Manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, n. 8 e 4, n. 3 della Legge 20 febbraio 1958 n. 75 nella parte in cui prevedono che in costanza di matrimonio costituisca reato la dazione di denaro da parte della moglie prostituta abituale al marito impossidente ed in stato di bisogno, nonostante si tratti di adempimento di obblighi coniugali
Suprema Corte di Cassazione
sezione II penale
sentenza 11 novembre 2016, n. 47841
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMMINO Matilde – Presidente
Dott. FUMU Giacomo – Consigliere
Dott. IASILLO Adriano – rel. Consigliere
Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere
Dott. FILIPPINI Stefano – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Avvocato (OMISSIS), quale difensore di (OMISSIS) (n. il (OMISSIS)), avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova, 1 Sezione penale, in data 16/12/2015;
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere Adriano Iasillo;
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dottor Fulvio Baldi, il quale ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso.
OSSERVA
Con sentenza del 21/04/2015, il G.I.P. del Tribunale di Genova dichiaro’ (OMISSIS) responsabile dei reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (capo B della rubrica esclusa l’aggravante della violenza) e di tentata rapina e lesioni personali gravi (capo C della rubrica) e lo condanno’ alla pena di anni 4 e mesi 8 di reclusione ed Euro 800,00 di multa per il reato di cui al capo B e alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione ed Euro 600,00 di multa per il capo C.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame. La Corte di appello di Genova con sentenza in data 16/12/2015 dichiaro’ non doversi procedere per il reato di lesioni sub C) perche’ estinto per remissione di querela e ridusse, conseguentemente, la pena per il residuo reato di cui al capo C (la tentata rapina) in quella di anni 2, mesi 2 e giorni 20 di reclusione ed Euro 444,00 di multa. Confermo’ nel resto la sentenza di primo grado.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato deducendo: l’incostituzionalita’ del disposto della L. n. 75 del 1958, articolo 3, n. 8, e articolo 4, n. 1, e articolo 7; vizi motivazionali in ordine al reato di cui al capo B; erronea qualificazione del fatto di cui al capo C come tentata rapina; vizi motivazionali in ordine al diniego delle attenuanti generiche; erronea applicazione di un aumento di due terzi per la recidiva (violazione dell’articolo 99 c.p., comma 6).
Il difensore del ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento dell’impugnata sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 Il ricorso e’ inammissibile per violazione dell’articolo 591, lettera c), in relazione all’articolo 581 c.p.p., lettera c), perche’ le doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici.
1.2 Infatti, per quanto riguarda l’eccezione di incostituzionalita’ della L. n. 75 del 1958, articolo 3, n. 8, e articolo 4, n. 1, e articolo 7, – nella parte in cui non prevedono la necessita’ della coartazione della volonta’ della vittima per la sussistenza dei reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione – la Corte di appello ha correttamente affrontato tutti gli argomenti posti a sostegno di tale eccezione e l’ha ritenuta manifestamente infondata con motivazione esatta e condivisa da questa Corte Suprema.
1.3 Il difensore dell’imputato ripropone nel ricorso gli stessi argomenti di cui sopra senza tener alcun conto di quanto evidenziato dal giudice di merito. La Corte territoriale ha, infatti, sottolineato – alle pagine da 4 a 6 – che innanzi tutto l’imputato e’ stato condannato anche per il favoreggiamento della prostituzione e che per tale condotta non si pone e non e’ stata posta alcuna questione di legittimita’ (si veda la motivazione a pagina 4 dell’impugnata sentenza). Dunque in ogni caso il ricorrente non potrebbe essere assolto per il reato sub B).
1.4 La Corte di appello evoca, poi, un condiviso principio di questa Corte (indicato nella sentenza impugnata, per mero errore materiale, quale principio affermato dalla Corte Costituzionale) secondo il quale e’ manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale della L. 20 febbraio 1958, n. 75, articolo 3, n. 8, e articolo 4, n. 3, nella parte in cui prevedono che in costanza di matrimonio costituisca reato la dazione di denaro da parte della moglie prostituta abituale al marito impossidente ed in stato di bisogno, nonostante si tratti di adempimento di obblighi coniugali. Non sussiste il dedotto contrasto con gli articoli 3 e 29 della Costituzione perche’ le stesse ragioni morali e sociali su cui e’ fondato il dovere di reciproca assistenza dei coniugi vietano di collegare a un rapporto penalmente illecito l’obbligo delle correlative prestazioni, ne’ puo’ ammettersi che in virtu’ del principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi un marito possa impunemente sfruttare la prostituzione della moglie (Sez. 1, Sentenza n. 8987 del 21/05/1985 Ud. – dep. 11/10/1985 – Rv. 170682; conforme massima n. 145710). Il principio di cui sopra trova fondamento in quanto deciso, precedentemente, dalla Corte Costituzionale che, tra l’altro, ha affermato: “… Particolari ragioni di tutela della dignita’ umana hanno indotto il legislatore ad abolire la regolamentazione della prostituzione, la registrazione, il tesseramento e qualsiasi altra degradante qualificazione o sorveglianza sulle donne che esercitano la prostituzione. Il legislatore non si e’ pero’ limitato a dare una nuova disciplina, ma, preoccupato dalle conseguenze dannose che possano derivarne, ha seguito anche un’altra direttiva, che appare riprodotta nel titolo della legge in esame (lotta contro lo sfruttamento della prostituzione). Ha emanato quindi nuove norme penali, atte a reprimere la diffusione di questo male sociale, prevedendo – nell’articolo 3, della ripetuta legge – varie ipotesi criminose, onde punire quelle attivita’ che in qualsiasi modo vengano a ledere l’interesse che si intende tutelare. I concetti di agevolazione e di sfruttamento della prostituzione altrui presentano una obiettivita’ ben definita, anche perche’ acquisiti da tempo nel Codice penale e sottoposti a lunga elaborazione dottrinale. Essi hanno un preciso ed inconfondibile significato, che non si presta ad equivoche interpretazioni. Allargare il raggio di applicazione della previsione legislativa fino a comprendere attivita’ che prima rimanevano impunite non significa svuotare di contenuto la norma, ma estenderla e rafforzarla. E la circostanza che sia stata usata una formula, la quale, pur essendo di piu’ ampio contenuto, risulti sinteticamente espressa, non costituisce un vizio della norma – siccome ritiene l’ordinanza di rimessione – ma un fatto normale in materia penale. Ed invero, tutti i comandi giuridici sono per loro natura di carattere generale ed astratto; ed e’ ben noto che, nell’indicare i fatti tipici costituenti reato, la legge a volte fa una descrizione minuta di essi, ma spesso si limita a dare un’ampia nozione del fatto, senza scendere a particolari di esecuzione. E gia’ questa Corte ha avuto occasione di affermare in proposito che il principio in virtu’ del quale nessuno puo’ essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge (articolo 1 c.p.) non e’ attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto. Spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria ed all’uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato (sentenza n. 27 del 23 maggio 1961).
Bisogna infine rilevare che queste nuove figure di reato, sottoposte al vaglio della dottrina e della giurisprudenza, sono state efficacemente determinate nei loro contorni e limiti. Onde, sotto qualsiasi aspetto esaminata, la censura della norma appare priva di fondamento” (Sent. Corte Cost. n 44 del 04/06/1964).
1.5 La Corte di merito ricorda, poi, il principio piu’ volte affermato da questa Suprema Corte secondo il quale risponde del reato di sfruttamento della prostituzione il marito o convivente della prostituta il quale, avendo la consapevolezza di tale attivita’, trae i propri mezzi di sussistenza, in tutto o in parte, dai guadagni della prostituta medesima, e cio’ anche nel caso in cui i proventi dell’attivita’ di prostituzione vengano ceduti spontaneamente per contribuire alla vita familiare (Sez. 3, Sentenza n. 21089 del 27/02/2007 Ud. – dep. 29/05/2007 – Rv. 236738).
1.6 Ne’ incide negativamente su quanto sopra osservato il contenuto della sentenza di questa Corte (citata nel ricorso a pagina 11 nella nota n. 14), che secondo il difensore del ricorrente confermerebbe che sarebbe penalmente rilevante solo una condotta “coartiva nei confronti della prostituta, ritenendo invece non punibili azioni solo formalmente favoreggiatrici e sfruttative, ma in realta’ realizzate in favore o con il libero consenso della lavoratrice”. Infatti nella predetta sentenza si conferma il principio di cui sopra secondo il quale la “prostituzione diviene di interesse del legislatore nella misura in cui si registri un approfittamento altrui (a vari titoli) nell’attivita’ di meretricio che un soggetto puo’ pero’, compiere liberamente (sempre che, in se’ cio’ non avvenga con modalita’ lesive di altre disposizioni di legge”; Sez. 3, Sentenza n. 1164 del 25/10/2012 Cc. – dep. 09/01/2013 – Rv. 254149). Dunque e’ l’approfittamento altrui e non la condotta coartiva che rende la prostituzione di interesse del Legislatore. La parte della motivazione che cita nel ricorso il difensore a sostegno della sua tesi e’ nella sua completezza cosi’ esposta: “Diversamente opinando – se si eccettua il caso di soggetti minorenni dove la normativa e’ ovviamente e giustamente restrittiva e protettiva – si finirebbe per sanzionare penalmente anche la libera espressione della sessualita’ da parte di adulti che si realizza anche attraverso la produzione di fotogrammi o filmati erotici, nell’incontro in circoli privati per scambi di coppie o, piu’ semplicemente, nell’apprezzamento di spettacoli in locali aperti al pubblico adulto ove si assiste alla c.d. lap-dance o a spettacoli di spogliarello (taluni perfino famosi nel mondo)”. Quindi l’estensore della sentenza prendendo in esame il caso concreto di cui si occupa (richiesta di dissequestro per mancanza del fumus commissi delicti e in assenza di un capo di imputazione) dopo aver affermato che “il punto nodale della vicenda in esame e’ rappresentato dalla enucleazione, in capo al marito della (OMISSIS), degli estremi di un comportamento riconducibile ad una delle condotte descritte dalla L. n. 75 del 1958, articolo 3, conclude che allo stato non e’ dato ravvisare alcun approfittamento”. Nella stessa sentenza di cui sopra si cita – senza alcuna critica – anche la sentenza di questa Corte che afferma che le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza via web-chat, in modo da consentire al fruitore delle stesse di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, con la possibilita’ di richiedere il compimento di determinati atti sessuali, assume il valore di prostituzione e rende configurabile il reato di sfruttamento della prostituzione nei confronti di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o che abbiano reso possibile i collegamenti via internet, atteso che l’attivita’ di prostituzione puo’ consistere anche nel compimento di atti sessuali di qualsiasi natura eseguiti su se stesso in presenza di colui che, pagando un compenso, ha richiesto una determinata prestazione al fine di soddisfare la propria libido, senza che avvenga alcun contatto fisico fra le parti (Sez. 3, Sentenza n. 15158 del 21/03/2006 Cc. – dep. 03/05/2006 – Rv. 233929). E sono conformi a quest’ultima sentenza anche molte altre decisioni l’ultima delle quali ribadisce che integra il reato di sfruttamento della prostituzione la condotta di chi recluta persone e consente l’effettuazione di prestazioni sessuali a pagamento in videoconferenza via “web-chat”, in modo da consentire al fruitore delle stesse di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, con la possibilita’ di richiedere il compimento di determinati atti sessuali (in motivazione, la Corte ha ribadito che l’attivita’ di prostituzione puo’ consistere anche nel compimento di atti sessuali di qualsiasi natura eseguiti su se stesso in presenza di colui che, pagando un compenso, ha richiesto una determinata prestazione senza che avvenga alcun contatto fisico fra le parti; Sez. 3, Sentenza n. 17394 del 09/04/2015 Ud. – dep. 27/04/2015 – Rv. 263358). Infine si ricorda che in tema di reati contro la moralita’ pubblica ed il buon costume, il delitto di sfruttamento della prostituzione, consistendo in qualsiasi consapevole e volontaria partecipazione, anche occasionale, ai guadagni che una persona si procura con il commercio del proprio corpo, puo’ concorrere con quello di favoreggiamento del meretricio, in ragione della diversita’ dell’elemento materiale, di quello psicologico e del bene giuridico protetto (Sez. 3, Sentenza n. 15069 del 09/12/2015 Ud. – dep. 12/04/2016 – Rv. 266630).
1.7 Dunque da tutto quanto sopra esposto si conferma la manifesta infondatezza dell’eccezione del ricorrente secondo cui sarebbero incostituzionali l’articolo 3, n. 8, e articolo 4, n. 1, e articolo 7, nella parte in cui non prevedono la violenza, la minaccia o l’inganno come elementi costitutivi dei reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, anziche’ come circostanze aggravanti della fattispecie.
2. Anche il secondo motivo di ricorso e’ manifestamente infondato.
Infatti, si deve evidenziare che per quanto sopra detto e’ irrilevante se vi sia stata o meno la condotta coartiva del’imputato allorche’ ha sfruttato e favorito la prostituzione delle due persone offese. Si deve, comunque, sottolineare che la Corte di appello si limita ad osservare, a pagina 6 dell’impugnata sentenza, che in ogni caso dagli atti (intercettazioni di una telefonata della (OMISSIS) e dichiarazioni dell’ (OMISSIS)) non risulta affatto che le due persone offese ( (OMISSIS) e l’ (OMISSIS), entrambe prostitute) abbiano versato al (OMISSIS) i loro guadagni spontaneamente. E quanto sopra non e’ affatto in contraddizione con l’esclusione dell’aggravante della L. n. 75 del 1958, articolo 4 n. 1. Invero, perfino il G.I.P. – che ha escluso la sussistenza della prova dell’uso della violenza al fine “di rafforzare la condizione di soggezione” delle due persone offese “o per costringerle a consegnare i proventi del meretricio” – afferma che e’ pacifico che l’imputato ha posto in essere atteggiamenti aggressivi nei confronti delle due donne. Inoltre il giudice di primo grado rileva, anche, che le due persone offese nel corso dell’incidente probatorio hanno confermato, sostanzialmente, le loro dichiarazioni, ma “con una maggiore titubanza (giustificata dal timore incusso dalla presenza dell’imputato, tanto che la (OMISSIS) (OMISSIS) ha chiesto di essere protetta da un paravento per non essere vista)”. Ne’ le generiche censure su tali affermazioni del G.I.P. hanno, comunque, incidenza con quanto sopra rilevato.
3. Il terzo motivo di ricorso e’ manifestamente infondato. Infatti, seppure il motivo di appello, con il quale e’ stata sollevata la questione di incostituzionalita’ di cui sopra, avesse riguardato anche il favoreggiamento della prostituzione si deve rilevare che la Corte di appello ha ben evidenziato quali siano gli interessi “che possano ritenersi offesi dalle condotte per cui vi e’ stata condanna” (come si chiede a pagina 15 del ricorso). Le sentenze sopra evocate (in particolare quella della Corte Costituzionale) e tutta la costante giurisprudenza di questa Corte sul reato di favoreggiamento della prostituzione forniscono un’esaustiva risposta al quesito del difensore dell’imputato. Si aggiunga che questa Suprema Corte ha recentemente confermato che e’ manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 3, comma secondo, n. 8 legge 20 febbraio 1958, n. 75, in relazione agli articoli 2, 13, 19, 21, 25 e 27 Cost., in quanto il concetto di “agevolazione” nel quale si risolve la condotta di favoreggiamento della prostituzione non viola i principi di legalita’, determinatezza e offensivita’ della norma penale, ne’ la disposizione incriminatrice contrasta con il principio di laicita’ dello Stato (Sez. 3, Sentenza n. 49643 del 22/09/2015 Ud. – dep. 17/12/2015 – Rv. 265551).
4. I tre motivi di ricorsi relativi al capo C sono manifestamente infondati. Infatti, o contengono censure improponibili in questa sede di legittimita’ (ad esempio interpretazione dei Giudici di merito del contenuto di una conversazione telefonica; si veda pagina 18 del ricorso e Sez. U, Sentenza n. 22471 del 26/02/2015 Ud. – dep. 28/05/2015 – Rv. 263715) o perche’ contestano la pacifica valenza probatorio del contenuto di un’intercettazione telefonica o perche’, infine, sostengono argomenti in contrasto con il materiale probatorio raccolto (non si tiene conto, allorche’ si propone la qualificazione giuridica dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non gia’ della ritenuta tentata rapina per il tentativo di impossessarsi con violenza delle chiavi della macchina contenute nella borsa della (OMISSIS), che a pagina 11 della sentenza di primo grado si evidenzia che lo stesso imputato ha ammesso che le macchine a lui intestate le aveva, in realta’, comprate (OMISSIS), la quale manteneva anche tutta la famiglia con i proventi del meretricio).
5 Incensurabile e’ anche la motivazione con la quale entrambi i giudici di merito hanno ritenuto di non riconoscere le attenuanti generiche e congrua la pena (si vedano le pagine 7 e 8 dell’impugnata sentenza e le pagine 12 e 13 della sentenza di primo grado).
6 L’ultimo motivo di ricorso – violazione dell’articolo 99 c.p., comma 6, – e’ inammissibile (il ricorrente si duole del fatto che il G.I.P. ha aumentato la pena di 2/3 pari ad anni 2 e mesi 8 di reclusione, mentre la somma delle condanne precedenti alla commissione dei delitti di cui si tratta e’ pari a mesi 6 e giorni e giorni 4 di reclusione). Infatti, nonostante il G.I.P. abbia esplicitamente evidenziato che aumentava la pena base di due terzi per effetto della recidiva, l’imputato non ha sollevato la questione di cui sopra avanti alla Corte di merito ne’ ha sollevato alcuna questione sulla sussistenza della recidiva; questione, quindi, proposta per la prima volta con il ricorso per Cassazione. Orbene e’ evidente che tale questione non puo’ essere proposta per la prima volta avanti a questa Corte di legittimita’. Infatti, questa Suprema Corte ha affermato, che e’ inammissibile il motivo di impugnazione con cui venga dedotta addirittura una violazione di legge che non sia stata eccepita nemmeno con l’atto di appello (Sez. 3, Sentenza n. 21920 del 16/05/2012 Ud. – dep. 07/06/2012 – Rv. 252773). Inoltre, si deve aggiungere che questa Corte in un caso nel quale ad un imputato incensurato erano state concesse le attenuanti generiche ma il trattamento sanzionatorio a costui riservato era stato del tutto eguale a quello degli altri coimputati (ai quali non erano state riconosciute le predette attenuanti) e, pertanto, se ne doleva con ricorso per Cassazione, ha osservato “che nel ricorso non si spiega che tale doglianza sia stata gia’ proposta in sede di atto di appello, e disattesa da questo secondo Giudice; e dunque deve intendersi preclusa come proposta per la prima volta in Cassazione, in quanto dipendente da valutazione di merito effettuata da quel primo Giudice e non gravata da doglianza, e che dunque si intendono coperte da giudicato per conseguenza dell’effetto devolutivo dell’appello. Infatti, questa Corte ha stabilito che le questioni di diritto sostanziale possono essere sollevate per la prima volta davanti alla Corte di Cassazione – cosi’ venendo meno la preclusione per le violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello – sempre che si tratti di deduzioni di pura legittimita’ o di questioni di puro diritto insorte dopo il giudizio di secondo grado in forza di jus superveniens o di modificazione della disposizione normativa di riferimento conseguente all’intervento demolitorio o additivo della Corte costituzionale. In caso di sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale, la quale ha il limitato effetto di far sorgere nel giudizio a quo una preclusione endoprocessuale, ma non e’ munita dell’efficacia erga omnes propria delle sentenze dichiarative di illegittimita’ costituzionale, i poteri di cognizione della Cassazione non possono estendersi oltre i limiti dell’effetto devolutivo del ricorso (Sez. 5, Sentenza n. 4911 del 21/07/1998 Cc. – dep. 19/08/1998 – Rv. 211822). Ha anche affermato, relativamente al deducibile in Cassazione, che la facolta’ attribuita alla Corte di Cassazione dall’articolo 609 c.p.p., comma 2, di decidere anche le questioni non dedotte nei motivi di appello la cui deducibilita’ sia divenuta possibile solo successivamente, si riferisce esclusivamente a questioni di solo diritto che sorgano per jus superveniens ovvero in relazione a circostanze non emerse prima, che pero’ siano pur sempre di diritto (Sez. 1, Sentenza n. 5398 del 28/09/1993 Ud. – dep. 10/05/1994 – Rv. 197808). Tali principi trovano il Collegio concorde, e pertanto ne consegue, per le indicate ragioni, anche la inammissibilita’ del motivo di ricorso” (Sez. 4, Sentenza n. 4853 del 03/12/2003 Ud. – dep. 06/02/2004 – Rv. 229374; si veda anche Sez. 3, Sentenza n. 3445 del 17/12/2008 Cc. – dep. 26/01/2009 – Rv. 242169).
6,1 Infine, non si e’ certo in presenza di una pena illegale. Infatti, il Giudice di merito ha individuato correttamente la pena base e ha, poi, proceduto all’aumento di due terzi della stessa pena base cosi’ come previsto per la recidiva contestata e applicata. L’eventuale errore del Giudice di primo grado consisterebbe nel non aver tenuto conto della somma delle condanne precedenti alla commissione dei delitti di cui si tratta e quindi di aver aumentato la pena per la recidiva in misura superiore a tale somma (cosa non consentita ex articolo 99 c.p., comma 6). E tale eventuale errore – come gia’ detto – il difensore del ricorrente lo evidenzia per la prima volta avanti a questa Corte Suprema producendo, tra l’altro, un vecchio certificato penale dell’imputato (del 15/01/2015; quindi precedente, di piu’ di tre mesi, la decisione del G.I.P. e precedente di quasi un anno rispetto alla decisione della Corte di appello e di un anno e 8 mesi rispetto alla decisione di questa Corte). In proposito, questa Corte ha piu’ volte affermato che non configura un’ipotesi di pena illegale “ab origine” la sanzione che sia complessivamente legittima ma determinata secondo un percorso argomentativo viziato (nella specie: erroneo aumento della pena per le circostanze aggravanti, pur muovendo da una pena base corretta), sicche’, in tal caso, la relativa questione non e’ rilevabile d’ufficio dalla Corte di cassazione in presenza di ricorso inammissibile (in motivazione la S.C. ha precisato che rientra nella nozione di pena illegale “ab origine” quella che si risolve in una pena diversa, per specie, da quella stabilita dalla legge, ovvero quantificata in misura inferiore o superiore ai relativi limiti edittali; Sez. 5, Sentenza n. 8639 del 20/01/2016 Ud. – dep. 02/03/2016 – Rv. 266080). Inoltre, e’ rilevabile di ufficio dalla Corte di Cassazione l’illegalita’ della pena solo quando la stessa, cosi’ come indicata nel dispositivo, non sia per legge irrogabile, ma non anche quando il trattamento sanzionatorio sia di per se’ complessivamente legittimo ed il vizio attenga al percorso argomentativo attraverso il quale il giudice e’ giunto alla conclusiva determinazione dell’entita’ della condanna (fattispecie in cui l’aumento per la recidiva, pur contenuto nei limiti astrattamente possibili per legge, era stato disposto in misura maggiore rispetto a quella specificamente indicato in motivazione; Sez. 2, Sentenza n. 22136 del 19/02/2013 Ud. – dep. 23/05/2013 – Rv. 255729).
7 Uniformandosi agli orientamenti di cui sopra, che il Collegio condivide, va dichiarata inammissibile l’impugnazione.
7.1 Ne consegue, per il disposto dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche’ al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.500,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 alla Cassa delle ammende
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