Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

S.U.P.

sentenza 6 febbraio 2014, n. 5838

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Salerno, pronunciando ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., ha applicato a C.G. , Ci.Ge. , R.C. , R.G. , S.F. , Co.Ro. ed Z.E. le pene concordate con il Pubblico Ministero, in riferimento ad una moltitudine di reati indicati in rubrica.
In sintesi, a tutti gli imputati era ascritto il reato aggravato di associazione per delinquere sub A), ai sensi dell’art. 416, commi primo, secondo, terzo e quinto, cod. pen..
Nella relativa formulazione – che mette conto richiamare nei tratti salienti – sono indicati il programma delittuoso, le modalità operative del sodalizio ed il ruolo svolto da ciascun imputato. In particolare, il fine della consorteria – i cui organizzatori e promotori erano Ci.Ge. , C.G. , R.C. , R.G. , S.F. ed Z.E. – sarebbe stato quello di commettere un numero indeterminato di reati di turbata libertà degli incanti, corruzione di pubblici ufficiali e falso in atto pubblico, con il seguente modus operandi:
– in caso di bando di gara con licitazione privata, indetto dalla Provincia di Salerno, venivano contattati due dipendenti dello stesso Ente, che fornivano “previo pagamento di un compenso in denaro, le liste delle imprese destinatane di invito a partecipare alle gare, in modo che i promotori dell’associazione potessero concordare tra loro le offerte da depositare presso la stazione appaltante e, inoltre, contattare quelle tra le altre imprese pure destinatane di invito di partecipazione alla gara, che non facevano loro capo direttamente, per suggerire e concordare le offerte da depositare così da determinare il soggetto tra i partecipanti che sarebbe risultato vincitore della gara e contestualmente un prezzo di aggiudicazione economicamente più conveniente per le ditte appaltatrici”;
– in caso di gara con le forme dei pubblici incanti, indetta da vari enti pubblici territoriali, erano organizzate “cordate” di società ed imprese individuali che, preventivamente, concordavano le relative offerte, così “turbando il regolare svolgimento della gara e determinando il soggetto tra i partecipanti che sarebbe risultato vincitore della gara, nonché assicurandosi un prezzo di aggiudicazione economicamente più conveniente”;
– il sodalizio delinquenziale gestiva, inoltre, “i ricavi ed i costi delle varie gare vinte da imprese appartenenti alle cordate dividendo i costi ed i ricavi tra i singoli associati ed affidando, per tale ragione, a ditte agli stessi facenti capo, anche se non ufficialmente appaltatrici né subappaltatrici dei lavori, la concreta esecuzione delle opere pubbliche e ciò grazie all’illegittima compiacenza di pubblici ufficiali, direttori dei lavori, direttori operativi ovvero R.U.P. che consentivano, anche verso corresponsione di denaro od altra utilità, l’effettuazione dei lavori da parte di soggetti diversi dagli aggiudicatari della gara”.
Ai singoli imputati erano, poi, contestati – nei termini, per ciascuno, specificamente indicati in rubrica – numerosi reati e precisamente:
– corruzione aggravata, ai sensi degli artt. 81 cpv., 110, 112 n. 1, 319, 319-bis, 321 cod. pen. (con identiche modalità operative: corresponsione di somme di danaro a funzionari pubblici dipendenti della Provincia di Salerno, in occasione di gare indette con licitazione privata, in cambio della consegna dell’elenco delle ditte da invitare alla gara);
– turbata libertà degli incanti, ai sensi degli artt. 110, 353, comma primo e secondo, cod. pen., con specifico riferimento alle gare ad evidenza pubblica, in concorso con i pubblici ufficiali in servizio presso la Provincia di Salerno, che fornivano l’elenco delle ditte invitate alla gara, mediante il sistema fraudolento del concertato aumento della percentuale di ribasso, al fine di favorire la ditta di volta in volta prescelta per l’aggiudicazione della gara;
– identica contestazione con riferimento a gare di appalto bandite dai Comuni di Battipaglia, Campobasso, Agropoli, Fisciano, Nocera Inferiore;
– corruzione e frode nelle pubbliche forniture, ai sensi dell’art. 356 cod. pen., mediante dazione di danaro al soggetto incaricato della direzione dei lavori perché “non fosse rilevato e contestato alla ditta esecutrice dei lavori l’avvenuta messa in opera di un quantitativo di bitume inferiore rispetto a quello previsto nel capitolato di appalto”;
– falso ideologico in atto pubblico, ai sensi degli artt. 110 e 479 cod. pen., in concorso con pubblici ufficiali, chiamati, di volta in volta, a svolgere funzioni di direttore dei lavori, i quali attestavano falsamente in atti relativi all’esecuzione di opere appaltate (tra cui contabilità dei lavori, stati di avanzamenti, verbali di “carotaggio” ect.) che le stesse erano state eseguite dalla ditta aggiudicataria, ove invece erano state realizzate da altra ditta, riconducibile ad uno degli associati, e tanto avveniva sino alla “relazione sul conto finale e certificato di regolare esecuzione dei lavori” in cui si attestava falsamente che l’impresa aggiudicataria aveva “ottemperato agli obblighi derivanti dal contratto ed agli ordini ed alle disposizioni della direzione dei lavori durante il corso di essi” ed aveva regolarmente eseguito i lavori medesimi, con liquidazione del relativo importo.
2. La sentenza impugnata disponeva, altresì, la confisca per equivalente delle somme di danaro e dei beni sequestrati e, contestualmente, revocava le misure cautelari disposte, a suo tempo, nei confronti di tutti gli imputati, con conseguenziali statuizioni.
3. Avverso l’anzidetta pronuncia, l’avv. Michele Sarno, difensore di C.G. ; l’avv. Sabato Romano, difensore di Ci.Ge. e di Co.Ro. ; l’avv. Nunziante Barlotti, difensore di R.C. ; gli avvocati Guglielmo Scarlato e Lucio Basco, difensori di R.G. ; S.F. , personalmente ed il suo difensore, avv. Dario Vannetiello; l’avv. Anacleto Dolce, difensore di Z.E. , hanno proposto distinti ricorsi per cassazione.
4. Con il primo motivo d’impugnazione, il difensore di C.G. si duole della mancata concessione dell’indulto, che non era stata neppure riservata alla fase esecutiva, con conseguente lesione del diritto di difesa dell’imputato, costretto ad intraprendere nuova iniziativa giudiziale, anche in spregio al principio della ragionevole durata del processo, prescritto dall’art. 111 Cost..
Con il secondo motivo denuncia erronea determinazione del calcolo della pena; erronea individuazione del reato più grave; erronea applicazione della legge penale. A dire del ricorrente, il reato più grave avrebbe dovuto essere individuato in quello previsto dall’art. 476 cod. pen., in luogo dell’associazione per delinquere, come stabilito in sentenza, e tale erronea determinazione aveva comportato l’applicazione di una pena maggiore di quella che avrebbe dovuto essere irrogata e, dunque, una pena contra legem.
5. Il ricorso in favore di Ci.Ge. deduce, con il primo motivo, errata applicazione della legge penale per erronea determinazione della pena, tenuto conto che alcuni reati erano prescritti ancor prima della richiesta di patteggiamento, come quello sub 2, ai sensi dell’art. 353 cod. pen., contestato alla data del 13 luglio 2005, rispetto al quale, secondo il precedente regime della prescrizione, il relativo termine era quinquennale, ampiamente decorso in mancanza di atti interruttivi: così era per le ipotesi delittuose di cui ai capi 3, 4, 5, 6, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20 bis, 21 e per altre ancora.
Con il secondo motivo si lamenta errata applicazione della legge penale in relazione alla disposta confisca per equivalente, sul rilievo che il primo giudice aveva individuato il quantum da confiscare sulla base di ipotesi criminose già prescritte; donde la richiesta di annullamento in parte qua. Mancavano, del resto, i presupposti di legge per l’applicazione della confisca, trattandosi di sentenza di patteggiamento, come tale priva del preliminare accertamento di penale responsabilità.
Ad ogni modo, sarebbe stato necessario attendere l’esito del processo “stralciato” – in corso, con il rito ordinario, nei confronti di altri imputati innanzi al Tribunale di Salerno – al fine di evitare conflitto di giudicati su identica vicenda sostanziale.
6. Il ricorso in favore di R.C. deduce, con il primo motivo, inosservanza di norme processuali. Osserva, al riguardo, che, sebbene all’udienza preliminare fossero stati chiamati e, poi, riuniti due distinti procedimenti (n. 4203/2007 RGNR e n. 1093/2012 RGCR) scaturiti da unica, complessa, indagine in ordine alla stessa vicenda, l’avviso del procedimento in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen., avrebbe dovuto contenere l’intero elenco dei capi di imputazione oggetto dei due procedimenti. Non essendo stata contemplata l’intera platea dei reati per i quali sarebbe poi intervenuto il patteggiamento, erano state violate le norme di cui agli artt. 127, 447, 448 cod. proc. pen., negandosi all’imputato ed ai suoi procuratori speciali la necessaria, preventiva, informazione sui reali contenuti della procedura in corso, con violazione dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., in virtù del quale l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato devono essere garantiti attraverso un adeguato apporto di informazioni, che gli consentano di accedere al rito prescelto in piena consapevolezza.
Con il secondo motivo si deduce erronea applicazione della legge penale. Il primo giudice aveva individuato il reato più grave nell’ipotesi di cui all’art. 416, comma primo, cod. pen., ritenendola autonoma fattispecie delittuosa e non già circostanza aggravante dell’ipotesi base di cui al comma secondo dello stesso articolo. Pertanto, anche la fattispecie contestata sarebbe dovuta rientrare nel bilanciamento con le concesse attenuanti generiche, di talché il reato più grave avrebbe dovuto individuarsi nel falso ideologico di cui agli artt. 476 e 479 cod. pen., con forbice di pena meno ampia di quella prevista dall’art. 416, comma primo, cod. pen. e conseguente più favorevole assetto sanzionatorio. Una pena più contenuta, anche di un solo mese, avrebbe consentito all’imputato di ottenere il beneficio della sospensione condizionale ai sensi dell’art. 163, comma terzo, cod. pen..
7. Il primo motivo del ricorso in favore di R.G. eccepisce inosservanza di norme processuali e sostanziali, sulla base di motivi identici a quelli addotti nel ricorso di R.C. .
8. Il ricorso proposto personalmente da S.F. denuncia violazione di legge. Si osserva, al riguardo, che, a seguito di richiesta di giudizio immediato, proposta dal P.m. il 30 agosto 2012, il G.i.p. del Tribunale di Salerno aveva emesso il relativo decreto di citazione il 6 settembre 2012, dunque nove giorni dopo la richiesta avanzata dal pubblico ministero. Era stata così violata la disposizione dell’art. 455 del codice di rito, secondo cui il giudice, entro cinque giorni, emette decreto con il quale dispone giudizio immediato. La nullità dell’atto introduttivo travolgeva anche le opzioni processuali che il ricorrente aveva dovuto effettuare anzitempo e non già nei termini e nelle forme che la legge gli consentiva; in particolare, aveva dovuto optare per il rito del patteggiamento nell’ambito di un procedimento introdotto contra legem e l’originaria nullità aveva finito con il travolgere l’intera procedura e, quindi, anche la sentenza emessa in esito ad essa.
Con atto depositato l’8 marzo 2013, il difensore dello stesso S. , avv. Dario Vannetiello, propone motivi nuovi, eccependo violazione degli artt. 444 e 129 cod.proc.pen. In particolare, deduce che tutti gli episodi corruttivi anteriori al 12 giugno 2006 (data di esecuzione del titolo custodiale), erano ormai prescritti, secondo il novellato regime della prescrizione. Al riguardo, occorreva tener conto del nuovo termine prescrizionale – pari ad anni sei, decorrente dall’ultimo atto interruttivo e cioè dalla notifica dell’ordinanza di custodia cautelare – e del fatto che il momento consumativo del reato di corruzione coincideva con quello della remunerazione al pubblico ufficiale, che, nel caso di specie, aveva solitamente luogo una decina di giorni prima dello svolgimento della gara (sulla base delle dichiarazioni confessorie del coimputato Ci.Ge. ), mentre, per il reato di cui all’art. 353 cod. pen., coincideva con la data di ciascuna gara d’appalto. All’atto della sentenza impugnata risultavano, così, prescritti numerosi reati, dettagliatamente indicati. Erroneamente, pertanto, il giudice di merito aveva ratificato l’accordo intercorso tra le parti, senza avvedersi dell’avvenuta prescrizione di gran parte dei reati contestati, segnatamente di quelli commessi negli anni 2005-2006, per i quali era stata applicata una frazione di pena in continuazione. Ai sensi dell’art. 6 legge n. 251 del 2005, la rinuncia alla prescrizione richiedeva una dichiarazione di volontà espressa, che non ammetteva equipollenti, di talché la richiesta di patteggiamento non poteva integrare rinuncia a far valere la causa estintiva già maturata. D’altronde, l’intervenuta prescrizione era deducibile con ricorso per cassazione, posto che il mancato rilievo della stessa, da parte del giudice a quo, configurava violazione dell’art. 129 del codice di rito, che impone al giudicante l’obbligo dell’immediato rilievo delle cause estintive del reato. Pertanto, la sentenza impugnata avrebbe dovuto essere annullata senza rinvio, posto che, come da citata giurisprudenza di legittimità, l’errore sulla determinazione della pena, ancorché incidente sulla frazione di pena stabilita, a titolo di continuazione, per i reati fini, travolgeva l’intero accordo inter partes.
Segnala, altresì, che nel ricorso principale era stata chiesta l’estensione delle impugnazioni dei coimputati fondate su motivi “non personali”, segnatamente quella dell’avv. Anacleto Dolce, il quale aveva, specificamente, eccepito la violazione di legge in questione.
Con memoria depositata il 4 settembre 2013 l’avv. Vannetiello deduce ulteriori rilievi critici, contestando, in particolare, la configurabilità dell’implicita rinuncia a far valere la prescrizione, alla stregua del nuovo testo dell’art. 157 cod. pen., in base al quale la rinunzia deve essere formulata in modo espresso. Sostiene, inoltre, che era dovere del giudice il rilievo immediato della prescrizione, ai sensi dell’art. 129 del codice di rito, sicché il giudice dell’udienza preliminare, investito della richiesta di giudizio immediato, avrebbe dovuto far luogo ad immediata declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Tale obbligo s’imponeva anche alla luce della normativa e della giurisprudenza comunitaria, ispirate alla massima semplificazione delle procedure. La relativa violazione, per obiettiva entità, non avrebbe potuto ritenersi sanata per effetto dell’accordo negoziale sulla pena da applicare.
Il ricorrente rettifica, poi, l’erronea indicazione contenuta nella precedente memoria, secondo cui la relativa questione di rito sarebbe stata sollevata nel ricorso principale, ove invece era stata dedotta solo con i motivi nuovi. Ad ogni modo, il ricorso principale non avrebbe potuto considerarsi inammissibile, sì da travolgere i motivi nuovi e, quand’anche così fosse stato, la ritenuta inammissibilità non avrebbe potuto precludere l’estensione allo S. dell’impugnazione dei computati, che, espressamente, avevano eccepito l’anzidetta violazione dell’art. 129 cod. proc. pen., sulla base di “ragioni non personali”, anche alla luce della sentenza di queste Sezioni Unite n. 30347 del 12 luglio 2007.
9. Il ricorso in favore di Co.Ro. è affidato a ragioni di censura identiche a quelle proposte, dallo stesso difensore, in favore di Ci.Ge. .
10. Con unico motivo d’impugnazione il difensore di Z.E. deduce violazione degli artt. 444 e 129 cod. proc. pen. sul rilievo che era stata applicata una pena per fattispecie delittuose oramai prescritte, tenuto conto del nuovo termine prescrizionale e delle dichiarazioni confessorie del coimputato Ci.Ge. , che avevano consentito di accertare l’epoca della dazione di somme al pubblico ufficiale, che, notoriamente, segnava il momento consumativo del delitto di corruzione, di talché tutti i reati commessi negli anni 2005 e 2006 erano ormai prescritti. L’omesso rilievo della prescrizione, che non avrebbe potuto ritenersi rinunciata per effetto della richiesta di patteggiamento, era deducibile in sede di legittimità, sub specie del vizio di violazione dell’art. 129 del codice di rito, che imponeva al giudice l’immediato rilievo e, quindi, il rifiuto di un accordo negoziale riguardante reati ormai prescritti.
11. Con ordinanza del 6 agosto 2013, la Sezione Feriale, rilevato che nella giurisprudenza della Corte di cassazione vi era un contrasto interpretativo sulla rilevanza della richiesta di patteggiamento come rinunzia alla prescrizione, rimetteva i ricorsi all’esame delle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., sul seguente quesito di diritto: “se la presentazione della richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato e il consenso a quella proposta dal pubblico ministero costituiscono una dichiarazione legale tipica di rinuncia alla prescrizione non più revocabile”.
12. Con decreto del 30 agosto 2013, il Primo Presidente assegnava i ricorsi alle Sezioni Unite, disponendone la trattazione alla pubblica udienza del 23 settembre 2013.
13. Con ordinanza emessa in tale udienza, il Collegio disponeva che, a cura della Cancelleria, fosse chiesto al Tribunale di Salerno di indicare l’esistenza di eventuali cause d’interruzione o di sospensione del corso della prescrizione interessante il presente procedimento e di trasmettere copia dei relativi atti.
Assoltosi all’incombente, all’odierna udienza la causa è stata assunta in decisione.

Considerato in diritto

1. È di tutta evidenza che la soluzione della quaestio iuris, sottoposta alla cognizione del Supremo Collegio, postula che sia acquisito in processo il presupposto fattuale della relativa enunciazione e cioè che, realmente, si sia verificata la prescrizione, rispetto alla quale la richiesta di patteggiamento, che abbia ottenuto l’assenso del P.M., possa intendersi come tacita rinuncia a farla valere.
Proprio ai fini dell’acquisizione dei dati conoscitivi, necessari per il preliminare accertamento, è stato emesso il provvedimento ordinatorio indicato in narrativa.
2. Orbene, dall’acquisita documentazione è emerso:
– tutti gli imputati sono stati raggiunti da ordinanza di custodia cautelare, emessa il 1 giugno 2012 ed eseguita il 12 giugno successivo;
– nei loro confronti è stato emesso decreto di giudizio immediato il 6 settembre 2012 e, nell’ambito del relativo procedimento, è stato poi perfezionato il patteggiamento.
Con riferimento a ciascun imputato si è, poi, accertato:
– Ci.Ge. ha reso il 30 e 31 maggio 2008 dichiarazioni spontanee innanzi al P.m. di Salerno; è stato, poi, sottoposto ad interrogatorio, ex art. 64 cod. proc. pen., da parte dello stesso P.m., nei giorni 11, 14, 15, 16, 18 e 24 luglio 2008 e dal G.i.p. il 14 e 20 giugno 2012 ed infine l’11 luglio 2012;
– C.G. , a sua volta, ha reso spontanee dichiarazioni, dinanzi allo stesso P.m., il 27/05/2008; è stato sottoposto ad interrogatorio da parte del G.i.p. il 14 giugno 2012 e dal P.m. il 20 giugno successivo;
– R.G. è stato sottoposto, il 14 giugno 2012, ad interrogatorio, nel corso del quale si è avvalso della facoltà di non rispondere; il 26 luglio 2012, allorquando ha ammesso gli addebiti ed ancora il 1 agosto 2012;
– S.F. è stato sottoposto ad interrogatorio il 14 giugno successivo ed il 4 luglio 2012, allorquando ha ammesso gli addebiti a suo carico;
– Co.Ro. ha reso dichiarazioni spontanee, innanzi al P.m. di Salerno, il 24 maggio 2008;
– Z.E. è stato sottoposto ad interrogatorio il 14 giugno 2012 ed il 27 luglio successivo, allorquando ha ammesso gli addebiti.
3. L’esame dell’acquisita documentazione pone subito due interrogativi di particolare momento ai fini dell’indagine da compiere e, precisamente, quello relativo all’efficacia interruttiva delle dichiarazioni spontanee e quello, subordinato, riguardante l’ambito di esplicazione di detta, eventuale, efficacia nei confronti dei coimputati.
3.1. Il referente normativo d’inquadramento, in ordine alla prima questione, è rappresentato dall’art. 374 cod. proc. pen., recante la rubrica: “Presentazione spontanea”, con riferimento alla fase procedimentale delle indagini preliminari. A mente del comma 1, “[Chi] ha notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini, ha facoltà di presentarsi al pubblico ministero e di rilasciare dichiarazioni”. Soggiunge il comma 2: “Quando il fatto per cui si procede è contestato a chi si presenta spontaneamente e questi è ammesso a esporre le sue discolpe, l’atto così compiuto equivale per ogni effetto ad interrogatorio. In tale ipotesi si applicano le disposizioni previste dagli articoli 64, 65 e 364”.
Dalla perspicua formulazione delle norme anzidette balza evidente che, in caso di spontanea presentazione dell’indagato, qualora gli siano contestati i fatti per cui si procede, le sue dichiarazioni equivalgono, ad ogni effetto, all’interrogatorio.
Considerato, allora, che l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero od al giudice rientra nell’elenco tassativo degli atti aventi efficacia interruttiva del corso della prescrizione, di cui all’art. 160 cod. pen., ne viene, in termini di immediata consequenzialità, che le dichiarazioni rese dall’indagato in sede di presentazione spontanea possono dispiegare efficacia interruttiva, al pari dell’ordinario interrogatorio, in costanza di una duplice condizione: che siano rese all’autorità giudiziaria (e non già, dunque, alla polizia giudiziaria) ed in esito a contestazione del fatto per cui si procede.
In piena aderenza al precipitato normativo, la Corte di cassazione ha avuto modo di statuire che “le dichiarazioni spontanee rese all’autorità giudiziaria equivalgono “ad ogni effetto” all’interrogatorio – dunque anche ai fini dell’interruzione della prescrizione – ex art. 374, comma 2 cod. proc. pen. solo quando vi sia stata una contestazione chiara e precisa del fatto addebitato” (Sez. 1, n. 39352 del 31/10/2002, Sarno, Rv. 222846; Sez. 5, n. 6054 del 22/04/1997, Greco, Rv. 208089). In quest’ultima pronuncia, la Corte ha osservato – in riferimento all’ineludibile presupposto della contestazione del fatto ed alla facoltà attribuita al propalante di esporre le sue difese – che gli atti interruttivi, indicati nell’art. 160 cod. pen., si caratterizzano proprio per essere esplicazione, da parte dei preposti organi statuali, della volontà di esercitare il diritto punitivo in relazione ad un fatto-reato ben individuato e rivolto alla conoscenza dell’incolpato; soggiungendo che “la contestazione, pertanto, rappresenta elemento indefettibile dell’interrogatorio e ragione prima della sua inclusione nell’elencazione tassativa contenuta nella norma predetta, sicché il semplice rilascio di dichiarazioni spontanee non può identificarsi, ontologicamente, con l’atto disciplinato dagli artt. 64 e 65 cod. proc. pen.”.
Orbene, com’é fatto palese dalle intestazioni dei relativi verbali, le dichiarazioni di Ci.Ge. , C.G. e Co.Ro. sono state raccolte dal pubblico ministero proprio nell’ambito procedimentale previsto dall’art. 374 cod. proc. pen.. Risulta, altresì, che nelle anzidette circostanze il P.m., facendo espresso richiamo al comma 2 dello stesso art. 374, ha preliminarmente contestato i fatti “come da provvisoria imputazione elevata e già riportata nel decreto di perquisizione”. In proposito, è certamente vero, come dedotto nelle memorie difensive indicate in narrativa, che gli addebiti formulati nella richiamata provvisoria imputazione riguardavano, in termini generici, il reato associativo sub a) (per avere Ci.Ge. e G. promosso ed organizzato – e Co. solo per aver fatto parte [di] –“un’associazione finalizzata a commettere più reati di corruzione, di turbativa d’asta aggravata e di falso in atti pubblici ed in scrittura privata mediante la costituzione di un cartello tra imprenditori e lo sviluppo dei rapporti collusivi e corruttivi con i pubblici ufficiali preposti alle gare ed ai relativi procedimenti amministrativi”) e, in modo altrettanto generico, il reato sub b), ai sensi degli artt. 81 cpv., 110, 353 cpv., 319 cod. pen., art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (“per avere, agendo in concorso tra loro, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso anche in tempi diversi, posto in essere ripetuti atti di turbativa di gare pubbliche per l’assegnazione dei lavori pubblici, mediante la costituzione di un cartello tra più imprenditori e lo sviluppo di rapporti collusivi e corruttivi con pubblici ufficiali preposti alle gare, in via di identificazione, il fatto commettendo con metodo mafioso ed allo scopo di creare vantaggio ad associazioni di tipo camorristico in via di accertamento”); ma è pur vero che, nel corso dell’escussione, sono stati enunciati – e, via via, puntualmente esaminati ed addebitati – determinati fatti, con riferimento alle gare specificamente indicate ed alle modalità fraudolente con le quali ne veniva inquinato il regolare svolgimento. Né può assumere rilievo la contestazione della speciale aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, poi non coltivata, in quanto il coefficiente di specificità della contestazione deve essere, ovviamente, rapportato alla particolare fase procedimentale in cui si innesta, caratterizzata da immanente fluidità ed ineludibile approssimazione degli addebiti. Non a caso, del resto, i termini delle raccolte specificazioni – che, nel caso di Ci.Ge. , hanno impegnato ben due giorni di audizione (30 e 31 maggio 2008) – sono stati, poi, puntualmente trasfusi nei molteplici capi d’imputazione riportati nell’ordinanza di custodia cautelare e recepiti dalla sentenza di patteggiamento, oggetto delle odierne impugnazioni. D’altronde, è pure significativo – ad ulteriore sottolineatura della valenza contestativa degli addebiti e della piena contezza degli stessi, nella loro specificità – il richiamo alle “parziali dichiarazioni confessorie” degli imputati Giovanni e Ci.Ge. “negli interrogatori resi al P.m. nel mese di maggio del 2008”, contenuto nella stessa sentenza, che le ha, espressamente, incluse nella piattaforma delle evidenze investigative, a fondamento della ritenuta configurabilità delle fattispecie delittuose indicate in rubrica. Si intende dire che i fatti contestati erano tanto specifici che gli anzidetti propalanti hanno finito con il rendere piena confessione in merito e le relative propalazioni sono state, poi, apprezzate dal giudice a quo nella preliminare ricognizione delle risultanze investigative, ai fini della delibazione richiesta dall’art. 129 del codice di rito, nell’ambito della particolare sequenza procedimentale in esso prevista.
Non è superfluo, infine, osservare che, al di là del dato sostanziale, anche il profilo formale depone, univocamente, a favore della ritenuta equiparazione delle anzidette dichiarazioni spontanee all’interrogatorio, in costanza dei pertinenti elementi qualificanti. Ed infatti, le dette dichiarazioni – rese in presenza del difensore di fiducia – sono state precedute dagli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen..
Ed allora, il quesito riguardante la rilevanza delle anzidette dichiarazioni come atto interruttivo della prescrizione deve trovare, nel caso di specie, risposta affermativa. A siffatta opinione non potrebbe, di certo, obiettarsi che, in mancanza di previsione delle dichiarazioni spontanee nel novero degli atti interruttivi della prescrizione di cui all’art. 160 cod. pen., avente carattere tassativo (Sez. U, n. 21833 del 22/02/2007, Iordache, Rv. 236372), l’attribuzione ad esse di valenza interruttiva si risolverebbe in un’interpretazione estensiva in malam partem, posto che l’equiparazione delle stesse all’interrogatorio – che è atto, normativamente, dotato di capacità interruttiva -non è frutto di attività ermeneutica, essendo prevista ex lege dal menzionato art. 374, comma 2, del codice di rito.
3.2. Per quanto concerne, ora, l’ulteriore interrogativo, afferente all’ambito di esplicazione della relativa efficacia, la risposta è ancora una volta offerta dall’impianto codicistico, e precisamente dall’art. 161, comma primo, cod. pen., secondo cui “[la] sospensione e la interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato”. È pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che siffatto effetto “estensivo” prescinda dalla contestuale valutazione procedimentale delle posizioni dei concorrenti, al punto da estendersi anche a coloro che vengano imputati del reato in un momento successivo (Sez. 6, n. 3977 del 14/01/2010, Licciardello, Rv. 245857; Sez. 5, n. 31695 del 07/06/2001, Rizzo, Rv 220190).
L’applicazione dell’anzidetto principio alla fattispecie in esame postula, com’è ovvio, l’individuazione delle specifiche posizioni concorsuali in relazione a ciascun reato, posto che l’estensione prevista dall’art. 161, comma primo, cod. pen., riguarda i concorrenti di un determinato reato e non può, quindi, indiscriminatamente applicarsi a quanti, per ragioni di connessione, siano imputati nello stesso procedimento per fatti diversamente qualificati e contestualizzati.
Ed allora, a parte la contestazione del reato di associazione per delinquere sub a) (ai sensi dell’art. 416, commi primo, secondo, terzo e quinto, cod. pen.) a tutti gli imputati, in qualità di organizzatori e promotori, ad esclusione del solo Co. , imputato di mera partecipazione, occorrerà individuare, per ogni singolo reato – tra i molteplici riportati al capo b) – l’ipotesi del concorso di ciascun imputato con Ci.Ge. , C.G. e lo stesso Co. .
4. Orbene, sulla base delle indicate coordinate può ora procedersi, con riferimento alle specifiche posizioni, al necessario accertamento se, alla data della sentenza impugnata (19 novembre 2012), fosse o meno maturato il termine prescrizionale.
4.1. C.G. : per lui il primo atto interruttivo è rappresentato dalle dichiarazioni spontanee rese il 27 maggio 2008. In virtù della riconosciuta efficacia interruttiva, nessun reato a lui contestato era prescritto alla data anzidetta.
Una sola precisazione si rende necessaria in riferimento al reato sub 117, ascritto, ai sensi degli artt. 81 cpv., 319 e 321 cod. pen., in concorso con Ci.Ge. , con generica indicazione della data di commissione del reato: “dal 2005, 2006, 2008 e sino a febbraio 2008.X Dal contesto della rubrica emerge, chiaramente, che le condotte corruttive riguardavano gare specificamente indicate e, precisamente, quelle nn. 3482, 3701, 3714, 3738 e 3843. Di nessuna di esse è, però, indicata la data di svolgimento. Dal corposo elenco dei capi d’imputazione è dato rilevare solo la data del bando con esclusivo riferimento alla gara n. 3843 (24 febbraio 2006). A fronte di tale indeterminatezza (propria dell’inciso “dal 2005”, cui fa poi seguito la puntuale indicazione degli anni di riferimento: “nel 2006, nel 2007 e sino a febbraio 2008”), nonostante la specificità di azioni corruttive riferite a singole gare, ovviamente in epoca a ciascuna successiva, la parte, che pure ha invocato la prescrizione, non ha fornito alcuna allegazione o valida indicazione di elementi dai quali desumere la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante – seppur genericamente – dagli atti di causa, al fine di chiarire se, effettivamente, alcune di quelle gare fossero state bandite nel 2005 (cfr., sull’onere di allegazione a carico dell’imputato, in ipotesi siffatta: Sez. 3, n. 19082 del 24/03/2009, Cusati, Rv. 243765; Sez. 3, n. 10562 del 17/04/2000, Fretto, Rv. 217575).
4.2. Ci.Ge. : anche per lui le dichiarazioni spontanee del 30 e 31 maggio 2008 spiegano efficacia interruttiva della prescrizione, di talché, nessuno dei reati a lui ascritti, tenuto conto delle date di contestazione e dei termini massimi di prescrizione, era estinto alla data della sentenza di patteggiamento. In particolare, al di là, anche per lui, della generica contestazione temporale quanto ai reati di falso (“sino al”), le falsità riguardavano atti successivi alle determinazioni dirigenziali relative a ciascuna gara (per il capo 79, la determinazione del 26 settembre 2005; per il capo 81 la determinazione del 23 settembre 2005 e per il 107 quella del 22 novembre 2002), sicché, con riferimento a ciascuna di esse – pur applicando il più favorevole termine prescrizionale, quello della nuova disciplina, pari ad anni dieci e, nella massima estensione, per effetto di atti interruttivi, ad anni dodici e mesi sei – la prescrizione non era certamente maturata alla data dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare e, quindi, alla data della sentenza di patteggiamento.
Anche per Ci.Ge. , in relazione al reato di cui al capo 117, valgono le osservazioni fatte per la posizione di C.G. .
4.3. R.C. : per lui il primo atto interruttivo è l’ordinanza di custodia cautelare del 1 giugno 2012. Ed allora, per quanto riguarda i reati sub 31 e 39 ter, in ragione del ritenuto concorso con C.G. e Ge. , si estende l’efficacia interruttiva delle dichiarazioni spontanee da loro rese, di talché la prescrizione, per gli anzidetti reati, é maturata, rispettivamente, il 27 agosto 2013 ed il 1 luglio 2013, dunque successivamente alla sentenza di patteggiamento.
Invece, per i reati di cui ai capi 108, 109, 110 e 111, ascritti in concorso con R.G. , la prescrizione sarebbe davvero maturata alla data della pronuncia anzidetta, limitatamente al periodo di tempo sino al 31 maggio 2012, tenuto conto che il primo atto interruttivo coincide con la data di emissione dell’ordinanza di custodia cautelare (1 giugno 2012). L’intervenuta prescrizione non può, però, essere rilevata in questa sede, posto che la questione della rinuncia alla prescrizione, alla base del quesito oggi all’esame delle Sezioni Unite, non è stata sollevata nel relativo ricorso né – per quanto si dirà – può essere estesa all’imputato l’identica eccezione sollevata da altri ricorrenti.
4.4. R.G. : anche per lui il primo atto interruttivo è riferibile all’emissione del titolo custodiale; sennonché, in ragione dell’efficacia interruttiva da riconoscere alle dichiarazioni spontanee di C.G. e Ge. , non sono prescritti i reati di cui ai capi 4, 5, 20-bis, 21, 24, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 37, 38, 39-bis, 39-ter, per i quali, diversamente, sarebbe maturata la prescrizione prima della sentenza di patteggiamento.
Come per R.C. , all’atto di tale pronuncia, sarebbero invece prescritti i reati da 108 a 111, limitatamente al periodo di tempo sino al 31 maggio 2012, ma l’omesso rilievo della causa estintiva, da parte del giudice a quo, non può essere supplito da una pronuncia di questa Corte, per le ragioni sopra indicate, in riferimento alla posizione del predetto coimputato.
4.5. S.F. : anche per lui il primo atto interruttivo è rappresentato dall’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare, sicché a quella data la prescrizione sarebbe maturata per i seguenti reati: 6, 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 16, 20, 20-bis, 21, 23, 24, 26, 27, 29, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 39, 39-bis, 39-ter, 39-quater e 112. Nondimeno, per effetto dell’estensione dell’efficacia estintiva delle dichiarazioni spontanee dei coimputati C.G. e Ge. e di C.R. non erano prescritti, a quella data, i reati sub 6, 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 16, 20, 20-bis, 21, 23, 24, 26, 27, 29, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 39, 39-bis, 39-ter e 39-quater. All’apparenza, resterebbe escluso il reato sub 112, che reca la data di contestazione “nell’anno 2006”. Sennonché, dal corpo della contestazione risulta che si tratta di fatti corruttivi posti in essere nei confronti del direttore dei lavori dell’appalto di cui alla gara 3893, aggiudicati alla “MP Lavori srl”, ma di fatto eseguiti dallo stesso S. . La gara in questione risulta, però, bandita nel 2007, come emerge dall’imputazione sub 60), riguardante la turbativa proprio di tale gara, con contestazione al 23 aprile 2007. Dunque, l’indicazione temporale del reato sub 112 è frutto di evidente errore materiale, di talché neppure tale reato era prescritto alla data dell’emissione del titolo custodiate e, quindi, alla data della pronuncia di patteggiamento. In conclusione, nessuno dei reati ascritti allo S. era prescritto alla data anzidetta.
4.6. Co.Ro. : per lui le spontanee dichiarazioni rese il 24 maggio 2008, per quanto si è detto, hanno rilevanza interruttiva, sicché, alla data di emissione dell’ordinanza custodiale e, quindi, della sentenza di patteggiamento, nessuno dei reati contestati era estinto per prescrizione.
4.7. Z.E. : anche per lui il primo atto interruttivo coinciderebbe con la data di emissione del titolo custodiale; nondimeno, in virtù del contestato concorso con C.G. , Ci.Ge. e Co.Ro. nessuno dei reati ascritti ai capi 2, 16, 20 bis, 21, 29, 30, 35, 39, 39-bis, 39-ter, 39-quater era prescritto al 1 giugno 2012, all’atto dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare, e quindi alla data della sentenza di patteggiamento.
5. Così delineata la posizione di ciascun imputato riguardo alla prescrizione asseritamente maturata alla data della sentenza impugnata, per nessuno dei reati a ciascuno contestati la prescrizione era all’epoca intervenuta, ad esclusione dei reati sub 108, 109, 110, e 111 ascritti a R.C. e G. , limitatamente – pur nella genericità della contestazione – a non specificati fatti corruttivi posti in essere nell’anno 2006 sino al 31 maggio 2006, tenuto conto del termine ordinario di prescrizione, pari ad anni sei, e del primo atto interruttivo, per tutti coincidente con la data di emissione dell’ordinanza di custodia cautelare. Sennonché, per nessuno dei due imputati, odierni ricorrenti, era stata sollevata la questione della rinuncia alla prescrizione, che è alla base del quesito oggi all’esame delle Sezioni Unite né vi sono motivi, ritualmente proposti da altri, che possano ad essi estendersi, stante l’inammissibilità dei ricorsi che li contengono, come si dirà più oltre.
6. Da quanto precede balza, allora, evidente l’irrilevanza della questione oggi sottoposta all’esame del Supremo Collegio, in quanto per nessun reato la prescrizione era maturata alla data della sentenza di patteggiamento, ad esclusione dei reati di cui si è detto, in ordine ai quali, però, la questione é, comunque, ininfluente per le già dette ragioni.
7. Non resta, quindi, che procedere all’esame delle singole impugnazioni.
7.1. C.G. . Il primo motivo del ricorso proposto dall’avv. Michele Sarno, relativo alla mancata concessione dell’indulto ed al difetto motivazionale al riguardo, é palesemente infondato. Ed infatti, la richiesta del beneficio non faceva parte della piattaforma negoziale sulla quale si è perfezionato il consenso delle parti e, anche se così fosse stato, avrebbe dovuto considerarsi tamquam non esset, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle stesse parti, secondo consolidato insegnamento di questa Corte (Sez. 3, n. 41875 del 09/10/2008, Poneti, Rv. 241411, secondo cui “in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, l’applicazione dell’indulto è sottratta alla disponibilità delle stesse, con la conseguenza che la pattuizione avente ad oggetto l’applicazione di tale beneficio, se inserita nell’accordo, è da considerare come mai apposta”; Sez. 2, n. 25923 del 10/06/2008, De Silvio, Rv. 240776; Sez. 5, n. 4132 del 20/09/1999, Benati, Rv. 214483). D’altronde, é del tutto inlnfluente la mancata riserva di applicazione del beneficio alla fase esecutiva, in quanto una siffatta statuizione non sarebbe stata, in alcun modo, condizionante della facoltà – comunque, impregiudicata – di farne apposita richiesta in executivis.
Palesemente inammissibile è anche la seconda censura, relativa alla procedura di determinazione della pena, sul riflesso che il reato più grave avrebbe dovuto essere individuato in quello previsto dall’art. 476 cod. pen.; e che tale erronea determinazione aveva comportato l’applicazione di una pena maggiore di quella, diversamente, applicabile e, dunque, una pena contra legem.
Orbene, dalla sentenza impugnata risulta che, sulla base del calcolo della pena proposto dalle parti e ritenuto corretto dal giudice a quo, il reato più grave è stato individuato nell’art. 416, comma primo, cod. pen. (capo a): anni tre di reclusione aumentata da anni cinque per la continuazione con i reati di corruzione, turbativa d’asta e falso ideologico in atto pubblico ascritti ai capi specificamente indicati; con pena finale determinata in anni tre e mesi cinque di reclusione per effetto della diminuente di rito.
La censura relativa alla determinazione della pena concordata – e stimata corretta dal giudice di merito – non può, notoriamente, essere dedotta in sede di legittimità, al di fuori dell’ipotesi di determinazione contra legem. Ipotesi che, di certo, non ricorre nel caso di specie, in quanto se è vero che, in linea astratta, il falso ideologico – nella configurazione relativa ad atto o parte di esso che faccia fede fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 476, comma secondo, cod. pen. – è reato più grave di quello associativo (in quanto punito, in quell’ipotesi, con pena da tre a dieci anni di reclusione, rispetto alla pena edittale dell’art. 416 comma primo, fissata nella misura da tre a sette anni di reclusione), è evidente che, nel caso di specie, le parti hanno, comunque, convenuto nell’individuazione del reato più grave nella fattispecie associativa, senza che siffatta valutazione possa integrare violazione di legge. Del resto, non si vede quale concreto interesse potrebbe mai avere l’imputato a dolersi, oggi, dell’individuazione del reato più grave, nell’ambito di una procedura di calcolo da lui stesso proposta, in fattispecie delittuosa punita meno severamente di altra, pur ricompresa nella piattaforma negoziale, ed in che modo – neppure specificato – la misura della pena, fissata sulla base dell’erronea indicazione del più grave reato (in luogo di altro più severamente sanzionato), sarebbe stata davvero maggiore di quella altrimenti dovuta (Sez. 6, n. 7405 del 07/02/2013, Vallone, Rv. 254502 in ordine alla necessità di un interesse concreto ad impugnare una sentenza di applicazione della pena, donde l’inammissibilità di ricorso che deduca “presunti errori di calcolo nella sanzione applicata o il mancato aumento della stessa in ragione della continuazione, qualora il medesimo non indichi l’esistenza di una concreta utilità alla rimozione del provvedimento impugnato”).
7.2. Ci.Ge. . Il primo motivo del ricorso, proposto dall’avv. Romano Sabato, relativo all’asserita prescrizione di alcuni reati al momento della pronuncia della sentenza impugnata, è – per quanto si è detto – palesemente infondato, giacché, in ragione dell’efficacia interruttiva delle dichiarazioni spontanee rese dallo stesso C. il 30 e 31 maggio 2008, nessuno dei reati a lui ascritti era prescritto alla data anzidetta.
Palesemente infondata è anche la seconda censura, in tutti i profili di doglianza in cui si articola. Ed infatti, il preteso errore nella determinazione del quantum confiscabile in ragione dell’applicazione anche a fatti-reato oramai prescritti, è inesistente per i motivi sopra indicati, posto che nessun reato era prescritto alla data del patteggiamento.
Manifestamente infondato è anche il secondo profilo di censura, relativo alla pretesa mancanza dei presupposti della misura ablatoria, considerato che l’art. 322-ter cod. pen. consente l’applicazione della confisca per equivalente anche in caso di patteggiamento, essendo solo necessaria l’individuazione specifica delle somme di danaro o dei beni da sottoporre a vincolo (Sez. 3, n. 31742 del 28/03/2013, Senzacqua, Rv. 256734). Individuazione che, nella pronuncia impugnata, non ha fatto certamente difetto.
Infine, il rilievo afferente alla mancata sospensione del procedimento – in attesa dell’esito del processo stralciato, in corso con il rito ordinario innanzi al Tribunale di Salerno – prima ancora che sostanzialmente infondato, è improponibile in questa sede di legittimità.
7.3. R.C. . Il primo motivo dell’avv. Nunziante Barlotti, relativo alla mancata indicazione nell’avviso di udienza camerale di tutti i capi d’imputazione risultanti dalla riunione di due procedimenti e del conseguente difetto di informazioni necessarie per una compiuta contezza degli addebiti, ai fini di un’opzione davvero consapevole per il rito speciale, è manifestamente infondato. Ed invero, a parte il profilo d’inammissibilità connesso alla genericità della sua formulazione, in mancanza di specificazione dei reati che sarebbero stati esclusi dalla platea di quelli, poi, oggetto di patteggiamento, ogni questione di rito deve ritenersi preclusa dal perfezionato accordo sulla pena (Sez. 2, n. 17384 del 06/04/2011, Coman, Rv. 250074; Sez. 5, n. 1445 del 24/03/2000, Procopio, Rv. 216318).
La seconda doglianza, relativa alla procedura di calcolo della pena concordata, con riferimento a pretesa erronea determinazione del reato più grave, ed alla qualificazione giuridica del reato associativo, di cui al l’art. 416, comma primo, cod. pen. in termini di fattispecie autonoma o circostanza aggravante, è palesemente inammissibile. Ed infatti, quanto alla procedura di determinazione della pena concordata, ogni doglianza in merito è preclusa in questa sede di legittimità, al di là dell’ipotesi di determinazione contra legem, come già osservato con riferimento ad analoga censura proposta dai coimputati C. , sulla base di motivazione alla quale va fatto, ora, integrale richiamo. E, per quanto concerne il profilo del nomen iuris, è risaputo che, per indiscusso insegnamento giurisprudenziale di legittimità, in tema di patteggiamento, il ricorso per cassazione può denunciare anche l’erronea qualificazione giuridica del fatto, così come prospettata nell’accordo negoziale e recepita dal giudice, in quanto la qualificazione giuridica è materia sottratta alla disponibilità delle parti e l’errore su di essa costituisce errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. (Sez. U, n. 5 del 19.1.2000, Neri, Rv. 215825; Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, non massimata sul punto). Nondimeno, l’errore sul nomen iuris deve essere manifesto, secondo l’anzidetto insegnamento, che ne ammette la deducibilità nei soli casi in cui sussista l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità (Sez. 4, n. 10692 del 11/03/2010, Hernandez, Rv. 246394). Nel caso di specie, la deducibilità dell’errore deve essere esclusa, non risultando prima facie erronea o strumentale la qualificazione giuridica dei fatti, così come proposta dalle parti e positivamente delibata dal giudice a quo.
7.4. R.G. . Il ricorso proposto dagli avvocati Giuseppe Scarlato e Lucio Basco è articolato su ragioni di censura identiche a quelle addotte a sostegno dell’impugnazione in favore di R.C. e, pertanto, non può che condividerne l’epilogo decisionale in termini d’inammissibilità, sulla base di motivazioni identiche a quelle sopra espresse, alle quali può farsi, ora, integrale richiamo.
7.5. S.F. . In tutta evidenza, é inammissibile il ricorso proposto, personalmente, dall’imputato, riguardante l’asserita pretesa inosservanza del termine di legge per l’emissione del decreto di giudizio immediato. Si tratta, invero, di questione di rito oramai preclusa dal perfezionamento dell’accordo negoziale che sostanzia il patteggiamento.
L’inammissibilità del ricorso principale si estende, ai sensi art. 585, comma 4, cod. proc. pen. ai motivi nuovi dedotti dall’avv. Dario Vannetiello nelle memorie dell’8 giugno e del 4 settembre 2013, che, ad ogni modo, sarebbero stati, già di per sé, inammissibili in quanto non attinenti, né funzionalmente connessi, a quelli del ricorso principale.
Inutilmente, viene poi sollecitata – in linea gradata, per l’ipotesi d’inammissibilità del ricorso principale – l’estensione del motivo di ricorso proposto dall’avv. Anacleto Dolce in favore di Z.E. , in ordine all’intervenuta prescrizione di reati al momento del patteggiamento ed all’impossibilità giuridica di ritenere che la richiesta di patteggiamento comporti tacita rinuncia alla prescrizione. Infatti, a parte la non estensibilità dell’indicato motivo, giacché – come si dirà – lo stesso è a sua volta inammissibile, il problema di un’eventuale estensione non potrebbe, comunque, neppure porsi per lo S. , per la sola ragione che, come si é visto, nessuno dei reati a lui ascritti era estinto per prescrizione alla data della sentenza di patteggiamento.
Per quanto concerne, infine, i rilievi critici formulati dalla stessa difesa nella memoria depositata il 22 novembre 2013, in ordine alla contestata valenza interruttiva delle dichiarazioni spontanee rese dai coimputati C. e Co. , è sufficiente il richiamo alle superiori argomentazioni addotte a sostegno della contraria opinio espressa da questa Corte.
Resta da dire di un ultimo interrogativo posto dal difensore, in ordine alla pretesa impossibilità di riferire quell’efficacia interruttiva a chi, come lo S. , al momento delle anzidette dichiarazioni non era neppure indagato, come attestato dall’iscrizione del suo nominativo nel relativo registro soltanto il 3 giugno 2008, dunque successivamente a quelle stesse dichiarazioni.
Anche tale rilievo è privo di fondamento alla stregua di indiscusso insegnamento di questa Corte, secondo cui l’estensione degli effetti degli atti interruttivi nei confronti di “tutti coloro che hanno commesso il reato”, a mente dell’art. 161 comma primo, cod. pen., non postula, come si è già detto, la contestualità né la contemporaneità delle imputazioni, tanto da applicarsi sia nel caso in cui, per taluno dei concorrenti, si proceda con separato giudizio (Sez. 3, n. 4719 del 20/01/1984, Rv. 164324) sia nel caso in cui l’imputazione sia stata elevata in un momento successivo e, persino, ove il primo imputato sia stato prosciolto (Sez. 6, n. 3977, Licciardello, cit.; Sez. 4, n. 8316 del 11/06/1982, Rv. 155225; Sez. 3, n. 5551 del 22/02/1982, Rv. 154087).
7.6. Co.Ro. . Il primo motivo del ricorso proposto dall’avv. Romano Sabato, con riferimento all’asserita prescrizione di alcuni reati ascritti all’imputato già alla data della sentenza di patteggiamento, è palesemente infondato, giacché – per quanto si è detto – nessun reato era prescritto a quella data, alla stregua, peraltro, della riconosciuta efficacia interruttiva delle dichiarazioni spontanee rese dallo stesso Co. il 24 maggio 2008.
La seconda articolata censura – identica alla corrispondente, dedotta dallo stesso difensore, in favore di Ci.Ge. – riguardante la confisca per equivalente e la mancata sospensione del processo, è manifestamente infondata, in tutti i profili di doglianza in cui si sostanzia, per le stesse motivazioni sopra addotte, alle quali può farsi integrale richiamo in questa sede.
7.7. Z.E. . Il motivo proposto dal difensore, avv. Anacleto Dolce, riguardante l’asserita prescrizione di taluni reati al momento della pronuncia di patteggiamento e la conseguente violazione dell’art. 129 cod. proc. pen., per il mancato rilievo della causa estintiva da parte del giudice a quo, è palesemente infondato perché – alla luce di quanto si è osservato nella parte relativa alla prescrizione – nessuno dei reati ascritti allo Z. era, all’epoca, prescritto.
8. Per le ragioni che precedono, tutti i ricorsi sono inammissibili e tali vanno, dunque, dichiarati, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al pagamento della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

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