780
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARMENINI Secondo L – Presidente
Dott. IANNELLI Enzo – Consigliere
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere
Dott. BELTRANI Serg – rel. Consigliere
Dott. CARRELLI P.D.M. Roberto M – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 612/2011 CORTE APPELLO di MESSINA, del 07/06/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/02/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Antonio Mura, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso, rilevata la regolarita’ degli avvisi di rito.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARMENINI Secondo L – Presidente
Dott. IANNELLI Enzo – Consigliere
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere
Dott. BELTRANI Serg – rel. Consigliere
Dott. CARRELLI P.D.M. Roberto M – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 612/2011 CORTE APPELLO di MESSINA, del 07/06/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/02/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Antonio Mura, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso, rilevata la regolarita’ degli avvisi di rito.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Messina ha confermato – quanto all’affermazione di responsabilita’ – la sentenza emessa in data 1 ottobre 2010 dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto che aveva dichiarato l’imputato colpevole della ricettazione di un assegno bancario (fatto commesso in localita’ ignota, in data successiva al 23 febbraio 2004), riducendo la pena ritenuta di giustizia dal primo giudice.
L’imputato, con l’ausilio di un difensore iscritto nell’apposito albo speciale, ha proposto ricorso per cassazione contro tale provvedimento, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
1 – inosservanza od erronea applicazione delle norme in tema di competenza per territorio con manifesta illogicita’ della motivazione (premesso un generico rinvio all’atto di appello, contesta l’avvenuto radicamento della competenza per territorio ex articolo 9 c.p.p., comma 2, avendo immediatamente ammesso di aver ricevuto l’assegno in Palermo; nel dubbio, invoca il favor rei);
2 – plurimi profili di carenza e manifesta illogicita’ della motivazione quanto all’affermazione di responsabilita’ dell’imputato (la Corte di appello, pur essendo giunta sul punto alle medesime conclusioni del Tribunale, ha ritenuto inattendibile il teste (OMISSIS), e del tutto inutile affrontare la questione della sottoscrizione del titolo, attribuendo erroneamente al Tribunale accertamenti in realta’ asseritamente svolti dal consulente del P.M.; avrebbe, in definitiva, fondato il suo convincimento quanto alla consapevolezza della provenienza furtiva del titolo de quo soltanto sulla sua ricezione e sulla circostanza che l’imputato non aveva inizialmente rivelato il nome del soggetto che glielo aveva consegnato, e successivamente aveva solo all’udienza preliminare indicato il nome di una persona nelle more deceduta);
3 – inosservanza od erronea applicazione di legge, con mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione, quanto alle circostanze del reato, alla determinazione della pena ed ai benefici di legge (lamenta il diniego delle attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’articolo 648 c.p., comma 2, nonche’ l’omessa pronunzia sull’attenuante di cui all’articolo 62 c.p., n. 4, e sulla richiesta di sospensione condizionale della pena).
In data 17 febbraio 2014, ovvero il giorno prima dell’udienza, e’ pervenuto un fax con dichiarazione di adesione ad astensione dalle udienze civili e penali per il giorno 18 febbraio 2014.
All’odierna udienza pubblica, dopo il controllo della regolarita’ degli avvisi di rito, su richiesta del P.G., e rilevato che il reato in oggetto si prescrive entro 90 giorni, il collegio, ai sensi dell’articolo 4 del Codice di autoregolamentazione, ha disposto procedersi alla discussione; la parte presente ha concluso come da epigrafe ed, all’esito, questa Corte Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.
L’imputato, con l’ausilio di un difensore iscritto nell’apposito albo speciale, ha proposto ricorso per cassazione contro tale provvedimento, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
1 – inosservanza od erronea applicazione delle norme in tema di competenza per territorio con manifesta illogicita’ della motivazione (premesso un generico rinvio all’atto di appello, contesta l’avvenuto radicamento della competenza per territorio ex articolo 9 c.p.p., comma 2, avendo immediatamente ammesso di aver ricevuto l’assegno in Palermo; nel dubbio, invoca il favor rei);
2 – plurimi profili di carenza e manifesta illogicita’ della motivazione quanto all’affermazione di responsabilita’ dell’imputato (la Corte di appello, pur essendo giunta sul punto alle medesime conclusioni del Tribunale, ha ritenuto inattendibile il teste (OMISSIS), e del tutto inutile affrontare la questione della sottoscrizione del titolo, attribuendo erroneamente al Tribunale accertamenti in realta’ asseritamente svolti dal consulente del P.M.; avrebbe, in definitiva, fondato il suo convincimento quanto alla consapevolezza della provenienza furtiva del titolo de quo soltanto sulla sua ricezione e sulla circostanza che l’imputato non aveva inizialmente rivelato il nome del soggetto che glielo aveva consegnato, e successivamente aveva solo all’udienza preliminare indicato il nome di una persona nelle more deceduta);
3 – inosservanza od erronea applicazione di legge, con mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione, quanto alle circostanze del reato, alla determinazione della pena ed ai benefici di legge (lamenta il diniego delle attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’articolo 648 c.p., comma 2, nonche’ l’omessa pronunzia sull’attenuante di cui all’articolo 62 c.p., n. 4, e sulla richiesta di sospensione condizionale della pena).
In data 17 febbraio 2014, ovvero il giorno prima dell’udienza, e’ pervenuto un fax con dichiarazione di adesione ad astensione dalle udienze civili e penali per il giorno 18 febbraio 2014.
All’odierna udienza pubblica, dopo il controllo della regolarita’ degli avvisi di rito, su richiesta del P.G., e rilevato che il reato in oggetto si prescrive entro 90 giorni, il collegio, ai sensi dell’articolo 4 del Codice di autoregolamentazione, ha disposto procedersi alla discussione; la parte presente ha concluso come da epigrafe ed, all’esito, questa Corte Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso e’ integralmente inammissibile.
PREMESSA.
1. Preliminarmente, nel ribadire le ragioni poste a fondamento dell’ordinanza verbalizzata, va affermato (Sez. 6 , sentenza n. 39248 del 12 luglio 2013, CED Cass. n. 256336) il seguente principio di diritto:
“Non e’ consentita l’astensione dalle udienze penali da parte del difensore in relazione ai procedimenti relativi a reati per i quali la prescrizione e’ destinata a maturare entro i termini previsti dal Codice di Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007, in quanto il rispetto dei presupposti fissati da questo atto, avente natura regolamentare, costituisce la precondizione per la sussistenza del diritto che si afferma voler esercitare. (Fattispecie relativa a richiesta di rinvio per dichiarata adesione ad astensione forense, presentata nel giudizio di cassazione con riferimento a reato il cui termine di prescrizione sarebbe giunto a compimento entro i successivi 90 giorni)”.
I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ SULLA MOTIVAZIONE.
2. E’ necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimita’ sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla Legge n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilita’, per il giudice della legittimita’, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella gia’ effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimita’ limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si e’ avvalso per giustificare il suo convincimento.
2.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali puo’, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. “travisamento della prova” (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessita’ che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisivita’ nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purche’ siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessita’ di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.
2.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), intenda far valere il vizio di “travisamento della prova” deve, a pena di inammissibilita’ (Cass. pen., Sez. 1, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, CED Cass. n. 234115; Sez. 6 , sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, CED Cass. n. 249035):
(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verita’ dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonche’ dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilita’” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
2.1.2. In proposito, puo’ ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimita’, il principio della c.d. “autosufficienza del ricorso”, inizialmente elaborato dalle Sezioni civili di questa Corte Suprema.
Valorizzando dapprima la formulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (a norma del quale le sentenze pronunziate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione: “(…) 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio”; la disposizione stabilisce attualmente, all’esito delle modifiche apportate dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, convertito in Legge n. 134 del 2012, che le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione “(…) 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tid le patti”), ed attualmente la formulazione (introdotta dal Decreto Legislativo n. 40 del 2006) dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a norma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilita’: “(…) 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”), si e’ osservato che il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio dell’autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur mancando l’esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere adeguata contezza, senza necessita’ di utilizzare atti diversi dal ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ. Sez. 2 , sentenza 2 dicembre 2005, n. 26234, CED Cass. n. 585217; Sez. lav., sentenza 17 agosto 2012, n. 14561, CED Cass. n. 623618).
Tenuto conto dei principi e delle finalita’ complessivamente sottesi al giudizio di legittimita’, questa Corte Suprema ha gia’ ritenuto che “la teoria dell’autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato gia’ dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale – in virtu’ del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato -deve ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso” (Sez. 1 , sentenza n. 16706 del 18 marzo – 22 aprile 2008, CED Cass. n. 240123; Sez. 1 , sentenza n. 6112 del 22 gennaio – 12 febbraio 2009, CED Cass. n. 243225; Sez. 5 , sentenza n. 11910 del 22 gennaio – 26 marzo 2010, CED Cass. n. 246552, per la quale e’ inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicita’ della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, cosi’ da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze; Sez. 6 , sentenza n. 29263 dell’8-26 luglio 2010, CED Cass. n. 248192, per la quale il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilita’ e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non puo’ limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto e’ alla stessa precluso; Sez. 2 , sentenza n. 25315 del 20 marzo – 27 giugno 2012, CED Cass. n. 253073, per la quale in tema di ricorso per cassazione, e’ onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate, indicare l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimita’ o anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione).
In proposito, va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di ricorso per cassazione, va recepita e applicata anche in sede penale la teoria della autosufficienza del ricorso, elaborata in sede civile; ne consegue che, quando i motivi riguardino specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante l’allegazione o la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la Corte Suprema alla lettura degli atti indicati, posto che anche in sede penale e’ precluso al giudice di legittimita’ l’esame diretto degli atti del processo”.
2.2. La mancanza, l’illogicita’ e la contraddittorieta’ della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimita’, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimita’ al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche’ siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validita’, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. un., sentenza n. 24 de 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un., sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un., sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).
Devono tuttora escludersi la possibilita’, per il giudice di legittimita’, di “un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonche’ i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi” (Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, CED Cass. n. 233621; Sez. 2 , sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789), e di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. 6 , sentenza n. 27429 del 4 luglio 2006, CED Cass. n. 234559; Sez. 6 , sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).
2.3. Il giudice di legittimita’ ha, pertanto, ai sensi del novellato articolo 606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 35964 del 28 settembre 2006, CED Cass. n. 234622; Sez. 3 , sentenza n. 39729 del 18 giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez. 5 , sentenza n. 39048 del 25 settembre 2007, CED Cass. n. 238215; Sez. 2 , sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra individuati);
(b) la decisivita’ del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una complessiva incongruita’ della motivazione);
(c) l’esistenza di una radicale incompatibilita’ con l’iter motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;
(d) la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d. “travisamento del fatto”, ma solo qualora la difformita’ della realta’ storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu oculi ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non e’ sindacabile in sede di legittimita’ se non manifestamente illogico e, quindi, anche contraddittorio).
2.4. Va, infine, evidenziato che non e’ denunciabile il vizio di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
2.4.1. Invero, come piu’ volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. 2 , sentenze n. 3706 del 21. – 27 gennaio 2009, CED Cass. n. 242634, e n. 19696 del 20 – 25 maggio 2010, CED Cass. n. 247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4 , sentenza n. 6243 del 7 marzo – 24 maggio 1988, CED Cass. n. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimita’ e’ solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacche’ ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non puo’ sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.
E, d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneita’ degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. 4 , sentenza n. 4173 del 22 febbraio – 13 aprile 1994, CED Cass. n. 197993).
Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto:
“nel giudizio di legittimita’ il vizio di motivazione non e’ denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta. D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere soltanto dall’errata soluzione delle suddette questioni, non dall’indicazione di ragioni errate a sostegno di una soluzione comunque giuridicamente corretta).
2.5. E’ anche inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’articolo 192 c.p.p., anche se in relazione all’articolo 125 c.p.p., e articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e), per censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti all’ammissibilita’ delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullita’ (Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 45249 dell’8 novembre 2012, CED Cass. n. 254274).
LA NECESSARIA SPECIFICITA’ DEL RICORSO PER CASSAZIONE.
3. La giurisprudenza di questa Corte Suprema e’, condivisibilmente, orientata nel senso dell’inammissibilita’, per difetto di specificita’, del ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa (Sez. 6 , sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037: nella fattispecie il ricorrente aveva lamentato la “mancanza e/o insufficienza e/o illogicita’ della motivazione” in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare personale; Sez. 6 , sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 – 12 gennaio 2012, Bidognetti ed altri, CED Cass. n. 251528).
Invero, l’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per “mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.
La disposizione, se letta in combinazione con l’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera e), (a norma del quale e’ onere del ricorrente “enunciare i motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”) evidenzia che non puo’ ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a una pluralita’ di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.
Il principio e’ stato piu’ recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della quale “E’ inammissibile, per difetto di specificita’, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a piu’ di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame” (Sez. 2 , sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, CED Cass. n. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione risulta priva della necessaria specificita’, il che rende il ricorso inammissibile.
3.1. Infine, secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. 4 , sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass, n, 221693; Sez. 6 , sentenza n, 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), e’ inammissibile per difetto di specificita’ il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al piu’ con l’aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtu’ delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
3.1.1. Si e’, infatti, esattamente osservato (Sez. 6 , sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che “La funzione tipica dell’impugnazione e’ quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilita’ (articoli 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione e’, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioe’ con specifica indicazione delle ragioni di diritte e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta).
3.1.2. Il motivo di ricorso in cassazione e’ caratterizzato da una “duplice specificita’”: “Deve essere si’ anch’esso conforme all’articolo 581 c.p.p., lettera C (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando attacca le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresi’, contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisivita’ rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, si’ da condurre a decisione differente” (Sez. 6 , sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
3.1.3. Risulta, pertanto, evidente che, “se il motivo di ricorso si limita a riprodurre il motivo d’appello, per cio’ solo si destina all’inammissibilita’, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale e’ previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente attaccato, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata, e’ di fatto del tutto ignorato. Ne’ tale forma di redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello) potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli nell’atto di impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice d’appello abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilita’. E cio’ per almeno due ragioni. E’ censura di merito. Ma soprattutto (il che vale anche per l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello) non e’ mediata dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa motivazione (e tanto piu’ nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza “grafica”, pretende la dimostrazione della sua mera “apparenza” rispetto ai temi tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto, e’ pure onerata dell’obbligo di argomentare la decisi vita del vizio, tale da imporre diversa conclusione del caso”.
3.1.4. Puo’, pertanto, concludersi che “la riproduzione, totale o parziale, del motivo d’appello ben puo’ essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo quando cio’ serva a documentare il vizio enunciato e dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei principi consolidati in materia di motivazione per relazione nei provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione” (Sez. 6 , sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA D’APPELLO.
4. Anche il giudice d’appello non e’ tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacche’ le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilita’ con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 1307 dei 26 settembre 2002 – 14 gennaio 2003, CED Cass. n. 223061).
4.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilita’, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilita’ della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli gia’ esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non e’ tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruita’ della motivazione, tanto piu’ ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicche’ le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entita’ (Cass. pen., Sez. 2 , sentenza n. 1309 del 22 novembre 1993 – 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. 3, sentenza n. 13926 del 1 dicembre 2011 – 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615).
L’AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA’ “OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO”.
5. Per que che concerne i significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, presente nel testo novellato dell’articolo 533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilita’ dell’imputato, e’ opportuno evidenziare che, al di la’ dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui e’ permeato il nostro sistema processuale.
Si e’, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva piu’ che sostanziale, giacche’, in precedenza, il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’articolo 530 c.p.p., comma 2, sicche’ non si e’ in presenza di un diverso e piu’ rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma e’ stato ribadito il principio, gia’ in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere gia’ stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema – per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’articolo 533 c.p.p.), secondo cui la condanna e’ possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilita’ dell’imputato (Cass. pen., Sez. 2 , sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. 2 , sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, CED Cass. n. 239795).
In argomento, si e’ piu’ recentemente, e conclusivamente, affermato (Sez. 2 , sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 – 13 febbraio 2013, CED Cass. n. 254025) che “La previsione normativa della regola di giudizio dell’al di la’ di ogni ragionevole dubbio, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e piu’ restrittivo criterio di vantazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilita’ dell’imputato”.
IL RICORSO.
6. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l’odierno ricorso.
6.1. Il primo motivo e’ generico e manifestamente infondato, concretizzandosi nella pedissequa reiterazione di una doglianza che la Corte di appello (f. 2), con argomentazioni corrette, aveva gia’ ritenuto non accoglibile.
6.2. Il secondo motivo e’ generico e manifestamente infondato.
6.2.1. Questa Corte Suprema ha gia’ osservato, con orientamento ormai consolidato, in difetto di voci difformi (per tutte, Sez. 2 , n. 29198 del 25 maggio 2010, Fontanella, rv. 248265) che ai fini della configurabilita’ del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo puo’ essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale e’ sicuramente rivelatrice della volonta’ di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.
Si e’ aggiunto (Sez. 2 , n. 45256 del 22 novembre 2007, Lapertosa, rv. 238515) che in tema di ricettazione, ricorre il dolo nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza.
Con specifico riferimento alla concreta fattispecie in esame, si e’ anche affermato (Sez. 2 , n. 22120 del 7 febbraio 2013, Mercuri, rv. 255929) che colui il quale riceva o acquisti un assegno bancario al di fuori delle regole che ne disciplinano la circolazione e’ necessariamente consapevole della sua provenienza illecita.
6.2.2. Nel caso di specie, la Corte di appello ha condivisibilmente valorizzato, ai fini dell’accertamento di responsabilita’ e della qualificazione giuridica del fatto accertato, il fatto che l’imputato, colto in accertata disponibilita’ dell’assegno de quo, di importo certo non trascurabile, tale da non lasciar ritenere che esso sia stato accettato e negoziato con disinteresse e superficialita’, non abbia mai congruamente chiarito le modalita’ attraverso le quali ne era venuto in possesso, avendo inizialmente taciuto il nome del soggetto che glielo aveva consegnato, e solo in udienza preliminare fatto il nome di soggetto nelle more deceduto.
La Corte di appello ha, in proposito, osservato che “la sicura riconducibilita’ del possesso dell’assegno rubato in capo al (OMISSIS) rende del tutto inutile affrontare la questione della sottoscrizione del titolo (…) non solo l’imputato non rendeva immediatamente dichiarazioni sulla persona che il titolo gli aveva consegnato, ma quando lo faceva, solo tardivamente, giunto alla udienza preliminare, indicava una persona deceduta, tale (OMISSIS), senza fornire alcun serio elemento sulla esistenza di rapporti di affari che potessero giustificare la consegna del titolo”.
Trattasi di motivazione fondata su argomentazioni esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esente da vizi rilevabili in questa sede.
6.3. Il terzo motivo e’ generico e manifestamente infondato.
6.3.1. Questa Corte Suprema ha in piu’ occasioni chiarito che, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice puo’ limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’articolo 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicche’ anche un solo elemento attinente alla personalita’ del colpevole o all’entita’ del reato ed alle modalita’ di esecuzione di esso puo’ essere sufficiente in tal senso (cosi’, da ultimo, Sez. 2 , sentenza n. 3609 del 18 gennaio – 1 febbraio 2011, CED Cass. n. 249163).
A questo orientamento si e’ correttamente conformata la Corte di appello valorizzando, ai fini del diniego, i “corposi e specifici” precedenti penali dell’imputato; peraltro neanche l’imputato ha indicato i necessari profili di meritevolezza in ipotesi trascurati, limitandosi a lamentare che i precedenti erano risalenti (ma cio’ non rendeva l’imputato meritevole del beneficio) nonche’ il modesto disvalore del fatto (in realta’ grave, tenuto conto dell’importo non irrisorio dell’assegno de quo, e che comunque evidenziava contiguita’ con ambienti di criminalita’ nei quali era di necessita’ maturato il reato presupposto).
6.3.2. Si e’ anche chiarito (Sez. 6 , sentenza n. 7554 del 2-25 febbraio 2011) che, in tema di ricettazione, ai fini della configurabilita’ dell’ipotesi attenuata, non rileva esclusivamente il valore della cosa ricettata, ma devono considerarsi anche tutti gli elementi previsti dall’articolo 133 c.p., ivi compresa la capacita’ a delinquere dell’imputato.
A questo orientamento si e’ correttamente conformata la Corte di appello valorizzando, ai fini del diniego, “le modalita’ con cui la vicenda si e’ snodata e la frode posta in essere ai danni del (OMISSIS)”.
6.3.3. Quanto alle ulteriori doglianze, il motivo e’ non consentito, o comunque generico.
Il motivo non e’ consentito, perche’ le violazioni di legge che ne costituiscono oggetto, in ipotesi verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, sono state dedotte per la prima volta in questa sede, in violazione di quanto stabilito dall’articolo 606 c.p.p., comma 3.
Invero, le relative doglianze non risultano formulate tra i motivi di appello, come si evince anche dal riepilogo degli stessi riportato nella sentenza impugnata (f. 1 s.), che l’odierno ricorrente, tenuto conto di quanto disposto dall’articolo 606 c.p.p., comma 3, ultima parte, ed in virtu’ dell’onere di specificita’ dei motivi di ricorso per cassazione, imposto dall’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera C), avrebbe avuto il dovere processuale di contestare specificamente nell’odierno ricorso, se ritenuto incompleto o comunque non corretto, poiche’ la tempestiva deduzione della violazione di legge come motivo di appello costituisce requisito che legittima la riproposizione della doglianza in cassazione e, pertanto, di cio’ il ricorso, con la dovuta specificita’, deve dar conto.
Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto: “Il ricorso proposto per violazioni di legge asseritamente verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, per soddisfare l’onere di specificita’ dei motivi imposto a pena di inammissibilita’ dall’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera C), deve contenere la specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello contenuto nella sentenza impugnata, nel caso in cui lo stesso non dia conto della deduzione della predetta violazione di legge come motivo di appello; il ricorso proposto per violazioni di legge verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, ma non dedotte con i motivi di appello, sarebbe, infatti, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 3, ultima parte, inammissibile”.
LE STATUIZIONI ACCESSORIE.
7. La declaratoria di inammissibilita’ totale del ricorso comporta, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ – apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso determinando la causa di inammissibilita’ per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) e tenuto conto della rilevante entita’ di detta colpa – della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
PREMESSA.
1. Preliminarmente, nel ribadire le ragioni poste a fondamento dell’ordinanza verbalizzata, va affermato (Sez. 6 , sentenza n. 39248 del 12 luglio 2013, CED Cass. n. 256336) il seguente principio di diritto:
“Non e’ consentita l’astensione dalle udienze penali da parte del difensore in relazione ai procedimenti relativi a reati per i quali la prescrizione e’ destinata a maturare entro i termini previsti dal Codice di Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007, in quanto il rispetto dei presupposti fissati da questo atto, avente natura regolamentare, costituisce la precondizione per la sussistenza del diritto che si afferma voler esercitare. (Fattispecie relativa a richiesta di rinvio per dichiarata adesione ad astensione forense, presentata nel giudizio di cassazione con riferimento a reato il cui termine di prescrizione sarebbe giunto a compimento entro i successivi 90 giorni)”.
I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ SULLA MOTIVAZIONE.
2. E’ necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimita’ sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla Legge n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilita’, per il giudice della legittimita’, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella gia’ effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimita’ limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si e’ avvalso per giustificare il suo convincimento.
2.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali puo’, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. “travisamento della prova” (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessita’ che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisivita’ nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purche’ siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessita’ di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.
2.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), intenda far valere il vizio di “travisamento della prova” deve, a pena di inammissibilita’ (Cass. pen., Sez. 1, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, CED Cass. n. 234115; Sez. 6 , sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, CED Cass. n. 249035):
(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verita’ dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonche’ dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilita’” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
2.1.2. In proposito, puo’ ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimita’, il principio della c.d. “autosufficienza del ricorso”, inizialmente elaborato dalle Sezioni civili di questa Corte Suprema.
Valorizzando dapprima la formulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (a norma del quale le sentenze pronunziate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione: “(…) 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio”; la disposizione stabilisce attualmente, all’esito delle modifiche apportate dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, convertito in Legge n. 134 del 2012, che le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione “(…) 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tid le patti”), ed attualmente la formulazione (introdotta dal Decreto Legislativo n. 40 del 2006) dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a norma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilita’: “(…) 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”), si e’ osservato che il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio dell’autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur mancando l’esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere adeguata contezza, senza necessita’ di utilizzare atti diversi dal ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ. Sez. 2 , sentenza 2 dicembre 2005, n. 26234, CED Cass. n. 585217; Sez. lav., sentenza 17 agosto 2012, n. 14561, CED Cass. n. 623618).
Tenuto conto dei principi e delle finalita’ complessivamente sottesi al giudizio di legittimita’, questa Corte Suprema ha gia’ ritenuto che “la teoria dell’autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato gia’ dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale – in virtu’ del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato -deve ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso” (Sez. 1 , sentenza n. 16706 del 18 marzo – 22 aprile 2008, CED Cass. n. 240123; Sez. 1 , sentenza n. 6112 del 22 gennaio – 12 febbraio 2009, CED Cass. n. 243225; Sez. 5 , sentenza n. 11910 del 22 gennaio – 26 marzo 2010, CED Cass. n. 246552, per la quale e’ inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicita’ della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, cosi’ da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze; Sez. 6 , sentenza n. 29263 dell’8-26 luglio 2010, CED Cass. n. 248192, per la quale il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilita’ e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non puo’ limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto e’ alla stessa precluso; Sez. 2 , sentenza n. 25315 del 20 marzo – 27 giugno 2012, CED Cass. n. 253073, per la quale in tema di ricorso per cassazione, e’ onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate, indicare l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimita’ o anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione).
In proposito, va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di ricorso per cassazione, va recepita e applicata anche in sede penale la teoria della autosufficienza del ricorso, elaborata in sede civile; ne consegue che, quando i motivi riguardino specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante l’allegazione o la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la Corte Suprema alla lettura degli atti indicati, posto che anche in sede penale e’ precluso al giudice di legittimita’ l’esame diretto degli atti del processo”.
2.2. La mancanza, l’illogicita’ e la contraddittorieta’ della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimita’, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimita’ al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche’ siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validita’, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. un., sentenza n. 24 de 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un., sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un., sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).
Devono tuttora escludersi la possibilita’, per il giudice di legittimita’, di “un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonche’ i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi” (Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, CED Cass. n. 233621; Sez. 2 , sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789), e di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. 6 , sentenza n. 27429 del 4 luglio 2006, CED Cass. n. 234559; Sez. 6 , sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).
2.3. Il giudice di legittimita’ ha, pertanto, ai sensi del novellato articolo 606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 35964 del 28 settembre 2006, CED Cass. n. 234622; Sez. 3 , sentenza n. 39729 del 18 giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez. 5 , sentenza n. 39048 del 25 settembre 2007, CED Cass. n. 238215; Sez. 2 , sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra individuati);
(b) la decisivita’ del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una complessiva incongruita’ della motivazione);
(c) l’esistenza di una radicale incompatibilita’ con l’iter motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;
(d) la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d. “travisamento del fatto”, ma solo qualora la difformita’ della realta’ storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu oculi ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non e’ sindacabile in sede di legittimita’ se non manifestamente illogico e, quindi, anche contraddittorio).
2.4. Va, infine, evidenziato che non e’ denunciabile il vizio di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
2.4.1. Invero, come piu’ volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. 2 , sentenze n. 3706 del 21. – 27 gennaio 2009, CED Cass. n. 242634, e n. 19696 del 20 – 25 maggio 2010, CED Cass. n. 247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4 , sentenza n. 6243 del 7 marzo – 24 maggio 1988, CED Cass. n. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimita’ e’ solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacche’ ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non puo’ sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.
E, d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneita’ degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. 4 , sentenza n. 4173 del 22 febbraio – 13 aprile 1994, CED Cass. n. 197993).
Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto:
“nel giudizio di legittimita’ il vizio di motivazione non e’ denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta. D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere soltanto dall’errata soluzione delle suddette questioni, non dall’indicazione di ragioni errate a sostegno di una soluzione comunque giuridicamente corretta).
2.5. E’ anche inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’articolo 192 c.p.p., anche se in relazione all’articolo 125 c.p.p., e articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e), per censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti all’ammissibilita’ delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullita’ (Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 45249 dell’8 novembre 2012, CED Cass. n. 254274).
LA NECESSARIA SPECIFICITA’ DEL RICORSO PER CASSAZIONE.
3. La giurisprudenza di questa Corte Suprema e’, condivisibilmente, orientata nel senso dell’inammissibilita’, per difetto di specificita’, del ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa (Sez. 6 , sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037: nella fattispecie il ricorrente aveva lamentato la “mancanza e/o insufficienza e/o illogicita’ della motivazione” in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare personale; Sez. 6 , sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 – 12 gennaio 2012, Bidognetti ed altri, CED Cass. n. 251528).
Invero, l’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per “mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.
La disposizione, se letta in combinazione con l’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera e), (a norma del quale e’ onere del ricorrente “enunciare i motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”) evidenzia che non puo’ ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a una pluralita’ di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.
Il principio e’ stato piu’ recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della quale “E’ inammissibile, per difetto di specificita’, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a piu’ di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame” (Sez. 2 , sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, CED Cass. n. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione risulta priva della necessaria specificita’, il che rende il ricorso inammissibile.
3.1. Infine, secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. 4 , sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass, n, 221693; Sez. 6 , sentenza n, 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), e’ inammissibile per difetto di specificita’ il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al piu’ con l’aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtu’ delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
3.1.1. Si e’, infatti, esattamente osservato (Sez. 6 , sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che “La funzione tipica dell’impugnazione e’ quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilita’ (articoli 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione e’, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioe’ con specifica indicazione delle ragioni di diritte e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta).
3.1.2. Il motivo di ricorso in cassazione e’ caratterizzato da una “duplice specificita’”: “Deve essere si’ anch’esso conforme all’articolo 581 c.p.p., lettera C (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando attacca le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresi’, contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisivita’ rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, si’ da condurre a decisione differente” (Sez. 6 , sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
3.1.3. Risulta, pertanto, evidente che, “se il motivo di ricorso si limita a riprodurre il motivo d’appello, per cio’ solo si destina all’inammissibilita’, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale e’ previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente attaccato, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata, e’ di fatto del tutto ignorato. Ne’ tale forma di redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello) potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli nell’atto di impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice d’appello abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilita’. E cio’ per almeno due ragioni. E’ censura di merito. Ma soprattutto (il che vale anche per l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello) non e’ mediata dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa motivazione (e tanto piu’ nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza “grafica”, pretende la dimostrazione della sua mera “apparenza” rispetto ai temi tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto, e’ pure onerata dell’obbligo di argomentare la decisi vita del vizio, tale da imporre diversa conclusione del caso”.
3.1.4. Puo’, pertanto, concludersi che “la riproduzione, totale o parziale, del motivo d’appello ben puo’ essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo quando cio’ serva a documentare il vizio enunciato e dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei principi consolidati in materia di motivazione per relazione nei provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione” (Sez. 6 , sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA D’APPELLO.
4. Anche il giudice d’appello non e’ tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacche’ le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilita’ con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., Sez. 6 , sentenza n. 1307 dei 26 settembre 2002 – 14 gennaio 2003, CED Cass. n. 223061).
4.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilita’, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilita’ della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli gia’ esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non e’ tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruita’ della motivazione, tanto piu’ ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicche’ le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entita’ (Cass. pen., Sez. 2 , sentenza n. 1309 del 22 novembre 1993 – 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. 3, sentenza n. 13926 del 1 dicembre 2011 – 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615).
L’AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA’ “OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO”.
5. Per que che concerne i significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, presente nel testo novellato dell’articolo 533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilita’ dell’imputato, e’ opportuno evidenziare che, al di la’ dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui e’ permeato il nostro sistema processuale.
Si e’, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva piu’ che sostanziale, giacche’, in precedenza, il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’articolo 530 c.p.p., comma 2, sicche’ non si e’ in presenza di un diverso e piu’ rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma e’ stato ribadito il principio, gia’ in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere gia’ stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema – per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’articolo 533 c.p.p.), secondo cui la condanna e’ possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilita’ dell’imputato (Cass. pen., Sez. 2 , sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. 2 , sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, CED Cass. n. 239795).
In argomento, si e’ piu’ recentemente, e conclusivamente, affermato (Sez. 2 , sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 – 13 febbraio 2013, CED Cass. n. 254025) che “La previsione normativa della regola di giudizio dell’al di la’ di ogni ragionevole dubbio, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e piu’ restrittivo criterio di vantazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilita’ dell’imputato”.
IL RICORSO.
6. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l’odierno ricorso.
6.1. Il primo motivo e’ generico e manifestamente infondato, concretizzandosi nella pedissequa reiterazione di una doglianza che la Corte di appello (f. 2), con argomentazioni corrette, aveva gia’ ritenuto non accoglibile.
6.2. Il secondo motivo e’ generico e manifestamente infondato.
6.2.1. Questa Corte Suprema ha gia’ osservato, con orientamento ormai consolidato, in difetto di voci difformi (per tutte, Sez. 2 , n. 29198 del 25 maggio 2010, Fontanella, rv. 248265) che ai fini della configurabilita’ del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo puo’ essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale e’ sicuramente rivelatrice della volonta’ di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.
Si e’ aggiunto (Sez. 2 , n. 45256 del 22 novembre 2007, Lapertosa, rv. 238515) che in tema di ricettazione, ricorre il dolo nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza.
Con specifico riferimento alla concreta fattispecie in esame, si e’ anche affermato (Sez. 2 , n. 22120 del 7 febbraio 2013, Mercuri, rv. 255929) che colui il quale riceva o acquisti un assegno bancario al di fuori delle regole che ne disciplinano la circolazione e’ necessariamente consapevole della sua provenienza illecita.
6.2.2. Nel caso di specie, la Corte di appello ha condivisibilmente valorizzato, ai fini dell’accertamento di responsabilita’ e della qualificazione giuridica del fatto accertato, il fatto che l’imputato, colto in accertata disponibilita’ dell’assegno de quo, di importo certo non trascurabile, tale da non lasciar ritenere che esso sia stato accettato e negoziato con disinteresse e superficialita’, non abbia mai congruamente chiarito le modalita’ attraverso le quali ne era venuto in possesso, avendo inizialmente taciuto il nome del soggetto che glielo aveva consegnato, e solo in udienza preliminare fatto il nome di soggetto nelle more deceduto.
La Corte di appello ha, in proposito, osservato che “la sicura riconducibilita’ del possesso dell’assegno rubato in capo al (OMISSIS) rende del tutto inutile affrontare la questione della sottoscrizione del titolo (…) non solo l’imputato non rendeva immediatamente dichiarazioni sulla persona che il titolo gli aveva consegnato, ma quando lo faceva, solo tardivamente, giunto alla udienza preliminare, indicava una persona deceduta, tale (OMISSIS), senza fornire alcun serio elemento sulla esistenza di rapporti di affari che potessero giustificare la consegna del titolo”.
Trattasi di motivazione fondata su argomentazioni esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esente da vizi rilevabili in questa sede.
6.3. Il terzo motivo e’ generico e manifestamente infondato.
6.3.1. Questa Corte Suprema ha in piu’ occasioni chiarito che, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice puo’ limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’articolo 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicche’ anche un solo elemento attinente alla personalita’ del colpevole o all’entita’ del reato ed alle modalita’ di esecuzione di esso puo’ essere sufficiente in tal senso (cosi’, da ultimo, Sez. 2 , sentenza n. 3609 del 18 gennaio – 1 febbraio 2011, CED Cass. n. 249163).
A questo orientamento si e’ correttamente conformata la Corte di appello valorizzando, ai fini del diniego, i “corposi e specifici” precedenti penali dell’imputato; peraltro neanche l’imputato ha indicato i necessari profili di meritevolezza in ipotesi trascurati, limitandosi a lamentare che i precedenti erano risalenti (ma cio’ non rendeva l’imputato meritevole del beneficio) nonche’ il modesto disvalore del fatto (in realta’ grave, tenuto conto dell’importo non irrisorio dell’assegno de quo, e che comunque evidenziava contiguita’ con ambienti di criminalita’ nei quali era di necessita’ maturato il reato presupposto).
6.3.2. Si e’ anche chiarito (Sez. 6 , sentenza n. 7554 del 2-25 febbraio 2011) che, in tema di ricettazione, ai fini della configurabilita’ dell’ipotesi attenuata, non rileva esclusivamente il valore della cosa ricettata, ma devono considerarsi anche tutti gli elementi previsti dall’articolo 133 c.p., ivi compresa la capacita’ a delinquere dell’imputato.
A questo orientamento si e’ correttamente conformata la Corte di appello valorizzando, ai fini del diniego, “le modalita’ con cui la vicenda si e’ snodata e la frode posta in essere ai danni del (OMISSIS)”.
6.3.3. Quanto alle ulteriori doglianze, il motivo e’ non consentito, o comunque generico.
Il motivo non e’ consentito, perche’ le violazioni di legge che ne costituiscono oggetto, in ipotesi verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, sono state dedotte per la prima volta in questa sede, in violazione di quanto stabilito dall’articolo 606 c.p.p., comma 3.
Invero, le relative doglianze non risultano formulate tra i motivi di appello, come si evince anche dal riepilogo degli stessi riportato nella sentenza impugnata (f. 1 s.), che l’odierno ricorrente, tenuto conto di quanto disposto dall’articolo 606 c.p.p., comma 3, ultima parte, ed in virtu’ dell’onere di specificita’ dei motivi di ricorso per cassazione, imposto dall’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera C), avrebbe avuto il dovere processuale di contestare specificamente nell’odierno ricorso, se ritenuto incompleto o comunque non corretto, poiche’ la tempestiva deduzione della violazione di legge come motivo di appello costituisce requisito che legittima la riproposizione della doglianza in cassazione e, pertanto, di cio’ il ricorso, con la dovuta specificita’, deve dar conto.
Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto: “Il ricorso proposto per violazioni di legge asseritamente verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, per soddisfare l’onere di specificita’ dei motivi imposto a pena di inammissibilita’ dall’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera C), deve contenere la specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello contenuto nella sentenza impugnata, nel caso in cui lo stesso non dia conto della deduzione della predetta violazione di legge come motivo di appello; il ricorso proposto per violazioni di legge verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, ma non dedotte con i motivi di appello, sarebbe, infatti, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 3, ultima parte, inammissibile”.
LE STATUIZIONI ACCESSORIE.
7. La declaratoria di inammissibilita’ totale del ricorso comporta, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ – apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso determinando la causa di inammissibilita’ per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) e tenuto conto della rilevante entita’ di detta colpa – della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille alla cassa delle ammende.
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