Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza n. 13279 del 26 luglio 2012

Svolgimento del processo

Q.G., Presidente del Collegio Sindacale della C.A.R.P. Cooperativa Autotrasportatori Riuniti di Pesaro e Urbino s.c.r.l., impugnò la deliberazione in data 7.11.1998 con la quale l’assemblea della società aveva disposto l’esercizio della azione di responsabilità nei suoi confronti. Premesso che l’art. 14 dello Statuto sociale prevedeva che “l’assemblea è convocata dal Presidente in via ordinaria una volta l’anno entro il mese di marzo, ed in via straordinaria ogni volta che il Presidente lo ritenga necessario, o quando ne sia fatta richiesta scritta e motivata da tanti soci che rappresentino non meno di un quinto dei voti complessivi”, dedusse che la delibera in questione era da ritenere inesistente, atteso che la riunione assembleare, sebbene tenutasi in epoca successiva al mese di marzo, era stata svolta secondo le modalità dell’assemblea ordinaria e non straordinaria come imposto dalla clausola statutaria, non essendo il verbale stato redatto da Notaio come prescritto dall’art. 2375 c.c., comma 2. La società convenuta si costituì in giudizio contestando la domanda, della quale chiese il rigetto con la condanna dell’attore ai sensi dell’art. 96 c.p.c..
Il Tribunale di Pesaro rigettò la domanda, osservando come la distinzione tra assemblea ordinaria e straordinaria non dipenda dal momento in cui la riunione viene convocata (se prima o dopo il mese di marzo) bensì dall’oggetto che deve essere deliberato, ai sensi degli artt. 2364 e 2365 c.c., in combinato disposto con l’art. 2516 c.c.; e poichè nella specie la deliberazione aveva ad oggetto una materia devoluta all’assemblea ordinaria, la verbalizzazione ad opera del Notaio non era richiesta dalla legge.

Il gravame proposto dal Q., il quale deduceva che l’autonomia statutaria può attribuire all’assemblea straordinaria (con le correlate maggiori garanzie procedurali) materie ulteriori rispetto a quelle previste dalle norme di legge, è stato rigettato dalla Corte d’appello di Ancona, la quale ha in sintesi osservato che l’art. 14 dello Statuto sociale in questione, laddove prevede in via generica ed ampia che ogni assemblea successiva alla data del 31 marzo sia svolta con le formalità dell’assemblea straordinaria, finisce per derogare al riparto di competenza delineato dagli artt. 2364 e 2365 c.c., da ritenere invece inderogabile con riguardo alla delibera di esercizio dell’azione di responsabilità, tenuto conto non solo del nuovo testo dell’art. 2365 c.c. (pur inapplicabile ratione temporis) ma anche dei principi normativi ricavabili dal complesso delle norme in materia di rapporti tra l’organo deliberante e quello di controllo, tese a facilitare l’esercizio dell’azione di responsabilità al fine di garantire un equilibrio in tale delicato rapporto. Quindi la clausola dell’art.14 dello Statuto, interpretata alla luce del criterio oggettivo di interpretazione conservativa, deve, onde sottrarsi ad una censura di invalidità per contrarietà alla norma imperativa di ordine pubblico economico dell’art. 2364 c.c., n. 4, essere intesa nel senso che non si riferisce all’assemblea che delibera l’esercizio dell’azione di responsabilità.
Avverso tale sentenza, depositata il 20 settembre 2008, Q. G. ha proposto ricorso a questa Corte sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso la C.A.R.P. s.c.r.l..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si censura, sotto il profilo della contraddittorietà ed insufficienza della motivazione, l’interpretazione che dell’art. 14 dello statuto sociale la Corte di merito ha esposto. Si sostiene che tale interpretazione sarebbe erronea:
unica interpretazione plausibile, alla luce del chiaro significato delle espressioni usate, essendo quella secondo la quale tutte le assemblee successive alla prima, da tenersi entro la data del 31 marzo di ogni anno, dovrebbero considerarsi di natura straordinaria, e quindi soggette al conseguente più rigoroso regime giuridico, onde rispettare la volontà dei soci di evitare possibili turbative del normale svolgimento della attività sociale. Il motivo si palesa inammissibile, giacchè con esso non si sottopone a puntuale evidenziazione l’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice del merito, bensì viene sottoposto direttamente a critica il risultato interpretativo raggiunto dal giudice stesso sollecitando la Corte ad adottare una diversa interpretazione, il che evidentemente esula dai limiti del controllo di legittimità.

Con il secondo motivo, si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2364 c.c. (nel testo ante riforma del 2003, applicabile nella specie ratione temporis) nonchè la contraddittorietà ed insufficienza della motivazione, in relazione alla ritenuta inderogabilità di tale norma nella parte in cui attribuisce all’assemblea ordinaria la deliberazione circa l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci. Sostiene, in sintesi, il ricorrente che la deroga posta dall’art. 14 dello statuto sociale alla citata norma codicistica è diretta ad un maggior rigore, ed in tal caso la legge non impedisce all’autonomia dei soci di modificare, nella concreta situazione, l’astratto apprezzamento legale, non incidendo peraltro tale diversa regolamentazione sulla facoltà di tutti i soci di esprimere voti.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
Inammissibile per quanto riguarda la denuncia di un vizio di motivazione, che appare solo enunciato ma non illustrato, nè sintetizzato a norma dell’art. 366 bis (applicabile nella specie ratione temporis).
Infondato quanto alla violazione di legge, meritando condivisione quanto argomentato dalla Corte di merito in ordine alla inderogabilità della norma codicistica che attribuisce all’assemblea ordinaria la facoltà di deliberare l’azione di responsabilità contro amministratori e sindaci. Inderogabilità dalla quale deriverebbe la invalidità della clausola statutaria ove interpretata nel senso di attribuire la natura di ordinaria o straordinaria alla riunione assembleare a seconda della data in cui si tiene: il criterio conservativo di cui all’art. 1367 c.c., impone dunque la scelta della soluzione interpretativa che faccia salva la competenza della assemblea ordinaria sulla delibera in questione, attribuendo al termine statutario del 31 marzo per la convocazione dell’assemblea ordinaria – ove abbia ad oggetto la materia in questione – lo stesso significato ed efficacia del termine di sei mesi fissato dall’art. 2364 c.c., comma 2, nel senso cioè di non precludere lo svolgimento dell’assemblea ordinaria oltre quel termine. Le contrarie osservazioni del ricorrente non convincono. Innanzi tutto, non può affermarsi che la clausola statutaria in esame preveda un regime più rigoroso di quello legalmente stabilito per la adozione della delibera dell’azione di responsabilità: al contrario, rende più gravoso l’esercizio dell’azione di responsabilità, e ciò contrasta con la norma di legge in commento, la cui ratio la Corte di merito ha fondatamente individuato, in coerenza con il disposto di altre norme codicistiche, nella esigenza di facilitare l’esercizio dell’azione di responsabilità. Che infatti è posta de iure all’ordine del giorno della convocazione della assemblea ordinaria di approvazione del bilancio, ad espressione di un nesso significativo tra tale atto, fondamentale nel quadro dei rapporti tra organo di gestione e organo assembleare, e la verifica dell’assemblea circa l’operato dei propri organi di gestione e di controllo. Tale verifica, come è stato già affermato da questa Corte (cfr. Sez. I, n. 7030/1994; n. 10215/10), non è attribuita ai soci esclusivamente nell’interesse proprio, bensì nell’interesse della società alla integrità del proprio patrimonio sociale, della quale amministratori e sindaci sono solidalmente responsabili, anche nei confronti dei terzi che entrino in contatto con la società. I quali su tale patrimonio fanno affidamento, in un sistema incentrato sulla responsabilità limitata dei soci che nella responsabilità di amministratori e sindaci trova chiusura e garanzia. Ne deriva di necessità che non è in facoltà dei soci derogare a tale sistema normativo.

Il rigetto del ricorso si impone dunque, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, in Euro 3.000,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali e accessori di legge.

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