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La massima

Integra il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità anche la condotta che determini una temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della regolarità dell’ufficio o del servizio, coinvolgendone solamente un settore e non la totalità delle attività.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 14 gennaio 2013, n. 1630

Fatto

 

1. Con sentenza del 16/01/2009, il Tribunale di Venezia:

– assolveva D.M. per non aver commesso il fatto dal reato di violenza privata (capo sub F);

– assolveva C.L. , V.M. , CA.To. , G.G. , S.V. , F.G. , L.V.J.L. , B.B. , S.M. , M.D. , PA.Gi. , FA.Pa. , T.L. , K.E. , U.N. , BE.Gl. , TR.Fa. , FI.Ma. , P.F. , MO.An. , MI.Lo. , D.M. , FA.Ru. , m.a. , SP.La. , C.K. , m.m. , PI.Ca. per non aver commesso i fatti dai reati di danneggiamento (capo sub D) e furto (capo sub E);

– condannava tutti i predetti imputati per i reati di manifestazione non autorizzata (capo sub A), di occupazione di edifici pubblici (capo sub B) e di interruzione di pubblico servizio (capo sub C);

– condannava V.M. per il reato di violenza privata (capo sub F);

– condannava tutti gli imputati al pagamento in solido delle spese processuali;

– dichiarava le pene comminate estinte per l’effetto dell’indulto, ai sensi della L. 241 del 2006.

2. In data 22//02/2012, la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Venezia, assolveva tutti gli imputati, eccezion fatta per C.L. , per non aver commesso il fatto dal reato di manifestazione non autorizzata (capo sub A), e dichiarava, altresì, non doversi procedere nei confronti del C. in ordine alla medesima imputazione per essersi estinta per intervenuta prescrizione, riducendo le pene e confermando, nel resto, la sentenza impugnata.

3. C.L. , FA.Ru. , F.G. , FI.Ma. e c.k. , a mezzo dei propri difensori, hanno proposto ricorso per cassazione sia avverso l’ordinanza dichiarativa di contumacia emessa in data 22/02/2012 dalla Corte territoriale nei confronti di C.L. e c.k. , sia avverso la sentenza d’appello.

3.1. Con riguardo alla suddetta ordinanza, i ricorrenti C. e c. hanno dedotto l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in quanto il decreto di citazione a giudizio in grado di appello non sarebbe stato ritualmente notificato: infatti, poiché era risultato impossibile notificare tale atto introduttivo del giudizio nel domicilio eletto, la notifica era stata disposta presso il difensore, il quale, però, l’aveva rifiutata in quanto genericamente effettuata ai sensi dell’art. 161 cod. proc. pen. e, dunque, priva della specifica indicazione del quarto comma dello stesso articolo, giustificativa della notifica al difensore. Inoltre, il mancato perfezionamento della notifica senza materiale consegna dell’atto al difensore avrebbe imposto il deposito dell’atto nella Casa Comunale, con la procedura richiamata nel comma ottavo dell’art. 157 cod. proc. pen. Dall’illegittimità dell’ordinanza dichiarativa di contumacia deriverebbe, quindi, la nullità di tutti gli atti successivi e, quindi, anche della sentenza.

3.2. Relativamente alla sentenza, i ricorrenti C.L. , FA.Ru. , F.G. , FI.Ma. e c.k. deducono, poi, i seguenti motivi:

3.2.1. INOSSERVANZA ED ERRONEA APPLICAZIONE DELL’ART. 633 cod. pen.: sostengono i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe ritenuto sussistente il reato di cui al capo B, in quanto avrebbe erroneamente interpretato la nozione di “invasione”. Infatti, l’ingresso non era avvenuto in modo clandestino, violento o contrario alla volontà del legittimo possessore dell’immobile: ad essere punibile, è solo l’attività di invasione, ossia l’ingresso che avvenga in modo arbitrario, e non già la semplice permanenza nell’edificio altrui contro la volontà dell’avente diritto.

Inoltre, i ricorrenti lamentano la mancanza del dolo specifico richiesto dalla fattispecie incriminatrice, il quale non potrebbe ravvisarsi in qualunque tipo di “utilità” astrattamente ravvisabile nella condotta: pertanto, non potrebbe integrare il reato, l’iniziativa simbolica, pacifica e a fini dimostrativi posta in essere da alcuni cittadini durante l’orario d’ufficio e in una sola stanza di un ufficio pubblico, in attesa di poter avere un contraddicono con le autorità pubbliche.

3.2.2. INOSSERVANZA ED ERRONEA APPLICAZIONE DELL’ART. 340 cod. pen. per avere la Corte di Appello ritenuto sussistente il reato de quo in mancanza dell’interruzione, in tutto o in parte, del servizio pubblico offerto dall’Ufficio del Magistrato alle Acque: il personale, infatti, avrebbe lavorato fino a quando la polizia non aveva chiesto loro di interrompere l’attività.

4. CA.To. , V.M. , G.G. , S.V. , L.V.J.L. , B.B. , S.M. , M.D. , FA.Pa. , T.L. , K.E. ,.U.N. , BE.Gl. , TR.Fa. , P.F. , MO.An. , MI.Lo. , D.M. , m.a. , SP.La. , c.k. , m.m. , PI.Ca. , a mezzo del proprio difensore, hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:

4.1. contraddittorietà rispetto agli atti, manifesta illogicità della motivazione e violazione dell’art. 633 cod. pen. per avere la Corte di merito ritenuto sussistente la condotta di invasione benché si fosse verificata in luogo aperto al pubblico ed in orari d’ufficio.

Anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, i ricorrenti rilevano che, stante la necessità di un collegamento con il bene oggetto dell’invasione, la finalità della condotta non era né l’invasione né l’occupazione, essendo l’iniziativa meramente simbolica.

Infine, i ricorrenti stigmatizzano la mancanza di prova in ordine all’individuazione di coloro che avrebbero commesso il fatto e sarebbero poi rimasti all’interno della stanza del Presidente;

4.2. CONTRADDITTORIETÀ RISPETTO AGLI ATTI, MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE E VIOLAZIONE DELL’ART. 340 COD. PEN. per avere la Corte di Appello affermato la penale responsabilità degli imputati nonostante i due testi escussi avessero dichiarato che i dipendenti avevano continuato a lavorare. Inoltre, alla luce della giurisprudenza che ritiene necessario lo sviamento dell’operatività della struttura globalmente intesa, non sarebbe emerso dall’istruttoria il numero preciso delle persone che lavoravano nell’ufficio pubblico in questione e neppure sarebbe stata disposta la loro escussione;

4.3. CONTRADDITTORIETÀ RISPETTO AGLI ATTI, MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE E VIOLAZIONE DELL’ART. 610 COD. PEN. per avere la Corte territoriale individuato la condotta coercitiva posta in essere da V.M. ai danni della sig.ra Te. nell’averla costretta ad uscire dalla stanza del Presidente, travisando la deposizione testimoniale della stessa persona offesa: quest’ultima, infatti, aveva dichiarato che alcune persone presenti nella stanza del Presidente le avevano impedito di uscire, costringendola a restare e subire, e che solo l’aiuto di un altro dipendente comunale le aveva consentito di lasciare la stanza.

Inoltre, la difesa aggiunge che, secondo la ricostruzione in atti, la condotta non sarebbe stata di coercizione bensì di ingiurie proferite contro la persone offesa.

Infine, si rileva la mancanza di qualsivoglia riconoscimento, da parte della sig.ra Te. , del V. , al quale, peraltro, non sarebbe stata attribuita alcuna condotta specifica.

 

Diritto

 

1. INOSSERVANZA DI NORME PROCESSUALI STABILITE A PENA DI nullità: il motivo di ricorso volto a censurare l’irritualità nella notificazione del decreto di citazione a giudizio nei confronti degli imputati C. e c. è manifestamente infondato.

Gli stessi ricorrenti ammettono: a) che la notifica del suddetto decreto fu correttamente effettuata presso il difensore, essendo stato impossibile eseguirla nel domicilio eletto dagli imputati; b) che nella notifica era stato indicato l’art. 161 cod. proc. pen., ai sensi del quale essa veniva eseguita; c) che il difensore l’aveva rifiutata.

Dunque, i ricorrenti lamentano, in sostanza, la semplice mancanza nella notifica della chiara e precisa indicazione del quarto comma dell’art. 161 cod. proc. pen., il quale consente che, qualora la notificazione nel domicilio eletto divenga impossibile, questa possa essere eseguita mediante consegna al difensore: si sostiene, infatti, che il rifiuto della notifica sarebbe stato determinato dall’assenza di corretta e doverosa specificazione della norma di legge giustificativa della notificazione al difensore, e, pertanto, sarebbe stato legittimo.

Tuttavia, non risulta chiaro il motivo che indusse il difensore a rifiutare una notifica eseguita espressamente ai sensi dell’art. 161 cod. proc. pen., posto che, nell’ordinamento processuale, non si rinviene alcuna norma che imponga di specificare esattamente, a pena di nullità, il comma di un articolo in forza del quale viene eseguita una notifica.

Di conseguenza, stante il principio di tassatività ex art. 178 cod. proc. pen., la notifica deve ritenersi legittimamente eseguita nonostante il rifiuto opposto dal difensore con l’ulteriore conseguenza che il decreto di citazione a giudizio si presume che fosse legalmente conosciuto dagli imputati C. e c. : corretta deve, pertanto ritenersi l’ordinanza dichiarativa di contumacia.

2. CONTRADDITTORIETÀ RISPETTO AGLI ATTI, MANIFESTA ILLOGICITÀ della motivazione e violazione dell’art. 633 cod. pen.: il presente motivo, sostanzialmente comune ad entrambi i ricorsi, è infondato.

2.1. L’elemento materiale del reato di cui all’art. 633 cod. pen., è espressamente costituito dall’invasione del terreno o dell’edificio.

Secondo un’interpretazione letterale, il verbo “invadere” può avere molteplici significati, ossia “fare irruzione violenta o arbitraria”, “entrare o irrompere con impeto o con violenza”, “occupare violentemente” un territorio o un luogo.

Allo scopo di individuare con precisione il comportamento penalmente rilevante, va tuttavia osservato che “l’invasione” non può essere intesa né come “occupazione” – la quale può costituire solo una delle finalità specifiche della condotta dell’agente – né comprende alcuna modalità violenta in quanto la medesima, pur potendo in concreto essere esercitata, non è però necessaria per la realizzazione dell’elemento oggettivo: quello che, infatti, la norma richiede è solo che l’invasione sia arbitraria per tale dovendosi intendere la condotta posta in essere senza averne diritto o titolo, senza il consenso dell’avente diritto, oppure senza che sia legittimata da una norma giuridica o da un’autorizzazione dell’autorità competente.

Pertanto, alla stregua di un’interpretazione letterale e sistematica della norma in esame, si deve dar seguito a quella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “l’elemento materiale del reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 cod. pen., non è l’occupazione ma l’invasione del terreno o dell’edificio, cioè l’introduzione arbitraria nel fondo altrui […] L’arbitrarietà della condotta è ravvisabile in tutti i casi in cui l’ingresso nell’immobile o nel fondo altrui avvenga senza il consenso dell’avente diritto al possesso od alla detenzione ovvero, in mancanza di questo, senza la legittimazione conferita da una norma giuridica o da un’autorizzazione dell’autorità” (Cass. 8107/2000, rv. 216525): infatti, “la nozione di invasione non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce arbitrariamente e cioè, contra ius in quanto privo del diritto d’accesso. La conseguente occupazione deve ritenersi pertanto l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva occupazione”: Cass. 49169/2003, rv. 227692; Cass. 15610/2006, rv. 233970.

Non può essere considerato un precedente contrario la sentenza di questa Corte n. 1044/2000 riv 215704 – invocato dai ricorrenti – secondo il quale “il concetto di invasione va ricondotto ad una qualunque introduzione dall’esterno con modalità violente”, perché, in realtà, dalla lettura della parte motiva si evince che la Corte si pronunciò prescindendo da tale problematica, in quanto la questione sottoposta alla sua attenzione poteva essere risolta anche condividendo “l’indirizzo giurisprudenziale di un accesso arbitrario nel terreno o edificio altrui, in un’accezione generica non comprensiva di modi ostili”.

Va, poi, osservato che, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, i giudici di merito non hanno punito la semplice permanenza nell’edificio altrui contro la volontà dell’avente diritto, bensì proprio l’attività di invasione, intesa come ingresso che avvenga in modo arbitrario, secondo la corretta interpretazione innanzi illustrata.

Peraltro, sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno considerato oggetto dell’invasione l’ufficio personale del Presidente della Magistratura delle acque, e non già, come affermato negli atti di ricorso, Palazzo dei Savi, sede della Magistratura (cfr. pagg. 7 e 15 della sentenza impugnata).

L’arbitrarietà dell’introduzione è stata poi esplicitamente identificata nella circostanza che detto ufficio non fosse “aperto al pubblico, ma in uso esclusivo della sua presidente la quale non aveva consentito ad alcuno l’ingresso”: è stato aggiunto, inoltre, che la condotta avvenne “senza alcuna autorizzazione e contro la volontà manifestata dagli impiegati presenti (in particolare Te.Pa. )”.

In conclusione, deve affermarsi che la Corte territoriale ha correttamente interpretato l’elemento materiale dell’art. 633 cod. pen. sicché la motivazione appare congrua e coerente con le risultanze probatorie.

2.2. L’elemento soggettivo del reato in esame, è costituito dal dolo specifico, il quale espressamente “si compone, oltre che della consapevolezza dell’illegittimità dell’invasione dell’altrui bene, della finalità di occupazione o di trame altrimenti profitto”: Cass. 44902/2008, rv. 241968.

Dunque, il fine preso di mira dagli agenti può essere, alternativamente, l’occupazione dell’altrui immobile, con o senza intenzioni ostili, oppure il conseguimento di un altro profitto: quest’ultimo, in particolare, come ha già statuito questa Corte, “ben può comprendere lo scopo dimostrativo tendente a richiamare l’attenzione dell’autorità sulla mancanza di alloggi da parte di persone meno abbienti” (Cass. 11945/1977, rv. 136873), oppure “l’aspirazione ad una utilità non patrimoniale” (Cass. 9384/1989, rv. 181751). Pertanto, “non richiede per la sua sussistenza che il profitto propostosi dall’agente sia strettamente patrimoniale e direttamente realizzabile con l’invasione e può consistere anche nell’intento di un uso strumentale della stessa al conseguimento di scopi di particolare valore morale e sociale”: Cass. 8107/2000 rv. 216525.

Il Tribunale, ha ritenuto sussistente la finalità di occupazione sulla base di numerosi elementi – quali l’utilizzo dei beni e delle dotazioni dell’ufficio, l’apposizione di uno striscione e l’aver portato in loco un apparecchio per alimentare il megafono – ed ha precisato che, comunque, sarebbe stato sufficiente il fine di ricavarne una generica utilità, consistente, come nel caso di specie, in uno scopo dimostrativo.

Alle stesse conclusioni è giunta la Corte territoriale, valorizzando l’utilizzo illecito dei beni pubblici presenti sul luogo (fax, fotocopiatore, telefono), il danneggiamento degli stessi, l’essersi gli imputati barricati all’interno della stanza escludendo nel contempo dall’accesso alle stanze altri soggetti. In particolare, l’evidente animus excludendi alios trova conferma nell’estromissione dell’impiegata Te. , avvenuta con modi violenti, e nella circostanza che l’Isp. R. , per comunicare l’intenzione di praticare lo sgombero, ha dovuto bussare alla porta della stanza attendendo riscontro.

Infine, anche il giudice d’appello, nonostante abbia sostenuto l’esistenza del fine di occupazione, ha rilevato pure l’esistenza dello scopo alternativo di conseguire un generico profitto, consistente nell’”accresciuta e ricercata visibilità della manifestazione nei confronti della cittadinanza e dei turisti, discendente dalla posizione strategica dell’ufficio, prospiciente il ponte di (OMISSIS) ” (cfr. pagg. 7 e 15-16 della sentenza impugnata). Anche sotto il presente aspetto, la motivazione resiste a qualsiasi censura, essendo logica, adeguata e rispettosa dei principi ripetutamente sanciti dalla giurisprudenza di legittimità.

Per completezza, va osservato che il precedente giurisprudenziale ricordato dai ricorrenti, secondo il quale questa Corte di legittimità sarebbe giunta ad affermare che “non integra il reato l’occupazione di un istituto scolastico per fini dimostrativi” persino al di fuori dell’orario scolastico (Cass. 1044/2000 cit.), riguarda l’elemento oggettivo del reato e non enuncia alcun principio in contrasto con quello consolidato che ricomprende nel dolo specifico dell’art. 633 cod. pen. anche lo scopo dimostrativo. La massima, infatti, non si arresta al dictum riportato dalla difesa, ma aggiunge che l’occupazione, per non essere considerata un reato, dev’essere “posta in essere dagli studenti che lo frequentano, nei cui confronti, in quanto soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi della sua gestione ai sensi del d.p.r. 31 maggio 1974 n. 416, non si configura un diritto d’accesso all’istituto limitato alle sole ore in cui è prevista l’attività didattica in senso stretto né può dirsi sussistente l’elemento normativo della fattispecie incriminatrice consistente nell’altruità dell’immobile”.

Infine, si deve disattendere la censura riguardante la pretesa mancanza di prova in ordine all’individuazione di coloro che invasero l’ufficio del Presidente della Magistratura e che rimasero all’interno della stanza stessa: la Corte di Appello, infatti, con motivazione completa ed esauriente, ha affermato che la penale responsabilità di tutti gli imputati si giustifica in ragione della loro individuazione al momento dell’uscita, mentre quella del Tr. in ragione della diretta osservazione, da parte della P.G., del suo allontanamento mezz’ora prima dello sgombero, allontanamento, tuttavia, che era seguito ad una permanenza del suddetto imputato nell’edificio per un tempo penalmente apprezzabile.

3. CONTRADDITTORIETÀ RISPETTO AGLI ATTI, MANIFESTA ILLOGICITÀ della motivazione e violazione dell’art. 340 cod. pen.: le ragioni di censura dedotte, sul punto, in entrambi i ricorsi sono infondate.

Occorre preliminarmente ricordare che il reato previsto dall’art. 340 cod. pen. si configura alternativamente nella condotta di chi cagiona un’interruzione o di chi turba la regolarità di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità: “ciò comporta che le due ipotesi alternative nelle quali la fattispecie astratta si prospetta devono ritenersi equivalenti e quindi reciprocamente interpretabili nel senso che l’interruzione deve essere tale da turbare la regolarità dell’ufficio o servizio e la turbativa si realizza anche con un’interruzione, purché di entità e durata tale da determinarla”: Cass. 33062/2003, rv. 226662.

Tuttavia, nella giurisprudenza di legittimità si riscontrano due differenti orientamenti.

Secondo un primo indirizzo, al quale i ricorrenti mostrano di aderire, “il concetto di turbamento della regolarità di un ufficio o servizio pubblico […] si riferisce ad una alterazione, ancorché temporanea, del funzionamento dell’ufficio o servizio pubblico nel suo complesso e non già al turbamento dell’Esercizio di una singola funzione o di una singola prestazione” (Cass. 5472/1982, rv. 154030; Cass. 6257/2003, rv. 223740): tale turbamento non deve, cioè, consistere nell’”alterazione di una singola funzione o prestazione rapportata ad un determinato momento, che, in quanto tale, non ha alcuna incidenza negativa di apprezzabile valenza, sulla concreta operatività globale dell’ufficio o del servizio e per gli effetti minimali che produce rientra nella fisiologica prevedibilità, tanto da essere agevolmente controllabile con i normali meccanismi di difesa preordinati ad assicurare il costante funzionamento del servizio”. Cass. 35399/2006, rv. 235196.

Per un opposto e prevalente orientamento, invece, “integra il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità anche la condotta che determini una temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della regolarità dell’ufficio o del servizio, coinvolgendone solamente un settore e non la totalità delle attività” (Cass. 36253/2011, rv. 250810, rv. 250810; Cass. 27919/2009, rv. 244337; Cass. 334/2008, rv. 242370; Cass. 35071/2007, rv. 238025; Cass. 47299/2003, rv. 226929; Cass. 6654/1997, rv. 209729).

Questa Corte ritiene di dare continuità a quest’ultimo indirizzo.

Infatti, già sul piano testuale, si rileva che, ad essere punibili, sono sia l’interruzione che il turbamento, e quest’ultimo deve intendersi riferito alla regolarità dell’ufficio o del servizio, per la cui alterazione basta realizzare anche solo una discontinuità parziale di singole attività: la predetta fattispecie incriminatrice tutela, infatti, non solo l’effettivo funzionamento di un ufficio, ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità, ma anche il suo ordinato e regolare svolgimento.

Sul piano sistematico, poi, la norma è diretta a tutelare il valore costituzionale del buon andamento della amministrazione, sicché l’accoglimento della interpretazione riduttiva implicherebbe che tale valore ottiene dal legislatore solo parziale protezione e non una garanzia di capillare osservanza.

La Corte di Appello, peraltro, in punto di fatto, ha ritenuto sussistenti tanto l’interruzione quanto la turbativa, di per sé sufficiente ad integrare il reato ex art. 340 cod. pen. (cfr. pag. 17 della sentenza impugnata).

L’interruzione dell’attività lavorativa dell’ufficio della Magistratura delle acque si verificò quantomeno a partire dal momento in cui gli impiegati presenti – su richiesta della Polizia – dovettero sgomberare l’edificio prima del normale orario di chiusura degli uffici. La suddetta interruzione fu univocamente causata dal comportamento degli occupanti, che aveva reso necessario l’intervento della forza pubblica, non avendo voluto desistere autonomamente dall’occupazione nonostante fossero già trascorse almeno due ore e mezza.

È stato poi riscontrato anche un turbamento del pubblico servizio ed una concreta compromissione del regolare funzionamento degli uffici e dell’ordinario espletamento della prestazione lavorativa degli impiegati presenti, a causa dell’invasione da parte di una trentina di persone munite di megafono, che occuparono una pluralità di locali e si asserragliarono nell’ufficio presidenziale facendo uso dei beni pubblici ivi esistenti.

Il Tribunale, inoltre, ha evidenziato come la teste Te.Pa. affermò che, per tutta la durata dell’occupazione, tutti i suoi colleghi erano rimasti barricati nel proprio ufficio, mentre di solito vi era una continuo passaggio di persone da un ufficio all’altro. Anche la teste D.M. ha precisato la medesima circostanza, aggiungendo che sebbene avesse cercato comunque di svolgere il proprio lavoro era stata infastidita dal rumore e dal frequente passaggio delle persone nell’edificio.

Infine, ad ulteriore conferma delle conclusioni alle quali è giunta la Corte territoriale, basti ricordare che, in un caso simile a quello in esame, questa Corte di legittimità ha già affermato che “è configurabile il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico (art. 340 cod. pen.) nell’ipotesi in cui il soggetto attivo irrompa negli uffici del Ministero della Funzione pubblica con altri soggetti, facenti parte di una rappresentanza di lavoratori, rimanendovi per circa sei ore, costringendo il Ministro a spostarsi in un’altra stanza, gli agenti della Questura ad intervenire e determinando, pertanto, un rilevante turbamento dell’ordinaria attività dell’ufficio pubblico”: Cass. 15636/2005, rv. 232127).

In conclusione, le doglianza difensive, volte sostanzialmente a sostenere il perdurante espletamento dell’attività lavorativa da parte del personale dell’ufficio, devono essere respinte: la motivazione, infatti, regge al presente vaglio di legittimità, essendo congrua, logica e coerente rispetto agli evidenziati riscontri probatori.

4. CONTRADDITTORIETA RISPETTO AGLI ATTI, MANIFESTA ILLOGICITÀ della motivazione e violazione dell’art. 610 cod. pen.: la doglianza è infondata.

Nella motivazione non si ravvisa alcun travisamento della deposizione della sig.ra Te. : questa ha dichiarato di essere stata invitata ad andarsene ma che, essendo accerchiata dai presenti, non le era stato possibile uscire dalla stanza fino all’intervento del motoscafista che l’aveva aiutata ad uscire. In modo del tutto coerente con detta risultanza probatoria, sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno identificato la condotta coercitiva subita dalla Te. nell’averla costretta ad uscire dalla stanza del presidente a seguito di offese, minacce, spintoni e lancio di oggetti, e non già, come erroneamente ha sostenuto la difesa, nell’averle impedito di uscire, costringendola a restare e subire (cfr. pagg. 8 e 18 della sentenza impugnata).

Peraltro, il fatto che dalla ricostruzione in atti possa emergere che furono poste in essere condotte integranti il reato di ingiuria, non toglie che, in concreto, possa essere contestata la sola violenza privata, se non altro perché di essa è stato possibile identificarne con certezza l’autore. Infatti, la Corte veneziana ha precisato che l’attribuzione al V. del reato di cui all’art. 610 cod. pen. avvenne, da parte della P.G., sulla base della documentazione fotografica in atti, sicché non vi fu necessità di un riconoscimento ad opera della sig.ra Te. : non è ravvisarle, conseguentemente, alcuna erronea applicazione del precetto penale o vizio di motivazione da parte della Corte di Appello.

5. In conclusione, entrambe le impugnazioni devono rigettarsi con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

RIGETTA i ricorsi e CONDANNA i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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