SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I
SENTENZA 22 gennaio 2014, n. 1277
Svolgimento del processo
1 – Con atto di citazione del 16 settembre 2002 il sig. V.B. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Torino la sig.ra E.A. , assumendo di aver intrattenuto una relazione con la stessa, la quale lo aveva seguito in Cina, dove egli era stato distaccato per ragioni di lavoro e dove avevano instaurato una convivenza more uxorio, durata cinque anni, nel corso della quale era anche nato un figlio. Alla fine di tale periodo le parti, con due distinte scritture del 19 gennaio 1998, avevano regolato i loro rapporti di natura patrimoniale, con assunzione di obblighi da parte del V. tanto nei confronti della ex convivente, quanto in relazione al mantenimento del figlio, che rimaneva affidato alla madre. Tali accordi nulla prevedevano in merito alla destinazione di somme che, in più riprese, l’attore aveva versato su un conto corrente dell’E. , per un ammontare complessivo di lire 120.950.000, allo scopo – secondo quanto dallo stesso prospettato – di realizzarne una gestione maggiormente redditizia.
Chiedeva pertanto il V. che la convenuta fosse condannata a rendere il conto in relazione a tale mandato e a corrispondere la somma risultante; in via subordinata la condanna alla restituzione veniva avanzata a titolo di gestione di affari, ovvero di arricchimento senza giusta causa.
1.1 – L’E. , costituitasi, contestava la fondatezza della domanda, in quanto l’erogazione della somma pretesa in restituzione non sarebbe stata effettuata in virtù di un mandato ad amministrare i risparmi del convivente, bensì in adempimento di obbligazione naturale sorta nell’ambito della convivenza more uxorio e relativa, in particolare, alla creazione di una disponibilità finanziaria in proprio favore, anche per compensare la perdita del reddito derivante dall’attività di dirigente di un’importante società, pari, all’epoca, a circa undici milioni di lire mensili, cui aveva rinunciato per seguire in Cina il V. .
1.2 – In via riconvenzionale la convenuta, lamentando il mancato adempimento da parte dell’ex convivente delle obbligazioni assunte in data 19 gennaio 1998, ne chiedeva la condanna al pagamento delle somme dovute a tale titolo.
1.3 – Con sentenza depositata il 2 febbraio 2005 il Tribunale adito, dichiarata inammissibile la domanda riconvenzionale dell’E. , accoglieva la pretesa del V. ritenendola fondata – previa esclusione della ricorrenza di un mandato ad amministrare, ovvero di una negotiorum gestio – sotto il profilo dell’arricchimento senza causa.
Veniva in particolare rilevato che le erogazioni effettuate dall’attore durante la convivenza non potevano trovare giustificazione come adempimenti di obblighi morali e sociali, poiché gli stessi (considerata la posizione dei conviventi, tenuto conto delle rispettive condizioni economiche, su un piano di parità, reciprocità e collaborazione), risultavano assolti dal V. per aver provveduto a vitto, alloggio e mantenimento durante la convivenza, e, dopo di essa, attraverso le obbligazioni assunte con la scrittura del gennaio 1998.
Il giudizio di inammissibilità della domanda riconvenzionale veniva formulato, da un lato, in base al fatto che tale pretesa era stata già azionata in separato giudizio e, dall’altro, in relazione alla sua genericità ed alla carenza di valido titolo, essendo fondata sull’adempimento di doveri morali e sociali.
1.4 – Avverso tale decisione proponeva appello l’E. , rappresentando che l’obbligazione naturale sulla quale si fondava la propria eccezione era rappresentata dalla deteriore condizione, sotto il profilo economico, derivante dalla propria rinuncia alla carriera, in presenza di una situazione debitoria nota al V. , il quale, per sopperirvi, aveva destinato una minima parte delle proprie entrate, pari a circa il dieci per cento, a procurare alla convivente, nell’ambito dei rapporti di solidarietà instauratisi con la convivenza more uxorio, non solo vitto e alloggio, ma anche una disponibilità finanziaria per far fronte alle proprie esigenze.
Si deduceva, quanto al rigetto della domanda riconvenzionale, che il Tribunale aveva equivocato fra le due scritture sottoscritte nel gennaio 1998, in quanto nel separato giudizio sarebbe stata fatta valere soltanto quella inerente agli obblighi relativi al mantenimento della prole. Inoltre, derivando tale obbligazione da un impegno di natura negoziale, doveva escludersi che essa fosse riconduci-bile nell’ipotesi prevista dall’art. 2034 c.c..
1.5 – La Corte di appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettava il gravame nella parte inerente all’adempimento di obbligazione naturale, confermando, al riguardo, il giudizio espresso dal Tribunale. Veniva rilevato, con riferimento alle somme di cui si chiedeva la restituzione, che non si poteva trattare di una sorta di indennizzo per la rinuncia alla carriera, non risultando che tale scelta fosse stata in qualche maniera suggerita o richiesta dal V. e non fosse, al contrario, il frutto di una libera valutazione dell’E. . Non si poteva ritenere, inoltre – non essendo stati effettuati versamenti periodici, ma essendosi versate delle somme di danaro in maniera sporadica – che potesse trattarsi di un’integrazione di quanto versato per il mantenimento dell’appellante durante la convivenza in Cina.
La censura inerente al rigetto della domanda riconvenzionale veniva giudicata inammissibile, sotto il profilo della carenza di specificità.
1.6 – Per la cassazione di tale decisione l’E. propone ricorso, affidato a cinque motivi, cui il V. resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
2 – Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2034 e 770 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c, sostenendosi che la corte territoriale, nell’ambito di una interpretazione riduttiva dei doveri morali e sociali ravvisabili nelle relazioni “more uxorio”, avrebbe erroneamente escluso che i versamenti di somme da parte del V. , pari a circa un decimo dei propri emolumenti, in favore della propria convivente, la quale per seguirlo in Cina aveva rinunciato a un’attività ben remunerata, potessero costituire adempimento di detti obblighi. Viene formulato il seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se, in caso di convivenza more uxorio, la parte che risulti disporre di un reddito elevato adempia a un dovere morale e sociale ai sensi dell’art. 2034 del codice civile quando provvede alle esigenze del convivente che risulti privo di reddito proprio (avendo rinunciato a un posto di lavoro in funzione della convivenza), anche attraverso l’erogazione di somme di denaro che risultino costituire una modesta porzione (nel caso di specie circa il dieci per cento) dei propri guadagni e del reddito cui ha rinunciato il convivente più debole sul piano patrimoniale”.
2.1 – Con il secondo mezzo, deducendo, con puntuale formulazione del prescritto momento di sintesi, vizio di omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c, la ricorrente si duole della carenza di adeguate argomentazioni circa l’esclusione della dedotta sussistenza di un dovere ricavabile dalla morale sociale nella situazione illustrata nella precedente censura.
2.2 – Con il terzo motivo l’E. , indicando chiaramente il fatto controverso, denuncia vizio di motivazione in relazione alla esclusione dei requisiti di proporzionalità ed adeguatezza dell’obbligazione naturale, rappresentando che la stessa non poteva ritenersi logicamente adempiuta soltanto con l’assunzione, al momento della cessazione della convivenza, di obblighi (dei quali contraddittoriamente la stessa Corte avrebbe altrove escluso la natura vincolante) relativi al pagamento del prezzo della casa e di debiti contratti dalla ricorrente (laddove la natura non satisfattiva di obblighi morali dei precedenti versamenti, dai quali sarebbero quindi sorti dei crediti, avrebbe condotto a una mera compensazione). Né le consistenze patrimoniali della ricorrente – per altro acquisite in epoca anteriore all’instaurazione della convivenza – avrebbero dovuto essere valutate ai fini dell’insussistenza della dedotta obbligazione naturale.
3- I suesposti motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in relazione alla loro intima connessione, sono meritevoli di accoglimento.
3.1 – Vale bene preliminarmente rilevare l’infondatezza dell’eccezione sollevata dal controricorrente relativamente alla formazione del giudicato interno tanto in ordine alle insussistenza degli obblighi morali scaturenti dalla convivenza, per non essere stata censurata l’affermazione, contenuta nella decisione di primo grado, circa la necessità di valutare gli obblighi morali nascenti da convivenza “more uxorio” su un piano di parità e reciprocità, quanto in relazione al rilievo della corte territoriale dell’assenza, al riguardo, di specifici motivi di impugnazione.
Invero costituisce capo autonomo della sentenza -come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato interno – solo quello che risolva una questione controversa tra le parti, caratterizzata da una propria individualità e una propria autonomia, sì da integrare, in astratto, gli estremi di un “decisum” affatto indipendente, ma non anche quello relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (Cass., 30 ottobre 2007, n. 22863; Cass., 6 agosto 2002, n. 11790). In altri termini, il giudicato non si forma su una mera affermazione contenuta nella sentenza, che non sia stata specificamente censurata, bensì su un punto della decisione che potrebbe formare, in astratto, l’oggetto di separato giudizio, e che non sia inscindibilmente collegato, come nella specie, alla pronuncia indicata nel dispositivo, di tal che l’impugnazione della stessa è sufficiente a escludere qualsiasi forma di acquiescenza (cfr. anche la recente Cass., 8 gennaio 2013, n. 247, nonché Cass., 20 agosto 2003, n. 12267).
Non sembra, pertanto, che possa seriamente negarsi che l’E. , impugnando la pronuncia contenente il rigetto della propria eccezione fondata sull’art. 2034 c.c., abbia così contestato anche l’affermazione, del resto, dotata di mera valenza argomentativa, relativa alla necessità di un rapporto paritario fra conviventi. Valenza argomentativa, per il vero, dotata di scarsa efficacia, in quanto solo una lettura distorta del fondamento dell’eccezione – basata sulla mutua assistenza fra conviventi, indipendentemente dal genere conduce a ravvisarvi l’evocazione del “dovere unilaterale dell’uomo verso la donna” (cfr., ad esempio, Cass., 26 gennaio 1980, n. 651, in tema di adempimento di obbligazione naturale ravvisata nella dazione di danaro da una donna a un uomo in occasione della cessazione della loro relazione sentimentale).
3.2 – Tanto premesso, non può omettersi di considerare come le unioni di fatto, nelle quali alla presenza di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale si associa l’assenza di una completa e specifica regolamentazione giuridica, cui solo l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale ovvero una legislazione frammentaria talora sopperiscono, costituiscano il terreno fecondo sul quale possono germogliare e svilupparsi quei doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione ed al cui spontaneo adempimento consegue l’effetto della “soluti retentio”, così come previsto dall’art. 2034 c.c..
3.3 – Deve richiamarsi, in primo luogo, l’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo (cfr., ex multis, sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft contro Austria) in merito all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, in base alla quale deve ritenersi che la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio.
3.4 – A tale indirizzo corrisponde un orientamento inteso a valorizzare il riconoscimento, ai sensi dell’art. 2 Cost., delle formazioni sociali e delle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (così già Corte cost. n. 237 del 1986), nelle quali va ricondotta ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (Corte cost., n. 138 del 2010; cfr. anche Corte cost. n. 404 del 1988, con cui il convivente more uxorio fu inserito tra i successibili nella locazione, in caso di morte del conduttore). In tale nozione si è ricondotta la stabile convivenza tra due persone, anche dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri (cfr. la citata Corte cost., n. 138 del 2010, Cass., 15 marzo 2012, n. 4184).
3.5 – Nella stessa legislazione nazionale, ancorché in maniera disorganica, e ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, sono emersi segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Sotto tale profilo, e senza pretesa di completezza, vale bene richiamare la recente legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita ogni residua discriminazione tra figli “legittimi” e “naturali”; la legge 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo il c.d. affidamento condiviso, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la 1. 19 febbraio 2004, n. 40, che all’art. 5 prevede l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la l. 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di cui all’art. 408 c.c., per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonché, all’art. 5, prevedere, in relazione all’art. 417 c.c., che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; la l. 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il regime di protezione contro gli abusi familiari; la l. 28 marzo 2001, n. 149, art. 7, che, sostituendo l’art. 6, comma 4, della l. 4 maggio 1983, n. 184, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
3.6 – Anche nella giurisprudenza di questa Corte si rinvengono significative pronunce in cui la convivenza more uxorio assume il rilievo di formazione sociale dalla quale scaturiscono doveri di natura sociale e morale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, da cui discendono, sotto vari aspetti, conseguenze di natura giuridica.
Mette conto di richiamare, nel solco di un più ampio riconoscimento delle posizioni soggettive sotto il profilo risarcitorio (Cass., 22 luglio 1999, n. 500; Cass., 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828; Cass., 11 novembre 2008, n. 26972 e ss.), l’affermazione della responsabilità aquiliana sia nei rapporti interni alla convivenza (Cass., 15 maggio 2005, n. 9801), sia nelle lesioni arrecate da terzi al rapporto nascente da un’unione stabile e duratura (Cass., 21 marzo 2013, n. 7128; Cass., 16 settembre 2008, n. 23725). In altre pronunce si è attribuita rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento o di quello di divorzio (Sez. 1, 10 novembre 2006, n. 24056; Sez. 1, 10 agosto 2007, n. 17643; Sez. 1, 11 agosto 2011, n. 17195; Sez. 1, 12 marzo 2012, n. 3923); di recente, ancora, muovendo dal rapporto di detenzione qualificata dell’unita abitativa, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, si è affermato che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (Cass., 21 marzo 2013, n. 7214).
4- I doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione sociale costituita dalla convivenza more uxorio refluiscono, secondo un orientamento di questa Corte ormai consolidato, sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza (Cass., 15 gennaio 1969, n. 60; Cass., 20 gennaio 1989, n. 285; Cass., 13 marzo 2003, n. 3713; Cass., 15 maggio 2009, n. 11330).
A tale indirizzo, che il Collegio condivide ed al quale intende, anzi, dare continuità, non si è conformata la Corte di appello, la quale ha escluso la ricorrenza degli effetti previsti dall’art. 2034 c.c. sulla base di una serie di rilievi incongrui, fornendo argomentazioni non adeguate e talora contraddittorie.
4.1 – Nella sentenza impugnata si osserva in primo luogo che non risulta che le dimissioni dell’E. siano state in qualche modo suggerite o determinate dal V. , anziché costituire il frutto di un’autonoma scelta della prima, che avrebbe inteso “anteporre l’amore alla carriera”, di talché eventuali pregiudizi di natura economica non sarebbero imputabili, neppure sul piano etico, all’uomo. Si attribuisce in tal modo alla nozione di obbligazione naturale fra conviventi una valenza marcatamente indennitaria che, soprattutto quando le dazioni siano avvenute, come nella specie, non alla fine del rapporto, ma nel corso di esso, non le appartiene, in quanto l’assistenza materiale fra conviventi, nel rispetto – come si dirà – dei principi di proporzionalità e adeguatezza – può affermarsi indipendentemente dalle ragioni che abbiano indotto l’uno o l’altro in una situazione di precarietà sul piano economico. Eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno intese, invero, come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo che non può non implicare, pur senza la cogenza giuridica di cui all’art. 143, comma 2, c.c., forme di collaborazione, e, per quanto qui maggiormente interessa, di assistenza morale e materiale. La sentenza impugnata finisce per confondere la spontaneità dell’esecuzione dei doveri morali e sociali prevista dall’art. 2034 c.c. con l’iniziativa inerente al determinarsi della situazione nella quale detti doveri – dei quali pertanto costituisce soltanto una premessa – trovano la loro scaturigine: allo stesso modo dovrebbe paradossalmente escludersi la soluti retentio del pagamento del debito di gioco, previsto dall’art. 1933, secondo comma, c.c. come ipotesi tipica di obbligazione naturale, nel caso in cui la scelta di partecipare al gioco sia stata assunta in piena autonomia dal perdente che abbia poi onorato il proprio debito.
4.2 – Per quanto attiene alla qualificazione delle dazioni che costituiscono l’oggetto della controversia, deve in questa sede ribadirsi che non può prescindersi, nell’esaminare la ricorrenza o meno di un adempimento effettuato in virtù di doveri sociali e morali, dall’ambiente socio economico cui appartengono le parti, nonché da un esame della concreta situazione in cui i pretesi adempimenti risultano effettuati.
Sotto tale profilo, mentre il riferimento, al fine di escludere la contribuzione ad esigenze personali della E. , alla percezione di “vitto e alloggio” costituisce un argomento poco felice e mortificante che non necessita di ulteriori commenti, deve rilevarsi, da un lato, che non risultano adeguatamente considerate le condizioni sociali ed economiche della parti e, dall’altro, che il rilievo attribuito agli accordi di natura economica stipulati al momento della cessazione della convivenza assume, come correttamente denunciato dalla ricorrente, aspetti incongrui dal punto di vista logico, se non addirittura contraddittori.
4.3 – Quanto alla prima questione, non risulta contestato che l’E. , per seguire in Cina il V. , aveva rinunciato alla propria carriera, comportante, fra l’altro, la percezione di un reddito molto elevato: sotto tale profilo non rileva che le somme in questione, che nella stessa decisione impugnata vengono rapportate, in media, a versamenti mensili di lire 1.650.000, non siano state corrisposte in Cina con tale cadenza, ma accreditate in Italia su un conto corrente bancario della convivente. La giustificazione causale delle dazioni, che la stessa corte territoriale sembra individuare nella necessità di soddisfare “debiti personali precedentemente contratti dalla sig.ra E. “, lungi dal richiedere – come pure sostenuto nella sentenza impugnata – un negozio giuridico di accollo, ben può essere ricondotta in quell’assistenza morale e materiale fra conviventi sopra menzionata (laddove il dovere di prestare aiuto alla persona convivente affinché adempia alle proprie obbligazioni dovrebbe assumere, sempre nell’ambito dei doveri morali e sociali, un carattere ben più cogente rispetto alla mera contribuzione economica per l’acquisto di beni di consumo pur adeguati a un alto tenore di vita). Il discrimine fra l’adempimento dei doveri sociali e morali, quale può individuarsi in qualsiasi contributo fra conviventi, destinato al “menage” quotidiano ovvero espressione, come nella specie, della solidarietà fra persone unite da un legame intenso e duraturo, e l’atto di liberalità va individuato, oltre che nella spontaneità, soprattutto nel rapporto di proporzionalità fra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare. Tale requisito, unanimemente riconosciuto dalla dottrina in relazione alle cc.dd. obbligazioni naturali in generale, è stato ribadito da questa Corte proprio con riferimento all’adempimento di doveri morali e sociali nella convivenza more uxorio (cfr. la citata Cass. n. 3713 del 2003). Tale indagine, ove si prescinda da un irrilevante riferimento alle per altro non cospicue consistenze patrimoniali della donna, non è stata effettuata da parte della corte territoriale – ed a tanto dovrà pertanto provvedersi in sede di rinvio – pur a fronte della deduzione dell’E. circa la relativa esiguità, in rapporto alle capacità patrimoniali e reddituali del V. , delle contribuzioni in esame.
4.4 – Il riferimento, poi, alle obbligazioni derivanti dalla scrittura in data 19 gennaio 1998 assume aspetti del tutto contraddittori, sia perché il negozio con cui si provvede a regolare gli aspetti inerenti ai rapporti conseguenti alla cessazione della convivenza prescinde, di regola, dalle precedenti dazioni intervenute nel corso della convivenza stessa (in caso contrario, la ritenuta ricorrenza di un obbligo di restituzione avrebbe comportato, anziché l’assunzione di obblighi futuri, il ricorso a meccanismi di compensazione), sia perché un’obbligazione assunta in funzione di adempimento di doveri morali e sociali è intrinsecamente priva di coercibilità.
5 – Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla statuizione di inammissibilità del gravame relativo alla domanda riconvenzionale già proposta dalla stessa E. , per litispendenza, per non aver la corte territoriale considerato che nell’atto di appello erano ben specificate le diverse previsioni contenute nelle due scritture sottoscritte in data 19 gennaio 1998, con la precisazione che quella già azionata aveva ad oggetto un regolamento negoziale ben diverso da quello posto a base della domanda svolta, in via riconvenzionale, nel giudizio davanti al Tribunale di Torino.
5.1 – La questione di cui al motivo precedente viene riproposta, con l’ultima censura, sotto il profilo dell’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c..
5.2 – I motivi sopra indicati, da esaminarsi congiuntamente in virtù della loro connessione, sono inammissibili.
Essi, infatti, attribuendo alla corte territoriale l’omesso esame della questione inerente alla sussistenza o meno della litispendenza affermata dal primo giudice, non colgono in alcun modo la complessità della ratio decidendi della decisione impugnata, che ha rilevato, per altro con ampia ed esauriente motivazione, l’inammissibilità del motivo di gravame relativo alla domanda riconvenzionale, per carenza di specificità ai sensi dell’art. 342 c.p.c., per non aver espressamente censurato il punto inerente alla proposizione o meno della domanda in altro giudizio, affrontando – come, del resto, è avvenuto in questa sede – la questione dell’esistenza o meno di due titoli giuridici, anziché quella, “di ordine processuale, se la medesima domanda fosse stata o non già proposta in altro giudizio”.
Alla declaratoria di inammissibilità dei motivi in esame (il secondo, poi, propone un vizio motivazionale in merito a una violazione di natura processuale, la cui ricorrenza va accertata indipendentemente dalle ragioni indicate dal giudice del merito) non è ostativo il principio, di recente ribadito (Cass., Sez. un., 22 maggio 2012, n. 8077; Cass.,22 gennaio 2006, n. 24856), secondo cui in relazione alla denuncia di errores in procedendo la corte di cassazione è giudice del fatto (inteso in senso processuale) ed ha il potere – dovere di accertarlo procedendo all’esame diretto degli atti, in quanto l’esercizio di tale potere – dovere presuppone che la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito.
6 – In conclusione, previa declaratoria di inammissibilità dei restanti motivi, vanno accolti i primi tre, con rinvio alla Corte di appello di Torino, che, in diversa composizione, applicherà i principi sopra richiamati, senza incorrere negli evidenziati vizi motivazionali, provvedendo, altresì, in merito al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, il secondo ed il terzo motivo, dichiara inammissibili il quarto e il quinto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati in sentenza.
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