Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 6 settembre 2013, n. 36647
Ritenuto in fatto
1. M.R. impugna per il tramite del proprio difensore la sentenza del 13 dicembre 2012, con la quale la Corte d’appello di Catania ha confermato la pena di giustizia, inflittale dal Tribunale in sede con sentenza del 26 settembre 2011, per il reato di cui agli artt. 110 e 681 cod. pen. per avere, in concorso con altro soggetto giudicato a parte, quale responsabile dell’associazione denominata (omissis) , aperto all’interno del predetto locale una sala da ballo, omettendo di osservare le prescrizioni dell’autorità a tutela della pubblica incolumità.
2. Deduce erronea applicazione della legge penale, non avendo essa ricorrente mai rivestito la carica di Presidente dell’associazione indicata in narrativa.
Non era stato poi tenuto presente che nei locali dell’associazione non era stato organizzato un pubblico spettacolo, trattandosi di una palestra dove fra le attività svolte erano previste anche lezioni di ballo; era dunque un’associazione privata nella quale chiunque entrava era considerato socio e l’ingresso era aperto esclusivamente ad essi, si che non poteva ritenersi spettacolo pubblico quello che si svolgeva in un luogo riservato ai soci di un’associazione, anche se il numero dei soci era particolarmente elevato e la loro ammissione non era soggetta a forme rigide.
D’altra parte essa ricorrente era stata coinvolta nella vicenda solo per avere favorito il proprietario e gestore dell’attività, G.M. , essendosi essa limitata a raccogliere la somma di Euro 5,00 da ciascuno dei soci per poi partecipare assieme ad una cena.
Considerato in diritto
1. Il ricorso proposto da M.R. è inammissibile siccome proposto per motivi di merito non proponibili nella presente sede di legittimità.
2. Va innanzitutto rilevato che, come desumesi dalla sentenza di primo grado, la ricorrente è stata coinvolta nel presente processo non nella sua qualità di Presidente dell’associazione che gestiva la (omissis) , ma in qualità di addetta, essendo stata sorpresa dagli agenti del Questura di Catania mentre riscuoteva dai singoli frequentatori della palestra, indebitamente trasformata in sala da ballo, l’importo d’ingresso, pari ad Euro 5,00 per ciascun utente.
3. La giurisprudenza di questa Corte è concorde nel ritenere che sussiste il reato di cui all’art. 681 cod. pen. (apertura abusiva di luoghi di pubblico spettacolo o trattenimento) allorché venga esercitata un’attività di intrattenimento in un locale formalmente concepito come sede di un’associazione privata (nella specie come una palestra) ed accessibile come tale solo ad una ristretta cerchia di soci, ma sostanzialmente aperto senza discriminazioni a chiunque, mediante il pagamento di una quota di adesione, allorché manchino, come nella specie in esame, le autorizzazioni amministrative prescritte per l’esercizio di attività in luoghi aperti al pubblico (cfr., in termini, Cass. sez. 1 n. 20268 del 28/4/2010, Criscuolo, Rv. 247211).
4. Nella specie in esame gli accertamenti di p.g. svolti hanno evidenziato come i locali dell’associazione indicata in narrativa, seppur formalmente finalizzati all’esercizio di una palestra per i soci dell’associazione, venivano in realtà utilizzati come locale da ballo aperto a chiunque fosse intervenuto, essendo stata la ricorrente sorpresa a riscuotere dagli astanti il prezzo d’ingresso, pari ad Euro 5,00 a persona.
5. Come sopra riferito, la ricorrente si è limitata a fornire una versione alternativa dei fatti, la quale, oltre a non essere proponibile nella presente sede di legittimità, appare del tutto illogica, non potendosi configurare un’associazione privata i cui aderenti s’identifichino con tutti coloro che scelgano di entrare nei locali dell’associazione, a prescindere dal numero dei richiedenti e con criteri selettivi (pagamento di un biglietto) così larghi da diventare del tutto inesistenti, atteso che, in tal modo, verrebbe eliminata ogni differenza fra locali aperti ai soci di un’associazione e locali aperti al pubblico.
6. Da quanto sopra consegue la declaratoria d’inammissibilità del ricorso in esame con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
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