Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 5 giugno 2014, n. 23619
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 23.10.2013 la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, qualificati i fatti ascritti a M.R. ex artt. 81 e 660 Cod. pen., anziché violenza privata, determinava la pena nei suoi confronti in mesi 4 di arresto; pena sospesa e non menzione.- Con la stessa sentenza il predetto imputato era altresì condannato al risarcimento dei danni, più spese di lite, in favore della parte lesa T.C. , costituita parte civile.
La Corte territoriale rilevava come le condotte poste in essere dall’imputato nei confronti della moglie separata non fossero contestate, essendo in discussione solo la loro rilevanza e la qualificazione giuridica. La parte lesa era risultata attendibile e coerente e non mossa da animosità o spirito di vendetta; vi erano poi conferme ai fatti provenienti da altre persone, quali la madre della T. e sue colleghe di lavoro.
Ciò posto, riteneva la Corte palermitana come nei fatti si dovesse ritenere integrato il reato di molestie continuate attuato per biasimevole motivo dal marito separato che non si rassegnava ed intendeva rendere difficile la vita all’ex coniuge.
La pena era determinata sulla base di mesi 4 di arresto, ridotti per le generiche a mesi 3, aumentata di un mese per la continuazione.
2. Avverso tale sentenza di secondo grado proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto imputato che motivava l’impugnazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, in particolare argomentando -in sintesi- nei seguenti termini:
a) mancava nella condotta il requisito della petulanza o del motivo biasimevole, essenziale per l’integrazione del reato di molestie; si trattava di tre episodi circoscritti, non collegabili tra loro, occasionati da controversie dovute ai rapporti logorati, specie con riguardo ai figli;
b) la pena non era stata motivata e risultava comunque eccessiva;
c) al reato di molestie non poteva essere applicata la continuazione;
d) le particolari circostanze avrebbero dovuto condurre alla compensazione delle spese di parte civile;
e) la Corte, ritenuta la derubricazione, avrebbe dovuto rimettere in termine esso imputato per poter effettuare oblazione; sul punto si proponeva questione di costituzionalità.
Considerato in diritto
1. Il ricorso, fondato nei ristretti limiti di cui alla seguente motivazione, deve essere rigettato per il resto.
2. Va premesso che la materialità dei fatti non è contestata.- Il primo motivo di ricorso, attinente l’elemento psicologico [v. sopra, sub ritenuto, al p.. 2.a], non è fondato. Ed invero, secondo consolidata e condivisibile giurisprudenza di questa Corte di legittimità, l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 660 Cod. pen. è dato dalla coscienza e volontà di attuare condotte che risultino moleste per la parte lesa, a prescindere dai motivi personali che possano avere determinato l’agente. In tal senso cfr., ex pluribus, Cass. Pen. Sez. 1, n. 33267 in data 11.06.2013, Rv. 256992, Saggiomo: “In tema di molestia e disturbo alle persone, l’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto”. L’applicazione di tale principio al caso di specie rende irrilevanti le deduzioni del ricorrente sul punto. Peraltro è del tutto evidente che la Corte territoriale, in coerenza con la pertinente giurisprudenza, ha ben esaminato i fatti di causa distinguendo i piani, quello oggettivo delle condotte, provate, e quello soggettivo della consapevolezza in capo all’imputato. In definitiva, sul punto, la causale individuale delle condotte (i rapporti logorati tra gli ex coniugi e le controversie conseguenti) non impedisce certo che le stesse si siano attuate con modalità costituenti molestie.
3. Risulta infondato anche il secondo motivo di ricorso relativo alla dosimetria sanzionatoria [v. sopra, sub ritenuto, al p.2.b].- La Corte territoriale ha infatti ben motivato l’entità della pena ritenuta in concreto equa ed adeguata, sia con motivazione specifica, ancorché sintetica, sia nel complesso della valutazione dei fatti, considerati di non secondaria gravità. Va qui ricordato come la determinazione sanzionatoria sia affidata dalla legge al giudice del merito la cui valutazione, ove adeguatamente motivata, si sottrae – per giurisprudenza consolidata – alla censura in sede di legittimità.- Ciò vale per l’individuazione della pena base in mesi quattro di arresto, peraltro poi ridotta di un mese (e dunque a tre mesi) per le concesse attenuanti generiche.
4. Pari infondatezza connota anche il motivo di ricorso relativo alla condanna alle spese in favore della parte civile [v. sopra, sub ritenuto, al p.2.d].- Va premesso che non risulta dal testo della sentenza che l’imputato abbia avanzato richiesta di compensazione delle spese al giudice del merito, né tanto è affermato nell’atto di ricorso, per cui non vi era obbligo di motivazione specifica sul punto. Deve essere qui ricordato, peraltro, come si tratti di valutazione su base discrezionale che non può essere oggetto di censura di legittimità, né può il ricorrente avanzare una doglianza su tema non oggetto di specifica richiesta. Infine, risulta con assoluta evidenza che i giudici del merito hanno ritenuto entrambi (pur dando diverse qualificazioni giuridiche) che nessun rimprovero poteva farsi, quanto alle subite condotte, alla parte lesa, per cui il motivo di ricorso qui in esame si presenta infondato anche con riguardo all’ormai definitivo accertamento dei fatti.
5. Non è fondato neppure il motivo di ricorso che denuncia la mancata rimessione in termine, in relazione alla ritenuta riqualificazione dei fatti, per poter effettuare oblazione [v. sopra, sub ritenuto, al p.2.e].- L’oblazione (nel caso, trattandosi di contravvenzione punita con pena alternativa, inquadrabile teoricamente nell’art. 162 bis Cod. pen.) è istituto esperibile solo nel primo grado di giudizio, nei limiti processuali stabiliti. Non vi è obbligo, pacificamente, per il giudice di rimettere in termine l’imputato, ex officio, ove non vi sia stata previa domanda (che, nella fattispecie, pacificamente non vi fu, come ammesso nell’atto di ricorso). Comunque, era evidente il giudizio circa la gravità dei fatti (tanto da irrogare pena detentiva) e la permanenza di conseguenze (tanto che vi era costituzione di parte civile), di tal che era comunque implicita l’insussistenza anche sostanziale delle condizioni di ammissibilità. Sul punto dedotto, questa Corte ha già affermato l’infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, ora proposta dal ricorrente in questa sede : cfr. Cass. Pen. Sez. 3, sentenza n. 12284 del 19.10.2011, Rv. 252244, Vavassori: “È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 162 e 162-bis cod. pen., 521 cod. proc. pen. e 141 disp. att. cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono la restituzione nel termine dell’imputato per la richiesta di oblazione, nell’ipotesi in cui il giudice in sentenza attribuisca al fatto una diversa qualificazione giuridica da quella enunciata nell’imputazione ed a prescindere dalla preventiva istanza dell’imputato”.
6. Deve trovare accoglimento, invece, il motivo di ricorso che attiene alla ritenuta continuazione [v. sopra, sub ritenuto, al p.2.e].- Questa Corte ha ritenuto, con giurisprudenza costante, che il reato di molestie non è necessariamente abituale, potendo essere realizzato anche con una sola azione, di tal che la reiterazione delle azioni di disturbo ben può configurare ipotesi di continuazione (v. Rv. 248982, 247960; ecc.).- Peraltro tale impostazione di carattere generale non impedisce di rilevare che, in fatto, la vicenda concreta si sia snodata con caratteristiche tali da rendere la condotta abituale ed integrante il reato solo nella globalità unitaria delle condotte. Nella fattispecie ciò si rende evidente considerando che si trattò di tre episodi racchiusi nel breve giro di due mesi.- Tanto ritenuto, occorre escludere la ritenuta continuazione. Ciò comporta l’eliminazione della frazione di pena, un mese di arresto, irrogata a tale titolo; in definitiva la pena finale viene ad essere determinata in mesi tre di arresto, fermo il resto.
7. Il ricorso va dunque rigettato in ogni sua parte, ad eccezione del punto relativo alla continuazione nei termini appena motivati.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’aumento di pena per la continuazione in mesi uno di arresto che elimina. Rigetta nel resto il ricorso.
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