Corte di Cassazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

S.U.P.

SENTENZA 7 maggio 2014, n.18821

 

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 18 luglio 1998 della Corte di assise di Catania, E.S. era stato condannato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, perché dichiarato colpevole di due omicidi volontari e della connessa violazione della normativa sulle armi.

Tale decisione era intervenuta in un momento nel quale non era consentito l’accesso al giudizio abbreviato per i reati punibili con la pena dell’ergastolo: il testo originario dell’art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., che pur prevedeva l’accesso al rito alternativo per tali reati, era stato, infatti, dichiarato incostituzionale, per eccesso di delega, con sentenza n. 176 del 1991 della Corte costituzionale.

Nel corso del successivo giudizio d’appello, era entrata in vigore (2 gennaio 2000) la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1, lett. b), aveva aggiunto, dopo il primo periodo del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., il seguente: “Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta”, reintroducendo così la possibilità, per il soggetto imputato di reati punibili con la pena perpetua, di accedere al rito abbreviato.

L’E. , avvalendosi della riapertura dei termini, disposta dall’art. 4-ter della legge 5 giugno 2000, n. 144, di conversione del d.l. 7 aprile 2000, n. 82, alla udienza del 12 giugno 2000, prima utile successiva alla data di entrata in vigore (8 giugno 2000) della richiamata legge di conversione, aveva chiesto procedersi con il rito alternativo, per effetto del quale, a quella data, la pena dell’ergastolo, con o senza isolamento diurno, andava sostituita, in caso di conferma della condanna, con quella di anni trenta di reclusione.

Prima della conclusione del giudizio d’appello, però, era entrato in vigore il d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4), il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica al secondo periodo del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., disponeva che l’espressione “pena dell’ergastolo” ivi adoperata doveva “intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno” ed inseriva all’interno dello stesso comma un terzo periodo, secondo il quale “Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo”.

La Corte di assise di appello di Catania, con sentenza del 10 luglio 2001 (irrevocabile il 14 novembre 2003), nel confermare il giudizio di colpevolezza, aveva inflitto all’E. , in applicazione di quanto previsto dal citato art. 7 d.l. n. 341 del 2000, la pena dell’ergastolo.

2. Il Tribunale di Spoleto, quale giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 13 settembre 2011, rigettava l’istanza del condannato finalizzata, ai sensi degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., alla sostituzione della pena dell’ergastolo con quella temporanea di anni trenta di reclusione.

Il condannato, a sostegno della propria istanza, dopo avere sottolineato che, al momento della richiesta di giudizio abbreviato (12 giugno 2000), il testo vigente dell’art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., introdotto dalla legge n. 479 del 1999, prevedeva la pena temporanea in luogo dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno), evocava i principi affermati con la sentenza della Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia, vale a dire la natura sostanziale, con riferimento alla previsione del trattamento sanzionatorio, della richiamata norma, l’illegittimità dell’applicazione retroattiva della sanzione più severa prevista dal d.l. n. 341 del 2000, entrato in vigore il 24 novembre 2000, la violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 della Convezione Europea dei diritti dell’uomo e del diritto a un processo equo di cui al precedente art. 6 della stessa Convenzione, per inferirne che era “necessario assicurare omogeneità e coerenza nell’ambito dell’ordinamento costituito dal sistema multilivello del quale il sistema convenzionale Europeo fa parte insieme a quello degli Stati nazionali” e che, conseguentemente, non era precluso il potere del giudice dell’esecuzione di modificare la pena irrogata dal giudice della cognizione, dovendosi equiparare la sentenza della Corte di Strasburgo alla declaratoria d’incostituzionalità sopravvenuta alla formazione del giudicato e ritenerla, quindi, rilevante anche in executivis.

Il Tribunale di Spoleto, nel disattendere tale istanza, si limitava a rilevare che nessuna violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU era stata accertata, con riferimento al caso specifico, dalla Corte EDU, sicché non era sopravvenuto all’esecutività della condanna alcun fatto nuovo.

3. Ha proposto ricorso per cassazione, tramite i propri due difensori di fiducia, l’E. , denunciando la violazione della legge penale, con riferimento agli artt. 6, 7 CEDU e 442 cod. proc. pen., nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, per non avere il giudice a quo dato risposta agli argomenti sottoposti alla sua attenzione, e sollecitando, sulla base degli stessi argomenti, l’annullamento del provvedimento impugnato.

4. Il Consigliere delegato dal Primo Presidente per l’esame preliminare dei ricorsi pervenuti alla Prima Sezione penale, con nota del 1 marzo 2012, segnalava l’opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite penali, stante la speciale importanza delle questioni implicate.

5. Il Primo Presidente, con decreto in pari data, assegnava – a norma dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen. – il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’udienza camerale del 19 aprile 2012.

6. Le Sezioni Unite, con ordinanza in pari data, depositata il successivo 20 settembre, dichiaravano d’ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma primo, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, disponevano l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospendevano il giudizio in corso.

7. La Corte costituzionale, con sentenza n. 210 del 2013, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU; inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del citato decreto-legge, in riferimento all’art. 3 Cost.; inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 dello stesso decreto-legge, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 117, comma primo, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU.

8. Veniva quindi fissata l’odierna udienza camerale per la trattazione del ricorso, la cui decisione era stata sospesa a seguito dell’attivato incidente di costituzionalità.

Considerato in diritto

1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite è la seguente: “Se il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola e. Italia, possa sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole”.

2. La quaestio iuris, come già rilevato dalle Sezioni Unite nella ordinanza 19/04/2012 con la quale si attivava l’incidente di costituzionalità, impone, innanzi tutto, di stabilire la rilevanza che nell’ordinamento interno possono assumere, in deroga anche al giudicato, le violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU), della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.

3. La sentenza della Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia, che qui viene in rilievo, nel riconsiderare gli approdi ermeneutici ai quali la stessa Corte era pervenuta in ordine all’aspetto contenutistico dell’art. 7 CEDU, affronta il delicato problema circa l’effettiva articolazione del principio ivi sancito, quanto alla successione delle leggi penali nel tempo: se cioè detto principio abbia una portata meramente negativa, quale divieto di applicazione retroattiva sia della norma incriminatrice sia del trattamento sanzionatorio più sfavorevole, ovvero se contenga anche un implicito riflesso positivo, costituito dalla esigenza di applicazione della legge sopravvenuta più favorevole.

La Corte di Strasburgo, innovando l’orientamento restrittivo della precedente giurisprudenza, che aveva costantemente escluso dalla previsione dell’art. 7 della Convenzione “il diritto di beneficiare dell’applicazione di una pena meno severa prevista da una legge posteriore al reato” (decisione 06/03/2003, Zaprianov c. Bulgaria; decisione 05/12/2000, Le Petit c. Regno Unito; decisione della Commissione, 06/03/1978, X. c. Repubblica Federale Tedesca), delinea più precisamente i confini dello ‘statuto’ della legalità convenzionale in tema di reati e di pene.

Dopo avere svolto una preliminare ricognizione degli approdi giurisprudenziali formatisi sull’art. 7 CEDU, con riferimento al principio nullum crimen, nulla poena sine lege e alle nozioni di pena e di prevedibilità della legge penale, afferma che la detta norma non soltanto garantisce il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l’effetto che, nell’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione del principio di legalità convenzionale l’applicazione della pena più sfavorevole al reo.

La garanzia sancita dalla norma di cui all’art. 7, p. 1, CEDU, quale elemento sostanziale della preminenza del diritto, assume un rilievo centrale nel sistema di tutela delineato dalla Convenzione, come può evincersi dal successivo art. 15, p. 2, che non prevede alcuna deroga ad essa in tempo di guerra o in caso di altre pubbliche calamità.

A tale conclusione la Corte Europea perviene tenendo conto dell’”evoluzione della situazione nello Stato convenuto e negli Stati contraenti in generale” e privilegiando, nell’interpretazione della Convenzione, un “approccio dinamico ed evolutivo”, che renda “le garanzie concrete ed effettive, e non teoriche ed illusone”; da atto, peraltro, del “consenso a livello Europeo e internazionale per considerare che l’applicazione della legge penale che prevede una pena meno severa, anche posteriormente alla commissione del reato, è divenuta un principio fondamentale del diritto penale”.

Tale nuovo orientamento è stato ribadito nella successiva decisione 27/04/2010, Morabito c. Italia, con la quale la Corte EDU sottolinea che “le disposizioni che definiscono i reati e le pene sottostanno a delle regole particolari in materia di retroattività, che includono anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole all’imputato”.

Il principio di retroattività in mitius, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, è un corollario di quello di legalità, consacrato dall’art. 7 della CEDU, concerne le sole “disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono” e ha, quindi, un campo di operatività meno esteso di quello che il nostro ordinamento riserva all’art. 2, comma quarto, cod. pen.. Quest’ultima norma, infatti, richiama ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto e più favorevole al reo, in quanto incidente sul complessivo trattamento riservato al medesimo, laddove la norma convenzionale, nella interpretazione datane dalla Corte Europea, ha una portata più circoscritta, limitata alle sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni, e ciò in coerenza con il riferimento che la stessa Corte fa alle fonti internazionali e comunitarie, nonché alle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: in particolare, sia l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 19/12/1966 (ratificato con legge 25/10/1977, n. 881), sia l’art. 49 della Carta di Nizza non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma soltanto alla legge posteriore che “prevede l’applicazione di una pena più lieve”, della quale il colpevole deve comunque beneficiare.

3.1. L’approdo ermeneutico del Giudice sovranazionale va ben oltre il caso specifico esaminato ed ha una portata di più ampio respiro, in quanto, cogliendo ed esplicitando il più pregnante significato della norma convenzionale, si fa carico d’individuare la norma interna più favorevole, tra quelle succedutesi nel tempo in tema di trattamento sanzionatorio dei reati punibili con l’ergastolo e giudicati con il rito abbreviato, ed enuncia una regola di giudizio di portata generale, che, proprio perché tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata.

Già con la sentenza 13/07/2000, Scozzari e Giunta c. Italia, la Corte EDU ha affermato il principio – ormai consolidato – secondo cui, “quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell’equa soddisfazione prevista dall’art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie” (Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola e. Italia; Corte EDU, GC, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, GC, 08/04/2004, Assanidze c. Geòrgia).

La sentenza ‘Scoppola c. Italia’, pur non potendo essere definita ‘sentenza pilota’ – in quanto non si spinge sino al punto di indicare le misure più idonee per risolvere il riscontrato problema strutturale, interno allo specifico settore dell’ordinamento nazionale – individua comunque la criticità sistemica, della quale lo Stato responsabile della violazione del principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7 CEDU, così come interpretato, deve tenere conto, con il conseguente obbligo, ai sensi dell’art. 46, p. 1, della CEDU, di adottare gli opportuni rimedi. Questi, pur non puntualmente determinati nel loro contenuto dalla pronuncia sovranazionale, ben possono essere individuati con un ragionevole margine di apprezzamento e sono necessitati dall’esigenza di ovviare alla violazione della CEDU da parte della legge interna. In sostanza, la decisione di Strasburgo non si limita ad imporre allo Stato italiano di sostituire la pena perpetua applicata in quel caso specifico con quella temporanea di anni trenta di reclusione, ma lo obbliga a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che versano nelle medesime condizioni del soggetto, la cui posizione era stata oggetto di esame, e ciò al fine di non trasgredire la trama strutturale dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. e di porre, pertanto, comunque rimedio alla lesione, nell’esercizio della giurisdizione penale, di un diritto fondamentale.

A conferma della portata di più ampio respiro della decisione della Corte EDU sul caso Scoppola c. Italia, non è superfluo sottolineare che il Comitato dei Ministri, nel dichiarare chiusa, con provvedimento dell’8 giugno 2011, la relativa procedura di sorveglianza sull’esecuzione della sentenza, prendeva atto, dichiarandosi soddisfatto, della nota con la quale lo Stato italiano, in ordine alle misure di carattere generale da adottare per situazioni analoghe, aveva precisato di ritenere sufficiente la pubblicazione e la diffusione della sentenza ai Tribunali competenti, in considerazione “degli effetti diretti concessi dai Tribunali italiani alle sentenze della Corte Europea e […] delle possibilità offerte dalla procedura di incidente di esecuzione a coloro che si trovino in situazioni uguali a quella del richiedente nel caso in esame”.

Il Comitato dei Ministri individuava così con chiarezza la strada da seguire in situazioni analoghe a quella del caso Scoppola.

3.2. In sintesi, di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già stigmatizzate in sede Europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando – come si preciserà più diffusamente in seguito – il valore della intangibilità del giudicato.

4. Tanto premesso sul principio di legalità convenzionale, così come delineato dalla Corte di Strasburgo, elettivamente deputata dall’art. 32, p. 1, CEDU all’interpretazione e all’applicazione della stessa e dei suoi protocolli, deve rilevarsi che, nel caso in esame, in cui viene in rilievo la disciplina del giudizio abbreviato per i reati punibili con la pena dell’ergastolo, si sono succedute nel tempo tre diverse disposizioni di legge.

4.1. Il testo originario dell’art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., prevedeva che nel giudizio abbreviato, in caso di condanna, “Alla pena dell’ergastolo è sostituta quella della reclusione di anni trenta”, disposizione – questa – però dichiarata incostituzionale per eccesso di delega, con sentenza n. 176 del 1991 del Giudice delle leggi, con l’effetto che, tra la data di pubblicazione di tale decisione e il successivo intervento legislativo di cui al punto che segue, era precluso agli imputati di delitti punibili con l’ergastolo l’accesso al detto rito semplificato.

4.2. Con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, è stata reintrodotta la possibilità per l’imputato di reati punibili con l’ergastolo di accedere al rito abbreviato. L’art. 30, comma 1, lett. b), della predetta legge, infatti, ha ripristinato la previsione: “Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta”.

4.3. L’art. 7 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, entrato in vigore lo stesso giorno e convertito – con modifiche non inerenti alla previsione medesima – dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nel dichiarato intento di dare un’interpretazione autentica del secondo periodo del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., ha disposto, per un verso, che l’espressione “pena dell’ergastolo” ivi adoperata deve “intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno” e, per altro verso, ha inserito all’interno della stessa disposizione un terzo periodo, così formulato: “Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo”.

In via transitoria, peraltro, l’art. 8 del richiamato d.l. n. 341 del 2000, così come sostituito in sede di conversione, consentiva a chi avesse formulato richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della sola legge n. 479 del 1999 o a norma dell’art. 4-ter, comma 2, d.l. 7 aprile 2000 n. 82, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, e a chi, per effetto dell’impugnazione del pubblico ministero, potesse essere destinatario delle disposizioni di cui all’art. 7 del richiamato decreto-legge n. 341 del 2000 di revocare la richiesta entro un determinato termine, con conseguente prosecuzione del processo secondo il rito ordinario.

4.4. La disposizione di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nelle varie versioni succedutesi nel tempo, pur disciplinando aspetti processuali connessi, in caso di condanna, all’esito sanzionatorio del giudizio abbreviato, coniuga tali aspetti con una indubbia portata sostanziale, quale deve ritenersi quella relativa alla diminuzione o alla sostituzione della pena, che integra un trattamento penale di favore, sia pure con caratteristiche peculiari, perché ricollegabili alla condotta dell’imputato successiva al reato e connotata dalla scelta processuale di accesso al rito alternativo.

Tanto è stato già chiaramente affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo. Tale decisione prende in considerazione un caso opposto a quello oggetto del presente giudizio.

A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, dell’art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen. nel testo originario, si poneva, infatti, il problema di come trattare le condanne già intervenute in applicazione della norma dichiarata successivamente incostituzionale. Le Sezioni Unite, in quella occasione, hanno ritenuto che assumevano rilievo gli aspetti sostanziali della disposizione concernente il trattamento penale di favore, con la conseguenza che l’intervenuta pronuncia di incostituzionalità non poteva incidere, in senso peggiorativo, su tale trattamento, ormai acquisito proprio in forza del collegamento con il procedimento speciale adottato prima della declaratoria d’incostituzionalità.

L’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., quindi, disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale e, tenuto conto che la stessa – con specifico riferimento ai reati punibili con la pena dell’ergastolo – ha subito, nel tempo, varie modifiche per interventi della Corte costituzionale e del legislatore, deve soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, p. 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell’art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della previsione meno severa.

5. Quanto al problema di diritto intertemporale, volto a individuare – con riferimento ai reati punibili, in astratto, con l’ergastolo e commessi prima dell’ultima modifica normativa sull’accesso al rito abbreviato per tali illeciti – la specie e l’entità della pena da infliggere in coerenza con le regole insite nel richiamato principio di legalità convenzionale, deve osservarsi quanto segue.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 34233 del 19/04/2012, Giannone, hanno già chiarito che l’individuazione, tra le diverse disposizioni succedutesi dalla data di commissione dei detti reati alla pronuncia della sentenza definitiva, di quella più favorevole deve avvenire coordinando il dato normativo relativo alla prevista sostituzione di pena con le modalità e con i tempi di accesso al rito abbreviato, da cui direttamente deriva, in base alla legge vigente al momento, il trattamento sanzionatorio da applicare.

In sostanza, non può aversi riguardo soltanto alla data di commissione dei reati e ai successivi interventi legislativi in materia di pena da infliggere all’esito del giudizio abbreviato, ma tali dati fattuali e normativi, per assumere rilievo ai fini della decisione, devono necessariamente integrarsi con il momento in cui viene formulata la richiesta di rito alternativo.

Non va sottaciuto, infatti, che gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato sono strettamente collegati, come si è precisato, con quelli sostanziali, dovendosi tali ritenere quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena, profilo questo che si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore.

Si sottolinea in Sez. U, Giannone, che l’individuazione della pena sostitutiva da applicare, in sede di giudizio abbreviato, per i reati punibili in astratto con l’ergastolo, senza o con isolamento diurno, è condizionata al verificarsi, per così dire, di una fattispecie complessa, integrata dalla commissione di tale tipo di reati in una determinata epoca e dalla richiesta di accesso al rito speciale da parte dell’interessato, elementi questi che, in quanto inscindibilmente connessi tra loro, devono concorrere entrambi, perché possa trovare applicazione, in caso di condanna, la comminatoria punitiva prevista dalla legge in vigore al momento della richiesta.

È tale richiesta, in definitiva, a cristallizzare, nell’ipotesi considerata, il più favorevole trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa.

La richiesta di giudizio abbreviato formulata nel vigore della così detta ‘legge intermedia’, art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, in relazione ai reati punibili con l’ergastolo individua, pertanto, il più mite trattamento sanzionatorio da applicare in caso di condanna, nulla rilevando che, nel momento in cui interviene la relativa decisione, il corrispondente quadro normativo risulta essere stato – medio tempore – modificato in senso più rigoroso.

L’efficacia privilegiata attribuita alla legge intermedia più favorevole garantisce che l’eventuale lunghezza dei processi non vada a discapito dell’imputato, che potrebbe vedersi inflitta – contrariamente alle sue legittime aspettative – una condanna più severa di quella che gli sarebbe stata inflitta se il processo fosse stato definito prima.

5.1. Conclusivamente, con riferimento al mutamento di disciplina della pena, la regola in esame opera nell’ipotesi in cui la fattispecie complessa a cui innanzi si faceva cenno risulti essere stata integrata in tutte le sue componenti durante la vigenza della lex mitior intermedia, vale a dire tra il 2 gennaio e il 23 novembre 2000: in particolare, l’interessato deve avere chiesto, in tale arco temporale, l’accesso al rito semplificato, evento processuale – questo – che, come si è detto, cristallizza la pena meno severa in quel momento prevista, attribuendo al dato normativo di riferimento efficacia retroattiva rispetto alla data di consumazione del fatto-reato (se risale ad epoca in cui l’accesso al rito non era consentito) e ultrattiva rispetto al superamento del citato dato normativo ad opera della legge successiva più severa.

5.2. È il caso di precisare che il soggetto coinvolto in un processo penale in corso alla data di entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000 per reati punibili con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno poteva revocare, avvalendosi della facoltà riconosciutagli dalla norma transitoria di cui all’art. 8 del medesimo decreto-legge (per come sostituito in sede di conversione), la richiesta di giudizio abbreviato formulata nel vigore della precedente legge più favorevole o la richiesta di cui all’art. 4-ter, comma 2, d.l. n. 82 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 2000.

L’eventuale esercizio di tale facoltà, quale libera e consapevole scelta della persona interessata, avendo comportato la celebrazione del giudizio secondo il rito ordinario, vale a dire sulla base di moduli che, rifuggendo da ogni forma di semplificazione deflativa, hanno garantito il più ampio spazio ai diritti delle parti processuali, rimane estraneo alla problematica di cui si discute, proprio perché manca il presupposto processuale della celebrazione del giudizio abbreviato e, conseguentemente, non viene in rilievo il tema della successione di leggi penali che regolano, nel caso di ammissione a tale rito, il trattamento sanzionatorio dei reati punibili in astratto con la pena perpetua (con o senza isolamento diurno).

In tale caso – a differenza di quanto si preciserà in seguito con riferimento all’esecuzione della pena inflitta all’esito del giudizio abbreviato e rivelatasi, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale e quindi al dettato di cui all’art. 117, comma primo, della Costituzione – non può incidersi, in sede esecutiva, sulla situazione cristallizzata dal giudicato; non può porsi ex post nel nulla la precedente revoca, ritualmente formulata, della richiesta di giudizio abbreviato (che finirebbe per assumere una fisionomia meramente virtuale), stante l’intervenuta operatività – su sollecitazione dello stesso soggetto interessato, che non aveva eccepito alcunché – della norma transitoria di cui al richiamato art. 8 d.l. n. 341 del 2000, che ha natura esclusivamente processuale e che risulta essere stata applicata, con effetti ormai irretrattabili, dal giudice della cognizione, il solo elettivamente deputato a tanto; non rientra, infatti, nei poteri del giudice dell’esecuzione quello di rivisitare, con effetti a cascata sulla pena da eseguire, le scelte processuali fatte in sede di cognizione. Nell’ipotesi data, in sostanza, il dato dirimente è offerto dal rilievo che, per effetto della revoca della richiesta di giudizio abbreviato, non risulta essere stato mai acquisito nel patrimonio giuridico del soggetto interessato il diritto ad essere giudicato con detto rito sulla base della disciplina recata dalla legge n. 479 del 1999.

6. Riprendendo il tema che interessa specificamente il caso in esame – concernente la situazione di colui che, chiamato a rispondere di reati punibili con l’ergastolo, aveva richiesto, nel vigore della lex mitior intermedia, il giudizio abbreviato, ma la decisione del giudice era intervenuta nel momento in cui, per effetto del d.l. n. 341 del 2000, il corrispondente quadro normativo era mutato in senso più sfavorevole – deve rilevarsi quanto segue.

Le Sezioni Unite, con l’ordinanza 19/04/2012, partendo dal presupposto della praticabilità dell’incidente di esecuzione (aspetto che sarà trattato in seguito), ritenevano che l’ostacolo a rendere direttamente operativa la lex mitior di cui all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999 – nella verificata integrazione della fattispecie complessa relativa al rito semplificato per i reati di cui si discute – era costituito dall’etichetta nominale di norma di interpretazione autentica che il legislatore aveva attribuito all’art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, per determinarne un effetto retroattivo altrimenti non consentito, e che obbligava formalmente l’interprete ad adeguarvisi, senza alcuna possibilità d’individuare spazi ermeneutici diversi da quelli indicati dal legislatore ordinario e coerenti col principio di legalità convenzionale (art. 7, p. 1, CEDU) delineato dalla Corte di Strasburgo.

Obbligata, pertanto, si rivelava la via dell’incidente di costituzionalità.

L’ostacolo è stato rimosso dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 7, comma 1, del d.l. n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001 (sent. n. 210 del 2013).

Il Giudice delle leggi, richiamando propri precedenti specifici (sentenze n. 103 del 2013, n. 78 del 2012, n. 311 del 2009), sottolinea che “la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo, in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto, o di ristabilire una interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore, a tutela della certezza del diritto e dell’uguaglianza dei cittadini”. Riconosce che nessuna di tali ragioni è riscontrabile nell’art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, considerato che la norma oggetto della pretesa interpretazione legislativa (art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen.) non evidenziava ambiguità, non aveva dato luogo a un contrasto giurisprudenziale ed era stata sempre interpretata nel senso che la disciplina relativa alla pena dell’ergastolo riguardava sia l’ergastolo semplice sia quello con isolamento diurno. Ravvisa, quindi, nel richiamato art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 una norma sostanzialmente innovativa, che modificava in malam partem il contenuto sanzionatorio dell’art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen. e che non poteva avere, pertanto, efficacia retroattiva.

La Corte Costituzionale, dopo avere così ricostruito il quadro normativo oggetto di censura, ribadisce, condividendole, le argomentazioni sviluppate nella sentenza Scoppola del 17/09/2009 dalla Corte EDU, che negli effetti innovativi e sfavorevoli dell’art. 7 d.l. n. 341 del 2000 aveva ravvisato la violazione del principio di legalità convenzionale in materia penale, sancito dall’art. 7, p. 1, CEDU; perviene quindi alla conclusione che la violazione di tale norma convenzionale, che integra il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma primo, Cost., comporta l’illegittimità costituzionale della norma interna impugnata.

7. Sulla base di tale pronuncia della Consulta, si pone il problema di fondo circa la possibilità di eliminare gli effetti irrevocabilmente prodotti in una fattispecie identica a quella del caso ‘Scoppola c. Italia’, ma che, diversamente da quest’ultima, non ha formato oggetto di denuncia dinanzi alla Corte EDU.

V’è, infatti, una radicale differenza tra chi, a fronte di un giudicato interno di condanna ritenuto convenzionalmente illegittimo, propone tempestivamente ricorso alla Corte di Strasburgo con esito positivo e chi, invece, non si avvale di tale facoltà, con l’effetto che il decisum nazionale non è più suscettibile del rimedio giurisdizionale previsto dal sistema convenzionale Europeo.

In questo secondo caso viene in gioco il tema della vulnerabilità del giudicato, con particolare riferimento, avuto riguardo al caso in esame, alla legittimità dell’esecuzione della pena inflitta.

È certamente vero che la portata valoriale del giudicato, nel quale sono insite preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici, è presidiata costituzionalmente e non è, del resto, neppure estranea alla CEDU, tanto che la stessa Corte di Strasburgo ha ravvisato nel giudicato un limite all’espansione della legge penale più favorevole, conclusione avallata anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 236 del 2011 in materia di applicazione dei termini di prescrizione più brevi introdotti dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251.

Vi sono tuttavia argomenti di innegabile solidità che si oppongono all’esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima.

L’istanza di legalità della pena, per il vero, è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della c.d. ‘situazione esaurita’, che tale sostanzialmente non è, non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale.

Non va sottaciuto, infatti, che la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, 25, comma secondo) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma terzo, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria d’incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell’art. 117, comma primo, Cost..

E, allora, s’impone un bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo.

7.1. Il novum introdotto dalla sentenza della Corte EDU ‘Scoppola e. Italia’ sulla portata del principio di legalità convenzionale, con i conseguenti riflessi sulla legalità della pena, in quanto sopravvenuto al giudicato e rimasto quindi estraneo all’orizzonte valutativo del giudice della cognizione, impone alla giurisdizione – in forza dell’art. 46 della CEDU e degli obblighi internazionalmente assunti dall’Italia – di riconsiderare il punto specifico dell’adottata decisione irrevocabile, proprio perché non in linea con la norma convenzionale nella interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo.

Il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti mortificato, per una carenza strutturale dell’ordinamento interno rilevata dalla Corte EDU, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s’impone, pertanto, in questo caso di emendare ‘dallo stigma dell’ingiustizia’ una tale situazione.

Eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, devono dunque essere rimossi, come si è più sopra precisato, anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice Europeo per il caso Scoppola.

Al nuovo e più ampio profilo di tutela del principio di legalità convenzionale in materia penale enunciato dalla Corte EDU, all’esito dell’approfondita operazione ermeneutica dell’art. 7 CEDU, deve attribuirsi, come si è detto, una valenza generale e, conseguentemente, un effetto operativo anche per la soluzione di casi identici. È agevole, pertanto, concludere che l’avere inflitto a un determinato soggetto, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella di Scoppola, la pena dell’ergastolo anziché quella di anni trenta di reclusione viola il diritto all’applicazione della norma penale più favorevole tra le diverse succedutesi nel tempo in materia di giudizio abbreviato (art. 7 CEDU), violazione che inevitabilmente si riverbera, con effetti di attualità in fase esecutiva, sul diritto fondamentale della libertà.

Una tale situazione, anche a costo di porre in crisi il ‘dogma’ del giudicato, deve essere scongiurata, perché legittimerebbe l’esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della species facti, illegittima dall’interprete autentico della CEDU e determinerebbe una patente violazione del principio di parità di trattamento tra condannati che versano in identica posizione.

7.2. Certamente è compito primario del legislatore, una volta preso atto del conflitto venutosi a determinare tra l’ordinamento interno e il sistema convenzionale, rimuovere le disposizioni che tale conflitto hanno generato e apprestare strumenti idonei a porre rimedio a situazioni formalmente consolidate.

La legge 9 gennaio 2006 n. 12, che ha integrato l’art. 5, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, infatti, proprio a tale fine, impone alla Presidenza del Consiglio dei Ministri non solo di promuovere gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano, ma di comunicare tempestivamente alle Camere le medesime pronunce, per l’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti, e di presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce.

Di fronte però alla inerzia del legislatore, assolutamente insensibile alle sollecitazioni del Giudice sovranazionale in ordine a una più incisiva tutela dei diritti fondamentali, la giurisdizione non può ignorare o eludere il problema di cui qui si discute e deve farsi carico, una volta preso atto della insussistenza delle condizioni che giustificano l’esecuzione della pena nei confronti del condannato, di riportare la stessa in una dimensione di legittimità, utilizzando spazi di operatività della normativa vigente, che, benché non chiaramente evidenziati, sono in essa impliciti.

È pur vero che il titolo per l’esecuzione della pena è integrato dalla sentenza irrevocabile di condanna, che si atteggia, come sostiene autorevole dottrina, quale “norma del caso concreto” e rende “doverosa l’attuazione del comando sanzionatorio penale”, ma non può ignorarsi la ‘base giuridica’ su cui riposano la sentenza di condanna e, assieme ad essa, la specie e l’entità della pena da eseguire. Se la norma generale e astratta, sulla quale il giudice della cognizione ha fatto leva per giustificare la pronuncia di condanna, si riveli ex post incompatibile con il principio di legalità convenzionale e quindi illegittima ex art. 117, comma primo, Cost., dovrà necessariamente porsi fine, in forza delle ragioni innanzi illustrate, a tale situazione di flagrante illegalità.

7.3. Il nostro ordinamento non ignora ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, sul cui valore costituzionale prevalgono, come si è detto, altri valori, ai quali il legislatore assicura un primato.

In caso di abolitio criminis, infatti, è prevista la revoca della sentenza di condanna (art. 673 cod. proc. pen.) e ne cessano la esecuzione e gli effetti penali (art. 2, comma secondo, cod. pen.). Analoga previsione è contenuta nello stesso art. 673 cod. proc. pen. per l’ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.

Altra ipotesi di cedevolezza del giudicato è quella prevista dall’art. 30, comma quarto, legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo cui cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale.

L’art. 2, comma terzo, cod. pen. (inserito dall’art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 85) statuisce, inoltre, che la pena detentiva inflitta con condanna irrevocabile deve essere convertita immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore prevede esclusivamente quest’ultima, regola questa che deroga alla previsione di cui al successivo comma quarto dello stesso articolo, che individua nel giudicato il limite all’operatività della lex mitior.

All’ipotesi introdotta dall’art. 14 della legge n. 85 del 2006 può essere accostato, in via analogica, il novum dettato dalla Corte EDU in tema di legalità convenzionale della pena, pur considerati i diversi effetti prodotti nell’ordinamento da una lex supervenies più favorevole rispetto a quelli derivanti da una sentenza di Strasburgo, alla quale consegue la declaratoria d’incostituzionalità della relativa normativa interna: in entrambi i casi comunque è l’esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere alla più ‘alta valenza fondativa’ dello statuto della pena, la cui legittimità deve essere assicurata anche in executivis, fase in cui la sanzione concretamente assolve la sua funzione rieducativa, in una dimensione ovviamente dinamica e, quindi, in termini di attualità.

8. Ritenuto quindi superabile, anche nel caso in esame, lo scoglio del giudicato, rivelatosi ex post intrinsecamente illegittimo nella parte relativa all’esecuzione della pena irrogata, perché convenzionalmente e costituzionalmente illegittima, l’attenzione deve essere rivolta all’individuazione dello strumento processuale idoneo a consentire l’intervento correttivo sullo stesso giudicato.

Non è percorribile il procedimento di revisione ex art. 630 cod. proc. pen., come integrato dalla sentenza additiva di principio n. 113 del 2011 della Consulta, non essendo necessaria una ‘riapertura del processo’ funzionale a un nuovo giudizio di cognizione sul merito della vicenda.

Impraticabile è anche la via del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., benché risulti essere stata percorsa, nel solo intento pragmatico di rispettare i principi dell’economia dei mezzi processuali e della ragionevole durata del procedimento, proprio nel caso Scoppola, al fine di sostituire la pena dell’ergastolo, dichiarata convenzionalmente illegittima, con quella di anni trenta di reclusione (Sez. 5, n. 16507 dell’11/02/2010, Scoppola, Rv. 247244). Detto rimedio, previsto per ovviare ad errori di fatto contenuti in provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione, è inidoneo strutturalmente a intervenire in casi non contraddistinti da violazioni verificatesi nell’ambito del giudizio di legittimità.

Analoga conclusione s’impone in riferimento all’impiego dell’istituto della restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc. pen.), trattandosi di meccanismo utilizzabile unicamente per porre rimedio alle violazioni della CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale, ipotesi che non viene in rilievo nella specie.

Considerato che, nel caso in esame, non è necessario un nuovo accertamento di merito che imponga la riapertura del processo, ma occorre semplicemente incidere sul titolo esecutivo, per sostituire la pena inflitta con quella conforme alla CEDU, corretta costituzionalmente e già determinata, nella specie e nella misura, dalla legge, il meccanismo procedurale da utilizzare non può che essere individuato nell’incidente di esecuzione, correttamente attivato dal ricorrente.

9. Ed invero, i margini di manovra che l’ordinamento processuale riconosce alla giurisdizione esecutiva sono molto ampi. I poteri di questa non sono circoscritti alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, ma possono incidere, in vario modo, anche sul contenuto di esso, allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l’irrevocabilità della sentenza, lo esigano.

A norma dell’art. 665 cod. proc. pen., il giudice dell’esecuzione è “competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento”, assolve il compito quindi di garantire il rispetto dei presupposti e delle condizioni legittimanti l’attuazione del comando esecutivo, tanto che gli sono anche riconosciuti dal successivo art. 666, comma 5, ove ritenuti necessari ai fini della decisione, poteri istruttori da esercitare nel rispetto del contraddittorio.

L’incidente di esecuzione disciplinato dall’art. 670 cod. proc. pen., pur sorto per comporre i rapporti con l’impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell’ambito applicativo dell’istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo. Il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo.

9.1. Il titolo esecutivo, infatti, può essere afflitto da diverse tipologie di vizi, rapportate ai tre momenti fondamentali della fase esecutiva: quello della ‘esecutività’, che è il presupposto fondamentale del titolo esecutivo e che non prelude alla necessaria sua esecuzione, occorrendo ancora accertare la possibilità reale che esso possa essere eseguito; quello della ‘eseguibilità’, che ne rappresenta, invece, il contenuto ed ha quindi, per così dire, una portata pratica; quello infine della ‘esecuzione’, che da concreta attuazione al comando punitivo e che si concretizza una volta accertato che il provvedimento giurisdizionale è esecutivo ed eseguibile.

I vizi che attengono all’esecutività del titolo si traducono in vizi che colpiscono il titolo medesimo, che finisce per essere inefficace ab origine; quelli che attengono al contenuto colpiscono in maniera diretta il titolo esecutivo, che deve essere sostituito, pertanto, con un provvedimento dotato del requisito della eseguibilità; i vizi che incidono sull’attuazione del titolo riguardano la sua esecuzione, che in tanto potrà avere regolare corso in quanto siano garantite le legittime modalità di attuazione.

Ne consegue che qualsiasi doglianza concernente il titolo esecutivo va proposta dinanzi al giudice dell’esecuzione, la cui competenza ha natura funzionale.

9.2. La questione relativa alla non eseguibilità del giudicato di condanna nella parte concernente la specie e l’entità della sanzione irrogata, perché colpita da sopravvenuta declaratoria d’illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost., integrato – quale parametro interposto – dall’art. 7, p. 1, CEDU, non può essere risolta facendo leva sulla norma processuale di cui all’art. 673 cod. proc. pen. (revoca della sentenza per abolizione del reato).

Quest’ultima disposizione completa la disciplina generale sostanziale in tema di successione della legge penale nel tempo e di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, statuendo testualmente che “il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti”.

La norma prende chiaramente in considerazione i fenomeni della depenalizzazione e della incostituzionalità di una determinata fattispecie penale, oggetto della pronuncia irrevocabile, e incide direttamente su questa, cancellandola radicalmente o limitatamente alla parte corrispondente; prevede l’adozione dei provvedimenti conseguenti, nel cui ambito deve certamente farsi rientrare la rimodulazione del trattamento sanzionatorio relativo ad altri illeciti eventualmente confluiti – per la ritenuta sussistenza del vincolo della continuazione o del concorso formale col fatto non previsto dalla legge come reato – nella pronuncia del giudice della cognizione e non coinvolti nell’abolitio criminis (Corte cost., sent. n. 96 del 1996); non lascia spazio, però, per essere interpretata anche nel senso di legittimare un intervento selettivo del giudice dell’esecuzione sul giudicato formale nella sola parte relativa all’aspetto sanzionatorio ad esso interno e riferibile al titolo di reato non attinto da perdita di efficacia.

L’art. 673 cod. proc. pen., tuttavia, non esclude che, in sede di esecuzione, possano venire in rilievo situazioni diverse che, sebbene in esso non considerate, impongano comunque un intervento parziale sul contenuto del giudicato e una sua modifica: si pensi all’operatività dell’art. 2, comma terzo, cod. pen., più sopra richiamato, che statuisce la conversione della pena detentiva inflitta per un determinato reato con la corrispondente pena pecuniaria introdotta da una legge posteriore; ed ancora, ai casi in cui deve applicarsi il principio di retroattività delle sentenze che dichiarano l’incostituzionalità di una norma non nella parte incriminatrice, ma in quella relativa al trattamento penale, declaratoria che ha forza invalidante ex tunc, la cui portata, già implicita nell’art. 136 Cost., è resa esplicita dall’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

In particolare, il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una norma dichiarata illegittima dal Giudice delle leggi è esso stesso principio di rango sovraordinato – sotto il profilo della gerarchia delle fonti – rispetto agli interessi sottesi all’intangibilità del giudicato.

È sull’art. 30 della legge n. 87 del 1953 che, ai fini che qui interessano, deve farsi leva, disponendo tale norma di un perimetro operativo più esteso rispetto a quello prescrittivo dell’art. 673 cod. proc. pen..

I commi terzo e quarto del citato art. 30 rispettivamente dispongono che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e che “Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali”.

Il riferimento generico alla ‘norma dichiarata incostituzionale’ evoca qualsiasi tipologia di norma penale – comprese quindi quelle che incidono sul quantum sanzionatorio – e non incontra il limite che, invece, contraddistingue la portata applicativa dell’art. 673 cod. proc. pen., circoscritta alla sola ‘norma incriminatrice’ in senso stretto, costitutiva cioè di un autonomo titolo di reato. Ne consegue che non è estraneo alla ratio del richiamato art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 l’impedire che anche una sanzione penale, per quanto inflitta con una sentenza divenuta irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base di una norma dichiarata successivamente incostituzionale: la conformità a legge della pena, e in particolare di quella che incide sulla libertà personale, deve essere costantemente garantita dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione (Sez. 1, n. 26899 del 25/05/2012, Harizi, Rv. 253084; Sez. 1, n. 19361 del 24/02/2012, Teteh, Rv. 253338; Sez. 1, n. 977 del 27/10/2011, dep. 13/01/2012, Hauohu, Rv. 252062; in tema di ineseguibilità della porzione di pena riferibile a circostanza aggravante incostituzionale).

È il caso di sottolineare che non può condividersi la tesi, sostenuta da Sez. 1, n. 27640 del 19/01/2012, Hamrouni, secondo cui l’art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953 deve ritenersi, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 673 cod. proc. pen., implicitamente abrogato, in quanto la relativa disciplina sarebbe stata integralmente assorbita in quella della norma codicistica.

Tale conclusione, oltre ad essere contrastata da quanto enunciato dalla sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, che avalla implicitamente la perdurante operatività nell’ordinamento giuridico della norma in questione, mal si concilia col rilievo che non può esservi abrogazione implicita di una disposizione sostanziale ad ampio spettro, qual è il comma quarto del richiamato art. 30, ad opera di una norma processuale (art. 673 cod. proc. pen.) orientata a disciplinare, in sede esecutiva, la sola ipotesi dell’abrogazione o della declaratoria d’incostituzionalità della norma incriminatrice. Né appare dirimente l’argomento in forza del quale la cessazione – prevista dall’art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 – non solo dell’esecuzione ma di ‘tutti gli effetti penali’ della sentenza irrevocabile di condanna implicherebbe, secondo Sez. 1, Hamrouni, “il radicale presupposto dell’abolitio criminis”, vale a dire la restrizione dell’operatività della corrispondente previsione alle sole norme incriminatrici. È agevole obiettare che il riferimento volutamente generico, contenuto nel richiamato art. 30, quarto comma, è certamente comprensivo di queste ultime norme (il che spiega il riferimento alla cessazione anche di ‘tutti’ gli effetti penali), ma nulla induce a ritenere che sia circoscritto soltanto alle medesime.

9.3. Conclusivamente, in tanto il meccanismo di aggressione del giudicato, nella parte relativa alla specie e alla misura della pena inflitta dal giudice della cognizione, è attivabile con incidente di esecuzione, in quanto ricorrano le seguenti condizioni: a) la questione controversa deve essere identica a quella decisa dalla Corte EDU; b) la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, deve avere rilevato un vizio strutturale della normativa interna sostanziale, che definisce le pene per determinati reati, in quanto non coerente col principio di retroattività in mitius; c) la possibilità d’interpretare la normativa interna in senso convenzionalmente orientato ovvero, se ciò non è praticabile, la declaratoria d’incostituzionalità della medesima normativa (com’è accaduto nella specie); d) l’accoglimento della questione sollevata deve essere l’effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del processo.

Ricorrendo tali condizioni, il giudice dell’esecuzione non deve procedere alla revoca (parziale) della sentenza di condanna, ma deve limitarsi, avvalendosi degli ampi poteri conferitigli dagli artt. 665 e 670 cod. proc. pen., a ritenere non eseguibile la pena inflitta e a sostituirla con quella convenzionalmente e costituzionalmente legittima.

Diverso è il caso, come si è avvertito nell’ordinanza del 19 aprile 2012 con la quale si è sollevata la questione di costituzionalità, di una pena rivelatasi illegittima esclusivamente perché irrogata all’esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell’art. 6 CEDU: in questa ipotesi, l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte a un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie e attraverso lo strumento della revisione ex art. 630 cod. proc. pen. (come integrato dalla sentenza n. 113 del 2011 Corte cost.), che comporta la riapertura del processo.

10. A norma dell’art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., devono essere enunciati i seguenti principi di diritto:

– “La pena dell’ergastolo inflitta all’esito del giudizio abbreviato, richiesto dall’interessato in base all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest’ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, p. 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost.”;

– “Il giudice dell’esecuzione, investito del relativo incidente ad istanza di parte e avvalendosi dei suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione, è legittimato a sostituirla, incidendo sul giudicato, con quella di anni trenta di reclusione, prevista dalla più favorevole norma vigente al momento della richiesta del rito semplificato”.

11. Alla stregua dell’articolato iter argomentativo sin qui sviluppato e dei principi testé enunciati, il ricorso proposto è fondato e deve essere accolto.

La pena dell’ergastolo inflitta a E.S. , con la sentenza del 10 luglio 2001 della Corte di assise d’appello di Catania (irrevocabile il 14 novembre 2004), in applicazione dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, non può continuare ad essere eseguita. Ciò perché tale norma, definita impropriamente interpretativa, solo per determinarne un effetto retroattivo, è stata dichiarata incostituzionale (sentenza n. 210 del 2013), in quanto viola, conformemente a quanto già ritenuto dalla Corte di Strasburgo, il principio di legalità convenzionale in materia penale di cui all’art. 7, p. 1, CEDU, parametro interposto all’art. 117, comma primo, Cost..

L’E. , invero, essendosi avvalso della riapertura dei termini prevista dall’art. 4-ter d.l. n. 82 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 2000, aveva avanzato – nel corso del giudizio d’appello – tempestiva richiesta (12 giugno 2000) di ammissione al rito abbreviato per come disciplinato dall’art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen. all’epoca vigente, con l’effetto che aveva acquisito il diritto, in caso di condanna, a vedersi infliggere la pena più mite di anni trenta di reclusione in luogo di quella dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno). La novella legislativa di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, intervenuta prima della sentenza di condanna ed avente contenuto innovativo in peius del regime sanzionatorio, non poteva e non doveva avere, nella situazione data, effetto retroattivo ed essere di ostacolo alla ultrattività della lex mitior sul punto.

La riscontrata esecuzione in atto di una pena rivelatasi incostituzionale, che va ad incidere negativamente sul diritto fondamentale della libertà personale, legittima l’intervento del giudice dell’esecuzione finalizzato a ricondurre in una dimensione di legalità il regime sanzionatorio.

L’ordinanza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio, potendo questa stessa Corte, a norma dell’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., procedere direttamente alla sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di anni trenta di reclusione, legislativamente prevista dal comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. nel testo risultante dalla disposizione di cui all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999.

 P.Q.M.    

 Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Dispone che la pena dell’ergastolo inflitta ad E.S. , con sentenza della Corte di assise d’appello di Catania in data 10/07/2001 (irrevocabile il 14/11/2003), sia sostituita con quella della reclusione di anni trenta.

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