Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 16 aprile 2014, n. 8876

Ragioni in fatto e in diritto della decisione

1.- C.R. convenne il 27.03.1990 dinanzi al Tribunale di Salerno la moglie N.A. – dalla quale si era separato consensualmente il 13.5.1983 – e l’avvocato Di Fluri Vittoria, curatrice speciale del minore C.S., nato il 23.7.1982, nei cui confronti propose il disconoscimento di paternità, avendo verificato attraverso alcuni esami ematologici la fondatezza del sospetto dell’adulterio della moglie.
Il Tribunale rigettò la domanda, essendo rimasta senza effetto l’indagine genetico-ematologica, per il rifiuto della N. di sottoporre sè ed il minore ai necessari prelievi.
La Corte di appello di Salerno, con sentenza del 16.4.2002, confermò la decisione di primo grado.
Con sentenza n. 4175 del 2007 la Corte di cassazione accolse il ricorso proposto da C.R. rilevando che la Corte Costituzionale con sentenza del 6.7.2006 n. 266 aveva dichiarato illegittimo l’art. 235 c.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordinava l’esame delle prove tecniche da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
La Corte di appello di Salerno, con sentenza in data 7.5.2010, pronunciando in sede di rinvio, ha accolto la domanda di disconoscimento proposta da C.R., ordinando all’Ufficiale dello Stato civile di attribuire a S. il cognome della madre e – per quanto ancora rileva in questa sede – ha dichiarato inammissibile – perché nuova – la domanda proposta da C.S. di mantenimento del cognome C. ai sensi dell’art. 45 DPR n. 396/2000.
Contro la sentenza di appello C.S. e Adriana N. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Non hanno svolto difese gli intimati.
2.1.- Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 95 DPR n. 396/2000. Deducono che prima della sentenza della Corte costituzionale del 2006 nessuna indagine ematologica sarebbe stata possibile e la domanda di disconoscimento non avrebbe potuto superare la fase preliminare rivolta all’accertamento dell’adulterio. Talché non vi era alcuna necessità di proporre la domanda di mantenimento del cognome. Il ricorrente deduce di essere divenuto – nelle more del giudizio – ingegnere chimico affermato a livello internazionale utilizzando il cognome C., che non rappresenta un identificativo inscindibilmente connesso con la famiglia dell’autore del disconoscimento né è collegato con casato particolarmente illustre. Sarebbe applicabile lo jus superveniens.
2.2.- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 394 C.P.C. nonché vizio di motivazione. Deducono che l’art. 394 c.p.c. consente in sede di conclusioni le modifiche rese necessarie dalla sentenza della Cassazione e che solo a seguito della sentenza della Corte costituzionale e delle modifiche apportate dal Legislatore gli era consentito proporre la domanda di mantenimento del cognome.
3.- Entrambi i motivi di ricorso – esaminabili congiuntamente – sono infondati.
Ve rilevato, infatti, che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo ‘status familiae’, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stesso interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 2 Cost. – l’art. 165 del r. d. 9 luglio 1939 n. 1238, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale.
L’art. 95, comma 3, del DPR 3 novembre 2000, n. 396 ha codificato il principio enunciato con la pronuncia della Corte costituzionale, prevedendo che nell’ipotesi di rettificazione di atti dello stato civile «l’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale».
Pertanto, sin dal 1994, nel corso del giudizio di primo grado, invocando lo jus superveniens costituito dalla pronuncia della Corte costituzionale, il C. (costituito a mezzo di curatore speciale) avrebbe potuto formulare la domanda diretta al mantenimento del cognome. Ciò a prescindere dalle probabilità di accoglimento dell’azione di disconoscimento e per l’ipotesi di positivo esperimento della stessa.
Dunque, la possibilità di formularla non è dipesa dalla pronuncia della Corte costituzionale sull’art. 235 c.c. né dalla pronuncia della Cassazione.
E’ errato, peraltro, il presupposto dal quale muovono i ricorrenti: cioè l’impossibilità per il C. di richiedere l’applicazione dell’art. 95, comma 3, cit. per effetto del formarsi del giudicato sull’inammissibilità della domanda proposta in questo giudizio.
Per converso, deve essere ricordato che nel processo civile, l’irregolarità nell’introduzione di una domanda, sanzionata dall’ordinamento con l’invalidità ostativa ad una pronunzia nel merito, non è vizio che attenga all’esistenza dei presupposti di un diritto o di una azione; pertanto, in caso di omessa pronunzia nel merito su una domanda dichiarata inammissibile per vizio nella sua introduzione o notificazione, la parte interessata può denunziare l’omissione in sede di gravame, previa impugnazione della declaratoria d’inammissibilità o del rigetto in rito, ovvero coltivare la domanda in separato giudizio, posto che la rinunzia implicita alla pretesa, correlabile al mancato esperimento del gravame, ha valore meramente processuale e non sostanziale; ne consegue che, in quest’ultimo caso, non possono essere fondatamente opposte né una preclusione derivante dalla mancata impugnazione della precedente sentenza per la dichiarata inammissibilità o per il rigetto in rito, né una preclusione da giudicato sulla domanda (Sez. 1, n. 13614/2010).
Il ricorso, dunque, deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 marzo 2014

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