SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I
SENTENZA 18 settembre 2014, n. 19696
Ritenuto in fatto
La Banca di Roma s.p.a., successivamente divenuta Capitalia s.p.a, otteneva decreto ingiuntivo con il quale veniva ingiunto di pagare per l’intero ad A.L. e pro quota di un terzo ad A. e T.I. la somma di L. 93.426.768 oltre agli interessi passivi trimestralmente capitalizzati, quale saldo debitore del conto corrente aperto da S.I. presso l’Istituto bancario.
Gli eredi ingiunti proponevano opposizione deducendo la nullità del decreto opposto ed in via riconvenzionale richiedendo la restituzione degli interessi passivi e delle competenze sul massimo scoperto riscossi trimestralmente.
Il giudice di primo grado rigettava la domanda.
Gli ingiunti proponevano appello e la Corte d’Appello di Roma in parziale accoglimento dell’impugnazione affermava per quel che ancora interessa
a) la mancanza dei requisiti di legge della documentazione allegata al decreto ingiuntivo/ doveva ritenersi superata dalla produzione in corso di causa richiesta al fine di poter eseguire la disposta CTU;
b) la distruzione della documentazione anteriore ai dieci anni doveva ritenersi legittima. Era onere degli appellanti provvedere alla produzione degli estratti conto mancanti.
c) gli estratti dovevano ritenersi infatti incontestabili sotto il profilo contabile pur non escludendo i rilievi di nullità ed inefficacia relativi ai rapporti obbligatori sottostanti;
d) la commissione di massimo scoperto pur prevista in contratto non era quantificata nell’ammontare. Essa costituiva il compenso per il rischio crescente nell’utilizzo del credito e veniva liquidata a cadenza trimestrale come gli interessi passivi, pur non essendone una componente. Tale commissione non era, pertanto, dovuta dopo la chiusura del conto;
e) la clausola di capitalizzazione trimestrale doveva ritenersi nulla ed ad essa si doveva sostituire la capitalizzazione annuale;
f) la clausola relativa agli interessi convenzionali determinati per relationem alle condizioni usualmente dalle aziende di credito su piazza doveva ritenersi nulla per indeterminatezza;
g) gli interessi dovevano conseguentemente essere determinati
al saggio legale con capitalizzazione annuale;
h) era necessario procedere con separata ordinanza per
integrazione CTU.
Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione gli eredi I. e A.L. affidandosi a quattro motivi. Ha resistito con controricorso S.P.A. Capitalia. La parte ricorrente ha presentato memoria.
Motivi della decisione
Nel primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 633 cod. proc. civ. e 50 del d.lgs n. 385 del 1993 oltre che degli artt. 1832 e 1857 cod. civ. ed al vizio di motivazione per non avere la Corte d’Appello dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo in quanto fondato su un saldo conto e non su documentazione integrale.
Il motivo è inammissibile dal momento che con l’opposizione è stato instaurato un giudizio a cognizione piena nel quale è stato richiesto all’istituto bancario l’integrazione documentale necessaria per stabilire l’esistenza e l’ammontare del credito. La intervenuta revoca del decreto rende del tutto ininfluente la valutazione astratta della validità ed efficacia della documentazione nella fase monitoria, potendo e dovendo il giudice dell’opposizione procedere all’accertamento del credito secondo gli ordinari criteri dell’onus probandi.
Nel secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1832 e 1857 cod. civ. nonché il vizio di motivazione per avere la Corte d’Appello ritenuto gli opponenti gravati dell’onere di produrre gli estratti conto relativi al saldo contestato con particolare riferimento a quelli non prodotti dalla banca perché facenti parte della documentazione distrutta in quanto anteriore ai dieci anni precedenti la richiesta di decreto ingiuntivo. Al riguardo i ricorrenti hanno osservato che il decreto ingiuntivo era stato emesso il 12/5/97; il rapporto di conto corrente era stato acceso il 23/1/88 e l’opposizione era stata proposta il 9/7/97, con la conseguenza che il decennio non era neanche decorso al momento della instaurazione del giudizio.
Peraltro, il termine decennale è previsto solo come limite temporale ai fini dell’obbligo della banca di fornire ai clienti la documentazione da essi richiesta ma non al fine di sottrarre l’istituto dall’onere di provare i propri crediti. Né tale esenzione è desumibile dall’art. 2220 cod. civ.
Nel terzo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 1831, 1832, 1857 cod. civ. nonché l’art. 24 Cost., oltre al vizio di motivazione, per avere la Corte d’Appello ritenuto accertabile la pretesa creditoria azionata sulla base degli estratti conto dal 1/1/93, omettendo quelli dal 1988 (anno di apertura del c/c) al 1992. Così operando è stato assunto un saldo iniziale non corrispondente al dovuto perché non decurtato della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e della commissione di massimo scoperto ove operata relativamente agli anni non considerati. Gli estratti conto dovevano essere prodotti dall’inizio del rapporto anche al fine di consentire agli opponenti di esaminarne le singole componenti e di esercitare in modo adeguato il proprio diritto di difesa.
I due motivi, logicamente connessi, possono essere trattati congiuntamente. Sono entrambi fondati alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, ribadito anche di recente con la sent. n. 1842 del 2011 che stabilisce
‘Nei rapporti bancari in conto corrente, la banca non può sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione, in quanto tale obbligo volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all’attività imprenditoriale non può sollevarla dall’onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore’.
Il principio, con specifico riferimento alla nullità di clausole riguardanti interessi ultralegali non dovuti, è stato affermato anche nella pronuncia n. 23974 del 2010, secondo la quale non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito, cui la banca risulta gravata.
Deve, infatti, essere precisato che l’accertata invalidità della pattuizione relativa alla capitalizzazione trimestrale impone la rideterminazione del saldo finale mediante la ricostruzione dell’intero andamento del rapporto, sulla base degli estratti conto a partire dall’apertura del medesimo. ‘La banca, quale attore in senso sostanziale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ha l’onere di produrre, non potendo ritenersi provato il credito in conseguenza della mera circostanza che il correntista non abbia formulato rilievi in ordine alla documentazione prodotta nel procedimento monitorio. (Cass. 21466 del 2013).
La Corte d’Appello, in conclusione, non ha fatto buon governo dei principi, del tutto consolidati, sopra esposti, cui dovrà attenersi in sede di rinvio, non potendo escludere dall’onus probandi posto a carico del creditore, la fase temporale che si colloca anteriormente agli ultimi dieci anni. L’accertamento dell’indebito derivante dalla nullità delle clausole relative alla capitalizzazione trimestrale degli interessi, applicata fin dall’insorgere del rapporto di conto corrente, richiede, indefettibilmente, la ricostruzione dei movimenti del conto fin dalla nascita. L’eventuale impossibilità di reperire la documentazione relativa al segmento temporale sopraindicato da parte del creditore onerato, non può riverberare sull’accertamento dell’indebito opposto dal debitore, ma esclusivamente sul residuo credito ove accertabile. Spetterà al giudice del merito valutare l’incidenza di tale deficit probatorio. La medesima nullità, colpisce, come già correttamente rilevato dalla Corte d’Appello, la commissione di massimo scoperto sia sotto il profilo dell’indeterminatezza che sotto quello dell’applicazione anche ad essa della capitalizzazione trimestrale (Cass.11772 del 2002; 8776 del 2012).
Nel quarto motivo viene dedotta la violazione dell’art. 1283 cod. civ. per avere la Corte d’Appello applicato l’anatocismo con cadenza temporale annuale, mentre la norma e l’interpretazione sistematica di essa operata dalla giurisprudenza di legittimità, vieta ogni forma di anatocismo.
Il motivo è fondato. Deve, preliminarmente rilevarsi che il rapporto di conto corrente di cui si discute si è svolto e chiuso anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 342 del 1999, (chiusura rapporto per effetto della revoca disposta dalla banca, 30/9/96) con cui è stato modificato l’art. 120 del d.Lgs. n. 385 del 1993 (Testo Unico bancario). Ad esso non è, di conseguenza, applicabile la disciplina dettata, in attuazione della richiamata normativa, dalla delibera emessa il 9 febbraio 2000 dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (Cicr), secondo la quale i contratti avrebbero dovuto prevedere la medesima cadenza periodica per la capitalizzazione degli interessi passivi e di quelli attivi. Pertanto, anche per effetto della declaratoria d’incostituzionalità del citato D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 425 del 2000, la disciplina cui occorre fare riferimento è esclusivamente quella antecedente al 22 aprile 2000 (data di entrata in vigore della menzionata delibera del Cicr). Ne consegue che la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente, in conformità all’orientamento delle sezioni unite, affermato con la sentenza n. 21095 del 2004, produce i suoi effetti fin dall’inizio del rapporto di conto corrente, anche per la fase anteriore all’affermarsi dell’orientamento che ha escluso la sussistenza di un uso normativo relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi. Da tali premesse consegue, per i rapporti conclusi entro il 2/4/2000, ‘che, dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 cod. civ. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare alcuna capitalizzazione. (S.U. 24418 del 2010, 6550 e 20172 del 2013) .
La Corte d’Appello non ha fatto buon governo di tale consolidato principio cui dovrà attenersi in sede di rinvio.
In conclusione, il primo motivo deve essere dichiarato inammissibile. Devono essere accolti i rimanenti motivi. La sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso. Dichiara inammissibile il primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente procedimento alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso nella camera di consiglio del 6 giugno 2014.
Leave a Reply