Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 31 marzo 2014, n. 7485
Svolgimento del processo
1. – All’esito del giudizio, definito dal Tribunale di Trieste con sentenza 2 luglio 2009, che ha regolato gli aspetti patrimoniali della cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai sig.ri C.B. e L.E. il 1° marzo 1986, è stato riconosciuto alla sig.ra L. un assegno divorzile di € 2.700,00 mensili, con rivalutazione monetaria, ed imposto all’ex marito l’onere delle spese condominiali ordinarie e straordinarie di un immobile intestato ai due figli e abitato anche dalla ex moglie.
2. – Il gravame proposto dalla sig.ra L., che aveva chiesto l’aumento dell’assegno e l’integrazione del contributo per le spese di gestione dell’immobile, è stato parzialmente accolto dalla Corte di appello di Trieste, con sentenza 6 marzo 2010, che, rigettando l’appello incidentale del sig. B. che aveva chiesto una riduzione dell’assegno, lo ha determinato in € 4.000,00 mensili, con decorrenza dal 15 marzo 2005 (data della sentenza non definitiva di cessazione degli effetti civili del matrimonio), oltre a porre a suo carico le spese condominiali e quelle di gestione dell’immobile (punto quest’ultimo non più controverso).
2.1. – La corte ha ritenuto che la sig.ra L. non aveva i mezzi per mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio né la possibilità di procurarseli da sola, avendo interrotto l’attività lavorativa durante il matrimonio e non essendo possibile un suo reinserimento nel mondo del lavoro, né vi era prova che avesse rifiutato offerte di lavoro; che il tenore di vita coniugale era molto alto, tenuto conto del notevole patrimonio immobiliare e delle liquidità del sig. B. (avendo incassato nel 2005, prima della sentenza che aveva dichiarato cessati gli effetti civili del matrimonio, l’ingente importo di otto milioni di euro grazie ad un lascito ereditario, oltre a sei miliardi di lire da un lascito precedente, e aveva acquistato un appartamento di pregio per i figli con diritto reale di abitazione in favore dell’ex moglie); inoltre la misura dell’assegno stabilita dal tribunale (di € 2.700,00) era inferiore all’importo concordato dalle parti in sede di separazione e non teneva conto delle notevoli capacità economiche e reddituali del B. che gli consentivano di fare fronte al pagamento dell’assegno per molti anni ancora.
3. – Avverso questa sentenza il sig. B. ricorre per cassazione sulla base di tre motivi, cui resiste la sig.ra L. con controricorso. Entrambi hanno presentato memorie ex att. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1.- Nel primo motivo il ricorrente attribuisce alla sentenza impugnata la violazione o falsa applicazione degli artt. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, e 2967 c.c., per non avere correttamente valutato i criteri di attribuzione dell’assegno divorzile e per averlo quantificato in un importo eccessivo (di € 4.000,00 mensili). Egli assume che, a norma del menzionato art. 5, l’obbligo del coniuge divorziato di corrispondere un assegno sussiste solo nel caso (ed entro i limiti) in cui l’ex coniuge non abbia mezzi adeguati a condurre una vita dignitosa, circostanza la cui prova è a suo carico, mentre la Corte del merito aveva affermato che era stato il sig. B. a non avere dimostrato quali offerte di lavoro la sig.ra L. avesse rifiutato. Ad avviso del ricorrente, non sarebbe sufficiente la impossibilità di conservare il precedente tenore di vita, occorrendo la prova – che mancava – della impossibilità di procurarsi i mezzi di sostentamento; inoltre, erroneamente la corte avrebbe dato rilievo, al fine di incrementare la misura dell’assegno, a un lascito ereditario che non aveva concorso a determinare il tenore di vita durante il rapporto matrimoniale perché ricevuto successivamente all’autorizzazione a vivere separati, non sussistendo un diritto del coniuge a vedersi aumentare l’assegno in occasione di ogni incremento patrimoniale del coniuge onerato; infine la Corte non avrebbe tenuto conto degli oneri economici connessi al mantenimento dei figli che gravavano solo su di lui.
1.1. – Il motivo è infondato.
La corte triestina ha accertato in fatto che la sig.ra L., durante il periodo matrimoniale, non aveva lavorato perché, al fine di dedicarsi alla famiglia, aveva interrotto l’attività professionale che prima svolgeva nel campo della moda e dello spettacolo, nel quale non era presumibile un suo reinserimento dopo molti anni che ne era uscita. Da tale circostanza ha tratto come conseguenza ragionevolmente probabile che i suoi mezzi fossero inadeguati (ovvero che ella si trovasse nella oggettiva impossibilità di procurarseli), da intendersi come inidoneità a consentirle la prosecuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, senza necessità di accertare la esistenza di un vero e proprio stato di bisogno dell’avente diritto, rilevando esclusivamente la circostanza dell’apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche che, in linea tendenziale, vanno ripristinate con riferimento a quelle precedenti la cessazione del vincolo matrimoniale.
La corte ha, in tal modo, applicato (e non violato) il principio, costantemente ribadito da questa Corte (v., tra le tante, n. 20582/2010, n. 24496/2006), secondo cui la nozione di adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l’assegno postula un esame comparativo della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente con quella della famiglia all’epoca della cessazione della convivenza, indagine questa da compiersi con rigoroso riferimento alle concrete possibilità lavorative del soggetto, onde verificare se il coniuge possieda effettivamente, o sia concretamente in grado di procurarsi, redditi adeguati nel significato sopra specificato. Nella negativa valutazione compiuta a tale riguardo è implicito un giudizio di merito incensurabile in questa sede, in quanto espresso con argomentazioni adeguate e immuni da vizi logici, anche laddove i giudici del merito hanno ritenuto che l’invito rivolto (verso la fine della convivenza) dal marito di trovarsi un lavoro non costituisse un indice significativo di una concreta ed attuale capacità lavorativa della ex moglie non realizzata per sua scelta opportunistica.
Con riguardo alla quantificazione dell’assegno mensile, la decisione della corte di appello di aumentarlo (da e 2700,00 a € 4000,00) non è connessa in modo automatico ai consistenti lasciti ereditari (uno in prossimità della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio) di cui il sig. B. ha beneficiato, ma è il risultato di una complessiva riconsiderazione del parametro valutativo del tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, che è stato ritenuto “molto agiato” (di tipo “alto borghese”), come dimostrato dalle particolari capacità economiche del sig. B., risultanti anche dal suo notevole patrimonio immobiliare (“di entità non comune” e non facilmente accertabile) e da ingenti liquidità. La decisione di rideterminare l’assegno in aumento è, in definitiva, il risultato di accertamenti di fatto di cui la corte ha dato conto con motivazione adeguata e, quindi, incensurabile in questa sede.
2. – Il ricorrente deduce, nel secondo motivo, la violazione degli artt. 4, 5 e 9 della legge n. 898/1970 per avere stabilito come decorrenza dell’assegno mensile la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, anziché la data del provvedimento (6 aprile 2006) dal quale il tribunale aveva fatto decorrere l’aumento dell’assegno (in misura peraltro giudicata insufficiente dalla corte di appello) per effetto del sopravvenuto miglioramento delle capacità economiche dell’obbligato.
2.1. – Il motivo è infondato. La sentenza impugnata, facendo decorrere l’assegno dalla data della sentenza di divorzio, ha fatto applicazione del consolidato principio di diritto secondo cui è in caso di diversa decorrenza dell’assegno che il giudice è tenuto a renderne conto con una specifica motivazione (v. Cass. n. 3351/2003).
3. – Nel terzo motivo è dedotto un vizio di motivazione: la sentenza impugnata, dopo avere premesso di tenere conto delle condizioni economiche concordate dai coniugi in sede di separazione, tuttavia erroneamente avrebbe considerato come importo concordato in quella sede lire sette milioni mensili (pari a € 3.615,20), mentre quella cifra era destinata anche ai figli e soli tre milioni di lire erano destinati alla moglie (pari a € 1.549,37); pertanto, ad avviso del ricorrente, se la corte avesse correttamente percepito il reale ammontare dell’assegno di mantenimento pattuito dai coniugi in sede di separazione, l’assegno di divorzio sarebbe stato probabilmente diverso.
3.1. – Il motivo è infondato. L’eventuale errore riferito dal ricorrente non ha avuto alcuna incidenza nella determinazione dell’assegno che è stata disposta dalla sentenza impugnata, in misura superiore a quella stabilita dal tribunale, sulla base di una rinnovata e autonoma valutazione delle circostanze del caso concreto.
4. Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alle spese del giudizio, liquidate in € 5200,00, di cui € 5000,00 per compensi, oltre accessori dovuti per legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
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