Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 12 settembre 2014, n. 37596
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIEFFI Severo – Presidente
Dott. DI TOMASSI Maria S. – rel. Consigliere
Dott. MAZZEI Antonella P. – Consigliere
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere
Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa in data 30.9.2013 dalla Corte di appello di Firenze;
Visti gli atti, la sentenza impugnata, il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. M. Stefania Di Tomassi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. DELEHAYE Enrico, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perche’ il reato e’ estinto per prescrizione;
udito per il ricorrente l’avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perche’ il fatto non sussiste, in via gradata l’annullamento senza rinvio per prescrizione.
2. Con sentenza in data 25.10.2010 il Tribunale di Livorno assolveva il (OMISSIS) da tale reato con la formula “il fatto non sussiste” quanto ai fatti “commessi presso gli uffici del quotidiano”, escludendo che si trattasse di luogo pubblico o aperto al pubblico, e con la formula “il fatto non e’ previsto dalla legge come reato” quanto ai fatti “commessi utilizzando l’indirizzo di posta elettronica”, ritenendo che l’invio di tale genere di messaggi non integrasse il reato contestato (sulla scorta dei principi affermati da Cass. n. 24510 del 2010).
3. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato (OMISSIS) colpevole del reato a lui ascritto e lo ha condannato alla pena di un mese di arresto.
A ragione ha osservato, con riferimento alle molestie realizzate verbalmente sul luogo di lavoro e in presenza dei colleghi, che la redazione di un giornale poteva considerarsi luogo aperto al pubblico, giacche’ si trattava di ufficio privato al quale avevano accesso sia la categoria dei dipendenti del giornale stesso sia eventuali estranei che ivi portavano notizie o chiedevano la pubblicazione di annunci (cita Cass. n. 28853 del 16.6.2009 e, con riferimento all’articolo 527 cod. pen., Cass. n. 7227 del 12.6.1984, n. 8616 del 1.6.1983, n. 9420 del 15.6.1982).
Ha quindi ritenuto che il reato doveva ritenersi altresi’ integrato dalla condotta realizzata mediante i messaggi inviati sotto pseudonimo tramite internet sulla pagina (OMISSIS) della vittima, costituente un community aperta, sul profilo della persona offesa “evidentemente accessibile a chiunque”, che per sottrarsi alle molestie aveva dovuto bloccare l’accesso da parte di quell’utente, ma cio’ aveva potuto fare solo dopo che i messaggi erano apparsi nella sua pagina.
4. Ha proposto ricorso l’imputato a mezzo del difensore, avvocato (OMISSIS), chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
4.1. Con il primo motivo denunzia violazione dell’articolo 660 cod. pen. con riguardo alla nozione accolta di luogo aperto al pubblico, segnalando: la non pertinenza dei precedenti giurisprudenziali citati; l’impossibilita’ di ricondurre la redazione del giornale in tale categoria di luoghi, in assenza del requisito della apertura al pubblico, ovvero della generale fruibilita’; la circostanza che nella redazione del giornale eventuali visitatori o utenti potevano essere ricevuti esclusivamente negli spazi a cio’ segnatamente dedicati; la esclusione nella fattispecie astratta della previsione concernente luoghi meramente esposti al pubblico.
Lamenta, in subordine, “travisamento del fatto”, ovvero mancanza di motivazione in assenza di qualsivoglia elemento fattuale che confermasse l’assunto della apertura al pubblico dei locali della redazione ove si svolsero i fatti (sottolineando come non coincide con l’apertura al pubblico la presenza di piu’ persone intranee all’ambiente di lavoro).
4.2. Con il secondo motivo denunzia violazione di legge con riferimento al requisito del mezzo telefonico, erroneamente ritenuto sussistente per le condotte realizzate tramite social network (OMISSIS). Evidenzia che il messaggio era stato inviato mediante chat-line, e non scrivendo direttamente sulla cd. “bacheca” del profilo della persona offesa, e costituiva dunque un messaggio “privato”, non avente i requisiti della pubblicita’ ed accessibilita’ a chiunque; che il blocco del mittente poteva essere attivato in piu’ modi e nessuno imponeva di visualizzare i messaggi; che la giurisprudenza di legittimita’ e’ assolutamente consolidata nel negare che il reato possa essere realizzato mediante l’uso di messaggistica elettronica.
4.3. Con il terzo motivo evidenzia il gia’ decorso termine di prescrizione, che esclude altresi’ la condanna al pagamento delle spese processuali.
4.4. Con il quarto motivo denunzia, in estremo subordine, vizi di motivazione con riferimento al diniego della sospensione condizionale della pena, senza alcuna considerazione della totale incensuratezza dell’imputato, della episodicita’ dei fatti, del tempo trascorso senza commissione di alcun altro reato, e travisando il comportamento processuale dell’imputato, che aveva in realta’ reso dichiarazioni in Questura il 9.3.2010.
2. Nel caso in esame non e’ in discussione la materiale commissione dei fatti ad opera dell’imputato, che non risulta averla mai negata, ma esclusivamente la riconducibilita’ delle due tipologie di condotte contestate – l’una consistente in molestie verbali realizzate negli uffici della redazione ove lavoravano sia l’imputato sia la persona offesa; l’altra realizzata inviando messaggi sulla pagina (OMISSIS) della persona offesa – alla fattispecie prevista dall’articolo 660 cod. pen..
Come emerge dal fatto (punti 2. e 3.), le sentenze di primo e di secondo grado sono sul punto, e per entrambe le tipologie di condotte, in netto disaccordo.
3. Con riferimento alle molestie verbali sul luogo di lavoro la sentenza di primo grado esclude nettamente che la redazione di un giornale possa considerarsi alla stregua del “luogo pubblico o aperto al pubblico” richiesto, in alternativa al mezzo telefonico, dall’articolo 660 cod. pen.. La sentenza di secondo grado e’ di opposto parere, evidenziando che la redazione di un giornale, per quanto ufficio privato, e’ luogo cui possono accedere un numero indeterminato di persone, sia dipendenti sia, soprattutto, utenti di vario genere (inserzionisti, portatori di notizie).
Al proposito la difesa, pur aderendo in via principale alla linea rigorosa sposata dal primo giudice, non esclude in via subordinata che anche presso la redazione di un giornale possano esservi spazi accessibili da esterni (dunque, dovrebbe ammettersi, da un indeterminato “pubblico”). Plausibilmente sostiene, pero’, che a tale accesso dovrebbero essere riservati appositi spazi e realisticamente osserva che nel caso in esame difetta qualsivoglia accertamento – o concreto riferimento – alla effettiva tipologia e collocazione degli spazi in cui sarebbero state realizzate le condotte in contestazione: correttamente evidenziando che non basta la presenza di alcuni colleghi di lavoro (cui fa cenno il capo d’imputazione) a trasformare un ufficio interdetto agli esterni in “luogo aperto al pubblico”.
3.1. Ora, in diritto, l’espressione “luogo pubblico o aperto al pubblico” – che, non accompagnata dalla condizione della contemporanea presenza di piu’ persone (articolo 266 c.p., ultimo cpv., n. 2) ricorre negli articoli 352, 404, 405, 660, 663, 688, 689, 690, 718, 720, 725 e 726 cpv. – secondo dottrina e giurisprudenza consolidate sta a indicare: per luogo pubblico, quello di diritto o di fatto continuativamente libero a tutti, o a un numero indeterminato di persone; per luogo aperto al pubblico, quello, anche privato, ma al quale un numero indeterminato, ovvero un’intera categoria, di persone, puo’ accedere, senza limite o nei limiti della capienza, ma solo in certi momenti o alle condizioni poste da chi esercita un diritto sul luogo.
Sicche’ la effettiva possibilita’ di considerare un luogo privato “aperto al pubblico” e’ comunque questione di fatto, perche’ dipende dalle condizioni all’accesso poste dal titolare dello ius excludendi.
3.2. Non puo’ dunque non convenirsi che, in relazione alla riconducibilita’ degli uffici della redazione alla nozione di luogo aperto al pubblico, la motivazione della sentenza impugnata non puo’ ritenersi in astratto scorretta, ma difetta della illustrazione della base fattuale a cui andava ancorata l’affermazione che i locali della redazione ove si svolsero i fatti erano aperti anche all’accesso di estranei.
4. Ad analoghe conclusioni deve giungersi con riferimento alle molestie che secondo la contestazione sarebbero state realizzate mediante l’invio di messaggi sulla pagina di (OMISSIS) in uso alla persona offesa.
Anche a proposito di detta condotta, le due sentenze apertamente divergono quanto ad assimilabilita’ del mezzo a quello telefonico, ma sostanzialmente anzitutto ricostruiscono diversamente la situazione di fatto.
Il Tribunale parla infatti di “fatti commessi a mezzo di posta elettronica” riconducendo le comunicazioni moleste alla categoria delle e.mail, in relazione alle quali puo’ ritenersi acquisito il principio della non equiparabilita’ alle comunicazioni telefoniche (cosi’, oramai tra molte, Sez. 1, n. 24510 del 17/06/2010, D’Alessandro, Rv. 247558), vuoi per la differente natura ed invasivita’ del mezzo vuoi per il rispetto del principio di legalita’.
La Corte di appello, invece, rimarca che nel caso in esame i messaggi erano stati inviati alla persona offesa tramite (OMISSIS)”: sfruttando, cioe’, una “social community aperta, e su(…) profilo evidentemente accessibile a tutti”. Considerata percio’ la immediata percepibilita’ e la diretta invasivita’ del mezzo, lo ha ritenuto equipollente a quello telefonico.
Anche per questo aspetto il ricorso contesta le conclusioni della Corte di appello con un duplice ordine di argomenti: in primo luogo negando in radice, in nome dei principi di tassativita’ e di legalita’, la possibilita’ di estendere la nozione di mezzo telefonico ai mezzi telematici di qualsivoglia genere; in secondo luogo comunque evidenziando che nel caso in esame non era vero che i messaggi molesti erano stati “postati” sulla pagina pubblica della persona offesa e che erano accessibili a tutti, essendole stati invece indirizzati nella “casella” privata.
4.1. Tuttavia, ad avviso del Collegio, ove risultasse esatta la ricostruzione della Corte di appello, la riconducibilita’ delle condotte alla fattispecie di cui all’articolo 660 cod. pen. non dipenderebbe tanto dall’assimilabilita’ della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto dalla natura stessa di “luogo” virtuale aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete, di un social network o community quale (OMISSIS).
Di fatto, sembra innegabile che la piattaforma sociale (OMISSIS) (disponibile in oltre 70 lingue, che gia’ ad agosto del 2008 contava i suoi primi cento milioni di utenti attivi, classificata come primo servizio di rete sociale) rappresenti una sorta di agora’ virtuale. Una “piazza immateriale” che consente un numero indeterminato di “accessi” e di visioni, resa possibile da un evoluzione scientifica, che certo il legislatore non era arrivato ad immaginare. Ma che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunita’ sociale, la sua ratio impone anzi di considerare.
4.2. Vi e’ pero’ che, pure per quanto riguarda tale parte di condotte, la sentenza impugnata fa difetto nel dare conto della base fattuale. Parlando di invio del messaggio sul “profilo evidentemente accessibile a tutti” della persona offesa sembrerebbe, anzi, dare per scontato un aspetto che andava invece verificato, o del quale occorreva comunque dare conto nello specifico: quello appunto relativo all’inserimento dei post molesti sulla pagina pubblica della giornalista.
5. L’annullamento con rinvio al fine di meglio verificare o chiarire gli aspetti di fatto evidenziati, e’ tuttavia reso impossibile, ex articolo 129 c.p.p. e articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera a), dalla oramai intervenuta prescrizione del reato contravvenzionale contestato, commesso sino a novembre 2008. Per esso, infatti, il termine massimo di prescrizione, di cinque anni, in assenza di sospensioni e’ venuto a scadenza a novembre 2013 (subito dopo la sentenza impugnata).
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza rinvio perche’ il reato e’ estinto per prescrizione.
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