Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 12 maggio 2014, n. 10272
Svolgimento del processo
La Vermat s.a.s. proponeva opposizione al decreto emesso dal presidente del Tribunale di Brescia su ricorso dell’arch. A.V. , col quale le era stato ingiunto il pagamento della somma di lire 42.185.931 quale corrispettivo di prestazioni professionali relative alla progettazione, assistenza amministrativa e direzione dei lavori di costruzione di un complesso immobiliare in (OMISSIS) . A sostegno dell’opposizione deduceva la carenza della propria legittimazione passiva, essendo stato conferito l’incarico professionale da S.O. , suo socio accomandatario, non in tale qualità ma a titolo personale. Proponeva, inoltre, domanda riconvenzionale per danni e controcrediti.
Resistendo l’opposto, il Tribunale rideterminava il credito di quest’ultimo in lire 35.635.551 e rigettava la domanda riconvenzionale.
Tale decisione era riformata dalla Corte d’appello di Brescia che, adita dalla Vermat s.a.s., con sentenza n. 268/07 rigettava la domanda dell’arch. A. , dichiarava inammissibile la riconvenzionale e compensava integralmente le spese del doppio grado di giudizio.
La Corte territoriale premetteva che il contratto d’opera non necessariamente deve intercorrere fra “il committente (proprietario del terreno) ed il professionista, ben potendo essere stipulato fra un terzo (che, quindi, si accolla l’onere del pagamento della prestazione professionale) ed il professionista, verificandosi, quindi, una classica ipotesi di contratto a favore di terzo”. Quindi, rilevava che il contratto dedotto in giudizio era stato stipulato per iscritto il 12.11.1992 tra A.E. , fratello dell’appellato, e S.O. , da una parte, e lo studio CPPTU di A.V. e P. , dall’altra; che tutta la corrispondenza era intercorsa fra A.V. e S.O. e mai tra il primo e la Vermat; che inoltre se il contratto avesse impegnato detta società non avrebbe trovato spiegazione la presenza, tra i committenti, di A.E. , che non rivestiva qualità di rappresentante legale; che tale conclusione era confermata dal fatto che nel richiedere il pagamento della parcella A.V. si fosse rivolto allo S. come persona fisica, e mai alla Vermat, e dalla deposizione del teste R. , che aveva riferito di aver appreso dallo stesso S. dell’incarico al predetto professionista.
Per la cassazione di tale sentenza A.V. propone ricorso affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la Vermat s.r.l., già s.a.s., che propone ricorso incidentale condizionato basato su di un solo motivo.
Motivi della decisione
1. – Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., perché proposti avverso la medesima sentenza.
1-bis – Il primo motivo di ricorso, corredato da quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c. (applicabile ratione temporis alla fattispecie) denuncia la violazione degli artt. 99, 112, 346 e 329 c.p.c..
Sostiene parte ricorrente che la soc. appellante, sebbene avesse insistito nell’atto di citazione in appello sul difetto della propria legittimazione passiva, ha poi modificato le sue conclusioni rispetto al giudizio di primo grado chiedendo che fosse accertato il suo asserito credito verso l’arch. A.V. . Pertanto, conclude, non avendo l’appellante formulato alcuna specifica conclusione in ordine al capo della sentenza di primo grado che aveva respinto l’eccezione di carenza di legittimazione passiva, la Corte d’appello avrebbe dovuto limitare la propria indagine alla sola domanda riconvenzionale della società.
1-bis.1. – Il motivo è manifestamente infondato, perché si basa sulla scorretta riproduzione del fatto processuale invocato.
Occorre rimarcare che il ricorrente ha riportato in maniera monca le conclusioni trascritte nell’epigrafe della sentenza d’appello, sopprimendo proprio un fondamentale “anche” (v. pag. 7 ricorso) che invece compare in quelle trascritte nell’epigrafe della sentenza impugnata, dove le conclusioni della società appellante sono così riprodotte: “dichiararsi che, anche in forza del credito vantato dalla Vermat, all’A. nulla è dovuto; in via riconvenzionale…” ecc.. Il che dimostra come pure sotto il profilo meramente verbale l’espressione adoperata non lasci spazio alla tesi che l’appellante abbia rinunciato a far valere il primo motivo di gravame, inerente alla questione della titolarità del rapporto nel lato passivo (erroneamente qualificata come eccezione di carenza di legittimazione passiva). E poiché le suddette conclusioni corrispondono a quelle dell’atto di citazione in appello (cui questa Corte ha accesso trattandosi del riscontro d’un fatto processuale), deve concludersi che non vi sia stato alcun mutamento fra le une e le altre, e che del tutto correttamente, pertanto, la Corte bresciana si sia pronunciata sul punto.
1-bis.2. – Oltre che infondata in fatto, la tesi sostenuta nel motivo in esame è anche oggettivamente insensata.
Giova premettere che l’interpretazione degli atti processuali compete a questa Corte quando sia censurata la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. (cfr. Cass. S.U. n. 8077/12). Ciò posto, non è dato comprendere come possa seriamente sostenersi (senza manifestare nel contempo un’aspettativa – tanto ingiustificata quanto irriguardosa – sulle scarse capacità critiche di questa Corte Suprema) che la parte l’appellante, dopo aver dedicato buona parte del proprio atto d’impugnazione a contestare la sentenza di prime cure sulla questione inerente alla titolarità passiva del rapporto sostanziale, nel chiudere la redazione del medesimo atto difensivo possa senza alcuna ragione aver “rinunciato” a quanto appena scritto poche pagine prima. Ne si comprende come possa prestarsi acquiescenza tacita ex art. 329, cpv. c.p.c., chiedendo espressamente l’accoglimento delle conclusioni di primo grado (v. pag. 11 citazione in appello).
2. – Il secondo mezzo d’annullamento, corredato da quesiti multipli, espone la violazione degli artt. 1411 e 1273 c.c. e la contraddittorietà della motivazione, in relazione, rispettivamente ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c..
La motivazione della sentenza impugnata confligge, sostiene parte ricorrente, con indiscutibili elementi documentali e con i risultati delle prove orali. Infatti, deduce il ricorrente, a) il terreno oggetto dell’attività di progettazione negoziata fra le parti era, all’origine, in comproprietà fra la Vermat s.a.s. ed A.E. , il quale poi il 22.3.1993 cedette la sua quota a detta società; b) la concessione edilizia fu chiesta e rilasciata a nome della Vermat; c) fra l’arch. A. e S.O. vi erano all’epoca rapporti di amicizia, tant’è che il conferimento dell’incarico professionale non fu accompagnato dalla trascrizione delle rispettive generalità; d) S.O. non aveva alcun interesse personale sul terreno oggetto dell’intervento edilizio; e) i committenti non avevano indicato nella Vermat s.a.s. il beneficiario del contratto stipulato, né avevano indicato che si trattasse di contratto a favore del terzo.
Pertanto, non essendovi un interesse personale dello S. alla stipulazione in favore del terzo, tale fattispecie non è configurarle, considerato, inoltre, che nel contratto stesso non è neppure menzionato il terzo.
2.1. – Il motivo è infondato.
2.1.1. – Esso procede da argomentazioni di puro fatto, che lungi dall’allegare e dal dimostrare un’intrinseca contraddittorietà del percorso motivazionale seguito dalla sentenza impugnata, sollecitano un inammissibile riesame di merito sulle emergenze probatorie, che come tale non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.
2.1.2. – Quanto, poi, alla dedotta violazione di legge, va osservato che la statuizione della Corte territoriale è conforme al diritto, ma la relativa motivazione va corretta, ex art. 384, ultimo comma c.p.c., per le considerazioni che seguono, e che rendono non pertinenti le censure svolte.
Il contratto a favore del terzo, previsto dall’art. 1411 c.c., ricorre allorché i contraenti, mediante un’apposita stipulazione si accordino per attribuire ad un terzo estraneo alla convenzione uno o più diritti derivanti dal contratto stesso. Pertanto, detta fattispecie ipotetica non ricorre né allorquando il diritto attribuito al terzo sorga per legge, né ove il terzo sia destinatario degli effetti economici vantaggiosi della prestazione ma non acquisti il diritto a pretenderla, salvo il diverso diritto, eventualmente desumibile dal contratto, a che la prestazione ove effettuata sia eseguita in maniera diligente al fine di evitargli un danno (nel qual caso è corretta, piuttosto, la configurazione di contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha accertato – con motivazione congrua e logica che come s’è detto resiste alla critica formulata nel motivo – unicamente che il contratto d’opera era stato stipulato tra A.E. , fratello dell’odierno ricorrente, e S.O. , da una parte, e lo studio CPPTU di A.V. e P. , dall’altra; non anche che esso attribuisse alla Vermat il diritto a esigere la prestazione professionale.
Pertanto, il fatto che detta società fosse proprietaria dell’area da edificare da un lato non è ragione sufficiente, in base alle superiori ragioni di diritto, per configurare la fattispecie come contratto a favore del terzo; dall’altro, non pone minimamente in crisi la logicità della ricostruzione storica operata dalla Corte bresciana, che l’incarico non presuppone la proprietà dell’oggetto materiale su cui la prestazione professionale è destinata ad operare.
3. – La reiezione di entrambi di motivi del ricorso principale assorbe l’esame del ricorso incidentale condizionato, riguardante la pronuncia d’inammissibilità della domanda riconvenzionale della Vermat.
4. – Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale, e pone a carico del ricorrente le spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.
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