Cassazione 11

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 3 settembre 2015, n. 35934

In fatto e in diritto

1. Con ordinanza emessa in data 11 giugno 2014 il GIP del Tribunale di Palermo – in sede esecutiva – ha rigettato l’istanza proposta da C.I. , tesa alla rideterminazione della pena oggetto di applicazione ex art. 444 cod.proc.pen. con sentenza del 3 giugno 2010 (per detenzione illecita di droghe leggere) nella misura di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa (art. 73 co. 5 dPR n. 309/’90).
In rapporto agli effetti della decisione emessa dalla Corte Costituzionale n.32 del 2014, il G.E. osserva che se è vero che per effetto di tale pronunzia il trattamento sanzionatorio applicabile andava determinato nell’ambito di una oscillazione edittale inferiore, le parti avevano concordato la pena base nella misura di anni due di reclusione ed Euro 6.000,00 di multa e pertanto la determinazione non poteva dirsi, in concreto, “illegale” in rapporto alla rinnovata applicabilità dei previgenti limiti edittali (da sei mesi a quattro anni e da 1032 Euro a 10.329 Euro), e ciò anche in rapporto al quantitativo della sostanza rinvenuta e alla negativa personalità del C. , gravato da un precedente specifico.
2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione – con personale sottoscrizione – C.I. , deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.
Il ricorso si basa su diversa valutazione, rispetto al contenuto del provvedimento impugnato, delle ricadute – quanto al trattamento sanzionatorio per fatti pregressi – della nota decisione n.32 del 2014 emessa dalla Corte Costituzionale in data 12.2.2014. Si contesta, in particolare, il metodo utilizzato per ritenere “non illegale” il trattamento sanzionatorio oggetto di accordo tra le parti, data la rilevante diversità della fascia edittale nel cui ambito avrebbe dovuto dispiegarsi l’accordo.
3. Il ricorso è fondato e va accolto, per le ragioni che seguono.
Sul tema del rapporto tra l’intangibilità del giudicato e le ricadute di decisioni della Corte Costituzionale incidenti sul mero trattamento sanzionatorio – oggetto di disputa teorica e di contrastanti orientamenti giurisprudenziali – sono di recente intervenute le Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 42858 del 29.5.2014 (dep. 14.10.2014) ric. Gatto nonché con le decisioni emesse nella recente udienza del 26 febbraio 2015 ric. Jazouli e ric. Marcon (di tali decisioni sono disponibili le informazioni provvisorie).
L’opzione interpetrativa seguita in detti arresti – cui si presta adesione – ritiene superabile, anche lì dove la declaratoria di illegittimità costituzionale riguardi una norma incidente sul trattamento sanzionatorio (e non anche abrogativa della rilevanza penale del fatto) il limite del giudicato.
La motivazione della decisione Sez. U. ric. Gatto si incentra – essenzialmente – sulla diversità ontologica di una pronunzia di incostituzionalità rispetto ad un “ordinario” intervento legislativo basato, il secondo, sulla rivalutazione – in rapporto al decorso del tempo e a mutate sensibilità sociali, storiche o culturali – del contenuto di norme penali.
La pronunzia di incostituzionalità – a differenza dell’ordinario intervento normativo – inficia, invece, sin dall’origine la disposizione impugnata e pertanto non è in alcun modo omologabile alla vicenda della successione di leggi nel tempo.
Si è ribadito pertanto che la norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento giuridico perché affetta da invalidità originaria e ciò impone e giustifica la proiezione “retroattiva” sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi della intervenuta pronuncia di incostituzionalità.
Da ciò deriva che “tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati”.
La norma regolatrice viene individuata, per l’appunto, nella previsione dell’art. 30 comma 4 legge n. 87 del 1953 (quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali) il cui ambito applicativo non si limita ad imporre la retroattività delle decisioni aventi ad oggetto la rilevanza penale del fatto ma si estende al caso di declaratoria di incostituzionalità di norma penale diversa ed “incidente” sulla determinazione della pena.
Da qui la considerazione per cui la formazione del giudicato e il mancato inserimento nel corpo dell’art. 673 cod.proc.pen. del caso di declaratoria di incostituzionalità di norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio (essendo presa in esame la sola ipotesi di dichiarazione di incostituzionalità di norma incriminatrice) non rappresentano fattori ostativi alla estensione in sede esecutiva degli effetti di simili pronunzie.
In particolare, le Sezioni Unite ric. Gatto hanno così individuato il limite di rilevanza della pronunzia di incostituzionalità rispetto al giudicato: .. l’aspetto decisivo, che segna invece il limite non discutibile di impermeabilità e insensibilità del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata è costituito dalla non reversibilità degli effetti, giacché il citato art. 30 impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili perché già consumati, come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena…; l’esecuzione della pena implica infatti l’esistenza di un rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione della pena. Sino a quando l’esecuzione della pena è in atto il rapporto esecutivo non può dirsi esaurito e gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e dunque possono e devono essere rimossi.
Si tratta di una affermazione di indubbio rilievo sistematico e pratico, posto che viene imposta al giudice della esecuzione una verifica di “rilevanza” del decisum della Corte Costituzionale nel caso concreto, non potendosi intervenire sul titolo esecutivo lì dove l’effetto della norma dichiarata incostituzionale si sia in fatto esaurito per aver già dato luogo alla esecuzione della pena in modo integrale.
Nel caso oggetto dell’intervento delle Sezioni Unite ric. Gatto si trattava di valutare le ricadute della decisione n. 251 del 2012 C.Cost. attestante l’invalidità costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73 co.5 dPr 309/’90 sulla recidiva reiterata.
Si è affermato che, in tal caso, lì dove il mancato esito del giudizio di comparazione nel senso della prevalenza sia dipeso dal divieto di legge rimosso (art. 69 co.4 cod.pen.) l’esecuzione della pena deve ritenersi illegittima sia sotto il profilo oggettivo, in quanto derivante dall’applicazione di una norma di diritto penale sostanziale dichiarata incostituzionale dopo la sentenza irrevocabile, sia sotto il profilo soggettivo, in quanto, almeno per una parte, non potrà essere positivamente finalizzata alla rieducazione del condannato imposta dalla previsione dell’art. 27, comma 3, Cost..
Infatti, l’illegittimità della pena costituisce un ostacolo al perseguimento di tali obiettivi rieducativi, perché sarà avvertita come ingiusta da chi la sta subendo, per essere stata non già determinata dal giudice nell’esercizio dei suoi ordinari e legittimi poteri, ma imposta da un legislatore che ha violato la costituzione. A tutto questo occorreva aggiungere, secondo affermato nello stesso arresto giurisprudenziale, che “il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato, sicché devono essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all’applicazione di tale norma incidente sulla determinazione della sanzione, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile”.
Quanto ai poteri del giudice dell’esecuzione, le Sezioni Unite hanno evidenziato due aspetti di particolare rilievo, che è bene riprendere:
– il limite del “fatto accertato” nella pronunzia di cognizione non può essere superato, nel senso che – in rapporto al tema oggetto della decisione – il giudice della esecuzione potrà pervenire al giudizio di prevalenza della circostanza attenuante (prima inibito) sempre che lo stesso non sia stato precedentemente escluso nel giudizio di cognizione per ragioni di merito (indipendenti dalla esistenza, allora, del divieto di legge e valorizzate come tali);
– il potere di verifica della legittimità del trattamento sanzionatorio va esteso agli ulteriori accadimenti medio tempore incidenti sulle norme applicate, all’epoca, dal giudice della cognizione (vi è riferimento espresso alle ricadute della decisione n. 32 del 2014 sui contenuti della legge n.49 del 2006, di conversione del d.l. n.272 del 2005).
Sulla scorta di questa ricostruzione sistematica, le Sezioni unite affermavano i seguenti principi di diritto:
“successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione”;
“per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n.251 del 2012.. il giudice dell’esecuzione potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73 co.5 dPR n. 309 del 1990 sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile”.
4. Ora, alla luce di tali affermazioni, è evidente che – come già ritenuto da questa Corte anche in rapporto alla fase esecutiva (si vedano, tra le altre Sez. I n. 53019 del 4.12.2014 e Sez. I n. 2492 del 2015) – la pena inflitta in riferimento a delitti afferenti sostanze stupefacenti, nell’ipotesi di droghe c.d. leggere, commessi durante la vigenza della normativa dichiarata incostituzionale (in rapporto alla parificazione del disvalore del fatto tra smercio di droghe pesanti e di droghe leggere) va rideterminata in sede esecutiva, lì dove ricorrano alcune condizioni.
Il giudice dell’esecuzione, in particolare, è tenuto a compiere le seguenti valutazioni:
a) verifica dell’incidenza concreta della decisione irrevocabile, all’atto della domanda, sulla libertà personale per essere in effettiva esecuzione la pena derivante – anche in parte – da norma di diritto sostanziale dichiarata incostituzionale;
b) in caso positivo, ricostruzione del contenuto della decisione irrevocabile nel senso della “concreta incidenza” sul trattamento sanzionatorio determinato in sede di cognizione della specifica norma dichiarata incostituzionale e dunque rimossa dall’ordinamento con efficacia ex tunc;
c) in caso positivo, rideterminazione del trattamento sanzionatorio tenendo conto
della compiuta ricostruzione del fatto nonché delle norme applicabili al momento della decisione in punto di commisurazione della sanzione.
Tra dette ultime norme, peraltro, andranno considerate – in rapporto alla qualità delle sostanze stupefacenti – le stesse norme incriminatrici, interessate dalla pronunzia di illegittimità costituzionale (nel caso di specie la n. 32 del 12 febbraio 2014).
Come è noto, con tale decisione è stata oggetto di declaratoria di incostituzionalità la novellazione apportata con decreto legge n. 272 del 30.12.2005 (artt. 4 bis e 4 vicies ter) convertito in legge n. 49 del 21 febbraio 2006 all’originario testo dell’art. 73 del dPr n. 309 del 1990.
L’effetto della pronunzia di incostituzionalità è stato quello di “riespandere” per i fatti commessi dal 28 febbraio 2006 al 6 marzo 2014 la previgente disciplina incriminatrice e le correlate diverse sanzioni (fermo restando che per l’ipotesi di fatti di lieve entità il limite temporale finale va anticipato al 23 dicembre 2013, essendo il giorno seguente entrata in vigore diversa e autonoma disciplina normativa introdotta dal decreto legge n.146 del 2013).
Lì dove, pertanto, il soggetto destinatario della esecuzione sia stato condannato per fatto rientrante in detto intervallo temporale è da ritenersi “esportabile” il contenuto delle affermazioni operate dalla decisione emessa dalle Sezioni Unite prima ricordate (come del resto evidenziato nella motivazione di tale sentenza) al caso della “abrogazione” del trattamento sanzionatorio vigente all’epoca della decisione perché contrario a norme costituzionali.
5. Va ribadito, inoltre, che la comparazione tra le fasce edittali previste dalla normativa dichiarata incostituzionale e quelle previgenti (e riattivatesi per effetto della pronunzia di incostituzionalità) porta a ritenere in ogni caso “illegale” il trattamento sanzionatorio inflitto in ipotesi di condotta illecita concernente le droghe c.d. “leggere” (ossia le sostanze rientranti nelle tabelle II e IV allegate al dPR del 1990) posto che in relazione a tali sostanze l’intervento normativo dichiarato illegittimo aveva comportato (a differenza di quanto previsto per le altre sostanze) un massiccio incremento dei limiti edittali della sanzione detentiva: il minimo edittale della condotta ordinaria era stato innalzato da 2 a 6 anni, quello della condotta attenuata da sei mesi a 1 anno; il massimo edittale era stato innalzato da 6 a 20 anni nell’ipotesi ordinaria e da 4 a 6 anni per l’ipotesi attenuata.
Ora, posto che l’operazione di cui agli artt. 132 e 133 cod.pen. – commisurazione della pena – è frutto di una scelta che il giudice della cognizione compie, con discrezionalità guidata, in un ambito legislativamente definito tra il minimo e il massimo edittale (circa la necessità di effettiva spiegazione dell’incidenza degli indici di commisurazione, specie in ipotesi di superamento dei minimi edittali, tra le molte, Sez. II 9.10.1992, rv 192645; Sez. VI n. 35346 del 12.6.2008, rv 241189) è evidente che il profondo mutamento di “cornice” derivante dalla declaratoria di incostituzionalità rende necessaria – sempre in ipotesi di condanna per “droghe leggere” – una rivalutazione piena di tale aspetto, qui in sede esecutiva, che va compiuto tenendosi conto del “fatto” così come accertato in cognizione ma non anche dei termini matematici espressi da tale giudice (in rapporto alla scelta tra minimo e massimo edittale) in una condizione in realtà “alterata” dalla adozione di un criterio legislativo (legge del 2006) teso a “parificare” il disvalore di condotte tra loro diverse (in rapporto alla tipologia di sostanze oggetto delle condotte).
Con ciò si intende affermare che se da un lato risulta doverosa ed obbligatoria, alla luce di quanto sopra, la “rideterminazione” in sede esecutiva della pena inflitta in rapporto ad una squilibrata (e costituzionalmente illegittima) cornice edittale, dall’altro non può escludersi che – con valutazione in concreto e rispettosa del “fatto accertato” – il giudice dell’esecuzione possa rivalutarne la valenza in rapporto ai “nuovi” e profondamente diversi parametri edittali, ovviamente dando conto (ex artt. 132 e 133 cod.pen.) delle modalità di esercizio del potere commisurativo e tenendo conto dei principi generali del sistema sanzionatorio (tra cui quello per cui non può essere aumentata l’afflittività della pena stabilita nella sentenza di condanna).
5. Quanto al fatto che la decisione posta a monte – nel caso in esame – è stata emessa ai sensi dell’art. 444 cod.proc.pen. le recenti decisioni Sez. U. ric. Jazouli e ric. Marcon, del 26 febbraio 2015, come si evince dai contenuti delle informazioni provvisorie num. 5 e num. 6 del 2015 hanno confermato l’orientamento sin qui esposto, affermando in particolare che:
a) la pena applicata con sentenza di “patteggiamento” sulla base della normativa dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale va rideterminata, anche nel caso in cui la stessa rientri nella nuova cornice applicabile;
b) la pena suddetta va rideterminata attraverso la l’”inegoziazione” dell’accordo tra le parti, ratificato dal giudice dell’esecuzione, che viene interessato attraverso l’incidente di esecuzione attivato dal condannato o dal pubblico ministero;
c) in caso di mancato nuovo accordo tra le parti il giudice della esecuzione provvede alla rideterminazione della pena in base ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod.pen..
Dette indicazioni, data la loro estrema chiarezza, consentono di adottare la presente decisione – pur in attesa del deposito della motivazione delle due sentenze – trattandosi del logico sviluppo, al settore qui considerato, delle opzioni interpretative già espresse da questa I Sezione della Corte (tra cui Sez. I n. 53019 del 4.12.2014 e Sez. I n. 2492 del 2015) in ipotesi di titolo esecutivo derivante da decisione diversa da quella ex art. 444 c.p.p.. È pertanto del tutto evidente che le Sezioni Unite, condividendo detta impostazione teorica, hanno esclusivamente precisato che in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti il giudice dell’esecuzione dovrà verificare in primis la fattibilità di un nuovo accordo tra le parti (data la nullità del precedente “patto”, nel cui ambito era stata determinata la pena nell’ambito di una cornice edittale prevista da norma dichiarata incostituzionale) e soltanto ove non si addivenga a tale accordo sarà funzionalmente competente a rideterminare la sanzione in via autonoma ed in applicazione dei criteri generali di cui agli artt. 132 e 133 cod.pen..
Il procedimento seguito nel caso qui scrutinato non rispetta tali cadenze e ciò determina la nullità della decisione per violazione del contraddittorio, oltre alla considerazione per cui in caso di mancata “rinnovazione” del patto il giudice dell’esecuzione è tenuto non già ad effettuare una mera valutazione di “congruità” della pena oggetto di precedente applicazione concordata, ma a realizzare una nuova ed autonoma valutazione – nell’ambito della cornice edittale ripristinata a seguito della declaratoria di incostituzionalità – dando conto in motivazione delle modalità di determinazione ai sensi degli articoli 132 e 133 cod.pen..
Va pertanto, nel caso in esame, disposto l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al GIP del Tribunale di Palermo.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al GIP del Tribunale di Palermo.

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