Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 12 novembre 2014, n. 24111
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 5 marzo 2008 dinnanzi al giudice di pace di Lucca, N.L. proponeva opposizione avverso l’ordinanza n. 5001/2009 emessa dal prefetto di Lucca, con la quale era stata disposta la sospensione della patente di guida per il periodo di tre mesi a seguito della violazione dell’art. 186 comma 2 C.d.S., ovvero per guida in stato di ebbrezza alcolica, accertata a mezzo di test etilometrico.
A sostegno della propria opposizione il ricorrente deduceva: che il modesto tasso alcolico rilevato non era imputabile all’abuso di bevande alcoliche, bensì all’utilizzo di farmaci a base di etanolo e alcol come cura per una faringite acuta che lo affliggeva; che l’apparecchio utilizzato per l’accertamento non evidenziava la data dell’ultima taratura, tanto da far considerare incerta anche la corretta funzionalità dello stesso; che gli agenti verbalizzanti non avevano evidenziato alcun segno esteriore associato allo stato di ebbrezza, ovvero alcuna situazione di pericolo da lui creata; che egli si era inoltre sottoposto a tutte le ulteriori analisi possibili e i risultati erano stati negativi.
La Prefettura di Lucca si costituiva chiedendo la reiezione dell’opposizione.
Il Giudice di Pace di Lucca, con sentenza n. 1147 del 2008, respingeva il ricorso osservando, tra l’altro, che, costituendo reato la violazione dell’art. 186 C.d.S., il giudizio di opposizione instaurato aveva unicamente ad oggetto l’accertamento della esistenza dei requisiti formali e sostanziali richiesti dalla legge per l’adozione del provvedimento contestato, essendo il fatto costituente reato devoluto esclusivamente alla cognizione del giudice penale; osservava inoltre che dall’esame degli atti era emersa l’esistenza degli elementi formali richiesti dalla legge per l’irrogazione della sospensione.
Avverso tale pronuncia proponeva appello il N. , sostenendo che la sopravvenuta abrogazione della norma sanzionatoria, a seguito dell’entrata in vigore della legge 29 luglio 2010, n. 120, non consentiva la conferma del provvedimento amministrativo.
Si costituiva la Prefettura di Lucca chiedendo il rigetto del gravame.
Con sentenza n. 977/2012, emessa ai sensi ex art. 281-sexies cod. proc. civ. il 18 settembre 2012, il Tribunale di Lucca respingeva l’appello, ritenendo che gli elementi acquisiti in atti consentissero il riscontro di fondati elementi di responsabilità, e che l’abolitio criminis nel caso di specie non rilevava, trovando applicazione l’art. 1, comma 2, della legge n.689 del 1981.
Avverso tale sentenza N.L. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
L’Ufficio Territoriale del Governo di Lucca ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione (art. 360, nn. 3, 4, 5, cod. proc. civ.) degli artt. 99, 112, 115, 116, 346 cod. proc. civ., e degli artt. 2907 e 2967 cod. civ., in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost. e agli artt. 47 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dolendosi della violazione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo e dell’omessa e contraddittoria motivazione sui punti decisivi della controversia. Contesta poi nel dettaglio la valutazione e il valore attribuito dal giudice di merito alle singole prove acquisite.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione (art. 360, nn. 3, 4, 5, cod. proc. civ.) dell’art. 186, lett. a), del codice della strada, come modificato dalla legge n. 120 del 2010, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., nonché la violazione del principio di legalità-irretroattività per gli illeciti penali ex art. 2 cod. pen., operante per gli illeciti amministrativi ex art. 1 della legge n. 689 del 1981, tenendo conto del fatto che tale principio non è stato espressamente derogato dal legislatore.
Il ricorso, i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, è infondato.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso che “in materia di illeciti amministrativi, l’adozione dei principi di legalità, di irretroattività e di divieto di applicazione dell’analogia, risultante dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, comporta l’assoggettamento del comportamento considerato alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali ab origine, senza che rilevi in contrario la circostanza che la più favorevole disciplina posteriore alla data della commissione del fatto sia entrata in vigore anteriormente all’emanazione dell’ordinanza – ingiunzione per il pagamento della sanzione pecuniaria e senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2, commi secondo e terzo, cod. pen.” (Cass. n. 4007 del 2000; Cass. n. 1105 del 2012; ma vedi già Cass. n. 9091 del 1998). Principio, questo, ribadito anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, che, nella sentenza n. 14374 del 2012, hanno affermato che “l’avvenuta abrogazione di divieti già tipizzati nel codice deontologico, non può elidere l’antigiuridicità delle condotte pregresse, secondo la regola penalistica della retroattività degli effetti derivanti dalla abolitio criminis ai procedimenti in corso, poiché l’illecito deontologico è riconducibile al genus degli illeciti amministrativi, per i quali – in difetto della eadem ratio – non trova applicazione, in via analogica, il principio del favor rei sancito dall’art. 2 cod. pen., bensì quello del tempus regit actum”.
Il principio della retroattività della norma più favorevole in materia di illeciti amministrativi, quindi, non può essere condiviso, dovendo trovare applicazione invece il diverso principio dell’ultrattività espressamente recepito dall’art. 1, comma primo, della legge 24 novembre 1981 n.689. Trattasi del resto di un orientamento consolidato ormai da lungo tempo (per tutte Sez. Un. 890 del 1994) e basato sui principi di legalità, di irretroattività e di divieto di applicazione dell’analogia risultante dal richiamato art. 1, il quale richiede l’assoggettamento del comportamento alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore, anche laddove la stessa sia più favorevole.
In particolare poi, per quanto riguarda il divieto di applicazione analogica dell’art. 2, commi secondo e terzo, cod. pen., è stata sottolineata la differenza qualitativa della materia degli illeciti amministrativi rispetto a quella penale, differenza che giustifica il diverso trattamento sul punto da parte del legislatore (Cass. n. 6232 del 1999).
Tale assunto potrebbe essere contraddetto esclusivamente da una norma transitoria recante un’espressa disposizione derogatoria, che tuttavia, nel caso di specie, manca.
Essendo infatti l’abolitio criminis intervenuta nelle more del giudizio, la nuova normativa non poteva che avere applicazione dalla data della sua entrata in vigore, e nel caso di specie a partire dal 2010. Dunque, poiché il verbale di cui si discute è stato emesso l’8 febbraio 2008, trovano piena applicazione i principi generali come sopra espressi.
Peraltro, non può non rilevarsi che i principi richiamati tanto più devono trovare applicazione in un caso, come quello di specie, in cui oggetto di impugnazione sia un provvedimento adottato ai sensi dell’art. 223 del codice della strada. Invero, il ritiro della patente in ipotesi di reato ha carattere preventivo e natura cautelare, e trova giustificazione nella necessità di impedire che, nell’immediato, prima ancora che sia accertata la responsabilità penale, il conducente del veicolo, nei cui confronti sussistano fondati elementi di un’evidente responsabilità in ordine ad eventi lesivi dell’incolumità altrui, continui a tenere una condotta che può arrecare pericolo ad altri soggetti. Proprio in considerazione di tale funzione cautelare, si è precisato che esso deve essere adottato entro un tempo ragionevole dall’accertamento della violazione, non potendo altrimenti assolvere alla finalità cautelare che gli è propria (Cass. n. 7731 del 2009; Cass., S.U., n. 13226 del 2007). Conseguentemente, il riscontro della legittimità dell’adozione di tale provvedimento non può essere effettuato altro che con riferimento alla situazione normativa vigente al momento del fatto, ininfluenti essendo eventuali successive modificazioni normative, anche se più favorevoli al destinatario del provvedimento stesso.
Nella specie, il riscontro di legittimità del provvedimento prefettizio è stato quindi correttamente effettuato dal giudice di appello in base alla normativa vigente al momento della commissione del fatto.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso, notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, è rigettato, e poiché risulta dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è assoggettato al pagamento del contributo unificato, deve dichiararsi la sussistenza delle condizioni di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 500,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente N.L. , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bus dello stesso art. 13.
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