SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
SENTENZA 24 aprile 2012, n.15933
1. Con sentenza del 14 marzo 2002, A..R. fu assolto dal Tribunale di Vicenza dal delitto di calunnia, commesso il (omissis).
Su impugnazione del pubblico ministero, la Corte di appello di Venezia, con sentenza del 1 aprile 2010, ha invece ritenuto sussistente il reato contestato all’imputato (avente a oggetto la falsa denuncia di smarrimento di un assegno già negoziato al fine di impedirne la riscossione), ma ha al contempo rilevato l’estinzione del medesimo per intervenuta prescrizione.
Nel decidere se nel caso di specie dovesse applicarsi o no al R. la più favorevole disciplina dei termini di prescrizione introdotta dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, la Corte veneziana – prendendo atto della sentenza delle Sezioni Unite n. 47008 del 29/10/2009, D’Amato, che ha individuato nella sentenza di condanna dell’imputato di primo grado l’atto idoneo a segnare la pendenza in grado d’appello – ha ritenuto che con tale pronuncia è stato sostanzialmente affermato il principio secondo cui il limite alla retroattività della lex mitior sarebbe definito dalla sopravvenienza di un atto interruttivo della prescrizione idoneo a segnare, per l’appunto, la pendenza dei grado d’appello.
In tal senso, atteso che la sentenza di assoluzione, al contrario di quella di condanna (oggetto della fattispecie decisa dalle Sezioni Unite), non costituisce atto interruttivo della prescrizione ai sensi dell’art. 160 cod. pen., i giudici veneziani hanno individuato (in linea con uno degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità) lo spartiacque tra vecchio e nuovo regime della prescrizione nel decreto di citazione per il giudizio d’appello, nella specie emesso il 28 dicembre 2009, successivamente all’entrata in vigore della nuova e più favorevole disciplina dei termini di prescrizione introdotta nel dicembre del 2005.
Applicandosi dunque al reato contestato al R. il nuovo e più favorevole termine configurato dalla novella e considerati gli atti interruttivi intervenuti durante il suo decorso, il provvedimento impugnato ha ritenuto compiuta la prescrizione nel caso di specie al 14 marzo 2008.
2. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia, che con unico motivo ne ha chiesto l’annullamento per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale.
Il ricorrente, dopo aver precisato che la citata sentenza delle Sezioni Unite ha inteso risolvere la questione della retroattività della norma transitoria con esclusivo riferimento al caso in cui il giudizio di primo grado si sia concluso con la condanna dell’imputato, contesta che tale decisione implichi che, anche nel caso di proscioglimento, la pendenza in grado d’appello del procedimento debba essere segnata da un atto idoneo a interrompere la prescrizione.
Afferma – diversamente da quanto sostenuto dai giudici d’appello – che, in caso di assoluzione in primo grado dell’imputato, la pendenza nel grado d’appello del procedimento sarebbe segnata dalla presentazione dell’atto d’impugnazione o, in subordine, dal ricevimento degli atti da parte del giudice investito della stessa. Ciò egli assume sottolineando, per un verso, che anche nel caso di sentenza assolutoria di primo grado rimane “immutata l’esigenza di tutelare il valore dell’efficienza della giurisdizione e del processo, al quale è stato ripetutamele riconosciuto rango costituzionale” e che, per altro verso, tale valore sarebbe irrimediabilmente sacrificato aderendo alla soluzione propugnata nel provvedimento impugnato, atteso che l’emissione del decreto ex art. 601 cod. proc. pen. può seguire – e di fatto spesso segue – di molti anni l’impugnazione della pronunzia di primo grado.
In conclusione il ricorrente evidenzia come, aderendo alla tesi propugnata dalla Corte di appello, si procrastinerebbe artificiosamente la pendenza del primo grado di giudizio, proiettando seri dubbi sulla compatibilità costituzionale di tale soluzione interpretativa.
3. In vista dell’udienza della Sesta Sezione, cui era stato assegnato il ricorso, i difensori dell’imputato hanno depositato una memoria, nella quale respingono le tesi del ricorrente, richiamando integralmente la motivazione di una pronunzia di legittimità (Sez. 6, n. 39592 del 02/11/2010, Barbisan) che ha ribadito l’orientamento seguito nel provvedimento impugnato. La difesa dunque invoca il rigetto del ricorso, evidenziando che effettivamente al momento dell’emissione del decreto ex art. 601 cod. proc. pen., il quale avrebbe segnato la pendenza in grado d’appello del procedimento, il reato ascritto all’imputato era già prescritto.
Per il caso in cui si dovesse invece aderire alla tesi del ricorrente, ritenendo dunque la pendenza in grado d’appello ancorata a fatti processuali antecedenti e in grado di escludere il già avvenuto perfezionamento della causa estintiva, la difesa solleva in via subordinata questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione, in quanto la disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 3 cod. pen. derogando irragionevolmente al principio di retroattività della lex mitior sancito dall’art. 2, comma quarto, cod. pen.. In proposito la difesa prospetta come la questione non possa ritenersi superata a seguito dei ripetuti interventi della Corte costituzionale in materia (sentenze n. 393 del 2006 e n. 72 del 2008), proprio perché in tali occasioni il giudice delle leggi si sarebbe occupato esclusivamente del caso in cui il giudizio di primo grado si concluda con sentenza di condanna, mentre nella diversa ipotesi della sentenza assolutoria apparirebbe irragionevole consentire l’irretroattività dei più favorevoli termini di prescrizione in ragione dell’intervento di un atto (la sentenza di assoluzione per l’appunto) che non è annoverato tra quelli idonei a interromperne il corso.
Con l’eccezione in oggetto viene prospettata più in generale l’irragionevolezza di un’interpretazione che consentisse di individuare il limite della retroattività della legge più favorevole in fatti processuali inidonei a interrompere il corso della prescrizione.
In ulteriore subordine la difesa solleva altresì questione di legittimità costituzionale della medesima norma transitoria per contrasto con l’art. 117 Cost. per il tramite della norma interposta costituita dall’art. 7, comma 1, CEDU, nella parte in cui limita la retroattività delle più favorevoli disposizioni sui termini di prescrizione introdotti dalla legge n. 251 del 2005 ai procedimenti non già pendenti in grado di appello alla data dell’entrata in vigore della suddetta legge.
4. Con ordinanza del 22 febbraio 2011, la Sesta Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa all’individuazione del momento in cui il processo debba ritenersi, ai fini dell’applicazione della disciplina transitoria di cui alla legge n. 251 del 2005, pendente in grado di appello nel caso di sentenza di assoluzione in primo grado, registrando sul punto l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte.
I giudici rimettenti rilevano come la specifica questione sia stata oggetto di due contrapposte decisioni, entrambe adottate nel 2008.
La prima (Sez. 3, n. 18765 del 06/03/2008, Brignoli, Rv. 239868) individua nella sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione, il discrimine per l’applicazione della norma transitoria, così come disegnata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006, poiché essa conclude il processo di primo grado e segna il passaggio tra vecchia e nuova disciplina a prescindere dalla sopravvenienza di atti interruttivi della prescrizione.
La seconda pronunzia (Sez. 6, n. 7112 del 25/11/2008, dep. 2009, Perrone, Rv. 242421), invece, fa coincidere la pendenza del processo d’appello con l’emissione del relativo decreto di citazione a giudizio, quale primo atto, successivo alla conclusione del giudizio di primo grado, idoneo a interrompere la prescrizione, ritenendo che la ricerca di un atto di tal genere, come discriminante ai fini dell’applicazione dell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, è imposta dalla lettura della motivazione della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale.
5. Il Primo Presidente, con decreto del 25 luglio 2011, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite e ha fissato per la trattazione l’odierna udienza.
Considerato in diritto
1. La questione controversa rimessa al giudizio delle Sezioni Unite attiene alla “individuazione del limite posto dai legislatore alfa retroattività della nuova disciplina della prescrizione, là dove più favorevole rispetto a quella previgente, introdotta dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nell’ipotesi in cui il procedimento di primo grado si sia concluso con sentenza di assoluzione”.
La legge n. 251 del 2005, nel disporre una nuova disciplina in materia di prescrizione, introdusse la norma transitoria (art. 10, comma 3), secondo cui: “Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione”.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 393 del 2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto comma 3 limitatamente alle parole “dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché”.
Per effetto di tale intervento manipolativo sul testo dell’art. 10, i più favorevoli termini di prescrizione introdotti dalla legge 251 del 2005 si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge (8 dicembre 2005), “ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione”.
Come la stessa Corte costituzionale ha avuto occasione di sintetizzare nella sentenza n. 72 del 2008, la sentenza n.393 del 2006 “ha affermato che la prescrizione esprime l’interesse generale di non perseguire più i reati rispetto ai quali sia trascorso un periodo di tempo che, secondo la valutazione del legislatore, ha comportato l’attenuazione dell’allarme sociale e reso più difficile l’acquisizione del materiale probatorio (e, quindi, l’esercizio del diritto di difesa), e che la norma volta a ridurre i termini di prescrizione del reato si colloca fra le disposizioni più favorevoli al reo di cui all’art. 2, quarto comma, del codice penale. Da tale norma codicistica (e da una serie di dati risultanti dai trattati internazionali e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee) si ricava la regola dell’applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli al reo: deroghe a tale regola sono possibili solo se superano un vaglio positivo di ragionevolezza in quanto mirino a tutelare interessi di analogo rilievo rispetto a quelli soddisfatti dalla prescrizione (efficienza del processo, salvaguardia dei diritti dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale) o relativi a esigenze dell’intera collettività connesse a valori costituzionali. In particolare, la deroga al regime della retroattività delle disposizioni più favorevoli al reo è ammissibile nei confronti di norme che riducano i termini di prescrizione del reato, purché essa sia coerente con la funzione assegnata dall’ordinamento all’istituto della prescrizione e tuteli interessi del tipo indicato”.
L’espressione “ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione”, che nell’originario testo aveva un valore pleonastico (tanto che non veniva neppure definita la nozione di pendenza in grado d’appello, in quanto tutti i problemi di diritto transitorio erano già risolti dalla prima parte della norma), ha assunto un valore effettivo e centrale di diritto transitorio a seguito dell’intervento demolitorio effettuato dalla Corte costituzionale, con la conseguenza che l’individuazione del senso da dare al discrimine tra pendenza in primo grado e pendenza in grado d’appello rappresenta un momento gravido di rilevanti conseguenze.
2. Sull’esatta individuazione del limite posto dal legislatore alla retroattività della più favorevole disciplina dei termini di prescrizione, la giurisprudenza di legittimità ha manifestato diversi orientamenti, determinati anche dalla mancanza, nell’ordinamento processuale penale – a differenza di quello civile – di una definita nozione di ‘pendenza in grado d’appello’, appena evocata dall’art. 17 cod. proc. pen..
Le Sezioni Unite, con sentenza n. 47008 del 29/10/2009, D’Amato, Rv. 244810, hanno composto tale contrasto in relazione alla fattispecie loro rimessa, relativa a procedimento conclusosi con sentenza di condanna in primo grado di giudizio, ribadendo, secondo l’indirizzo maggioritario, che ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli, è determinata proprio dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado.
Nella giurisprudenza della Corte è stato affrontato anche lo specifico profilo della determinazione della pendenza in grado d’appello in caso di conclusione del primo grado di giudizio con sentenza assolutoria. E sul punto, come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione, si sono sviluppati (anche prima dell’indicato intervento delle Sezioni Unite) orientamenti di segno diverso.
2.1. Un primo orientamento si è espresso con la sentenza Sez. 3, n. 18765 del 06/03/2008, Brignoli, Rv. 239868, che, nei dichiarare manifestamente infondata l’eccezione d’illegittimità relativa a procedimento in cui il primo grado di giudizio si era per l’appunto concluso con sentenza di proscioglimento, poi riformata nel grado successivo, ha attribuito al criterio normativo di discrimine della retroattività della lex mitior una valenza onnicomprensiva, affermando che il criterio giustificativo della deroga al principio di retroattività della legge più favorevole non va individuato nell’idoneità o meno della sentenza di primo grado a interrompere la prescrizione, bensì nella ragionevole esigenza di tutelare il valore, di rango costituzionale, dell’efficienza della giurisdizione e del processo, esigenza comune anche ai procedimenti definiti in primo grado con sentenza di proscioglimento. Pur ribadendo, nella scia dell’orientamento maggioritario, che la pendenza in grado d’appello coincide con la pronunzia di primo grado, la predetta sentenza svaluta l’argomento legato all’efficacia interruttiva della prescrizione dell’incombente processuale che sarebbe preso in considerazione dalla norma transitoria, esaltando per converso il valore costituzionale tutelato attraverso la scansione introdotta da quest’ultima (l’efficienza del processo), radicato in maniera ragionevole nella cesura tra i due gradi di giudizio, senza che assuma una rilevanza decisiva l’inclusione nell’elenco contenuto nell’art. 160 cod. pen. dell’atto che tale cesura determina. Pertanto è la sentenza che conclude il grado di giudizio, in quanto tale, a condizionare la retroattività delle norme sulla prescrizione, a prescindere dal fatto che sia di condanna o di assoluzione.
Alle medesime conclusioni, decidendo però un caso in cui in primo grado era stata pronunziata sentenza di condanna dell’imputato, perveniva pressoché contemporaneamente Sez. 2, n. 17349 dell’11/03/2008, Rabita, Rv. 240403, la quale ha ancor più esplicitamente affermato come la norma transitoria, alla luce degli interventi del giudice delle leggi, riveli l’intenzione di accordare applicazione retroattiva alle più favorevoli disposizioni in tema di prescrizione introdotte nel 2005 esclusivamente ai procedimenti ancora pendenti in primo grado. Ciò implica che il limite di operatività di tali disposizioni non può che essere rappresentato dalla sentenza che tale grado di giudizio conclude, introducendo una scansione temporale per gradi ulteriori dello stesso giudizio.
2.2. Il contrapposto orientamento trova la sua origine nella sentenza Sez. 6, n. 7112 del 25/11/2008, dep. 2009, Perrone, Rv. 242421, la quale ritiene che la soluzione maggioritaria sia inapplicabile quando il giudizio di primo grado si sia concluso con una sentenza di assoluzione, inidonea a determinare l’interruzione del corso della prescrizione ed afferma che, nell’ipotesi in cui il giudizio di primo grado abbia avuto un esito diverso dalla sentenza di condanna, inevitabilmente deve farsi riferimento al decreto di citazione per il giudizio d’appello di cui all’art. 601 cod. proc. pen., che rappresenta il primo atto in sequenza procedimentale che riveste carattere di atto interruttivo della prescrizione ed è espressamente annoverato tra tali atti dall’art. 160 cod. pen..
La pronunzia in esame delinea dunque un assetto a ‘geometria variabile’ della nozione di “procedimenti già pendenti in grado di appello” evocata dalla norma transitoria, a seconda che il giudizio di primo grado si sia concluso con sentenza di condanna ovvero di assoluzione.
Tale impostazione è stata successivamente seguita da Sez. 5, n. 25470 del 16/04/2009, Lata, Rv. 243898, la quale, dopo aver evidenziato come la volontà espressa attraverso la norma transitoria e il senso dell’intervento della Corte costituzionale inducano “a ritenere che la pendenza del processo in grado di appello corrisponda non al senso tecnico in senso stretto dell’istituto ma ad una fase più ampia, cominciata a partire dal momento della pronuncia della sentenza di condanna di primo grado” e dopo aver ribadito che tale soluzione è per l’appunto imposta dalla scelta operata dal giudice delle leggi di ancorare il limite alla retroattività della lex mitior ad un atto significativo in tema di prescrizione, ammette che, nel caso dell’esito assolutorio del giudizio di primo grado, tale atto non può che essere identificato nel decreto ex art. 601 cod. proc. pen..
2.3. Sulla questione è stata prospettata anche una terza soluzione, espressa da una pronunzia rimasta isolata (Sez. 3, n. 24330 del 15/04/2008, Muscariello, Rv. 240342), che individua il momento della pendenza del giudizio d’appello nella ricezione del fascicolo da parte della corte d’appello e, precisamente, nell’atto d’iscrizione nell’apposito registro.
2.4. Il contrasto giurisprudenziale sul tema specificamente oggetto della questione oggi in esame è rimasto vivo anche dopo la sentenza delle Sezioni unite D’Amato che – come già rilevato – ha avuto a oggetto soltanto l’ipotesi della sentenza di condanna in primo grado.
Sez. 2, n. 42043 del 17/09/2010, Careri, Rv. 248872 e Sez. 4, n. 32152 del 14/07/2011, Lombardo, Rv. 251349, richiamandosi alla sentenza Rabita, hanno posto in evidenza che il criterio giustificativo della deroga al principio di retroattività della legge più favorevole non va tanto individuato nell’idoneità o meno della sentenza di primo grado a interrompere la prescrizione, ma nel criterio generale, sottolineato dalla sentenza n. 393 del 2006, della ragionevole e prioritaria esigenza, comune anche ai procedimenti definiti in primo grado con sentenza di proscioglimento o di assoluzione, di tutelare il valore, di rango costituzionale, dell’efficienza della giurisdizione e del processo, e che pertanto il discrimine della pendenza del grado di appello vada comunque ancorato alla pronuncia della sentenza di primo grado, anche quando quest’ultima sia di assoluzione.
Al contrario, l’ordinanza Sez. 5, n. 5991 del 27/01/2011, Belfiore, ha sostanzialmente recepito la posizione espressa dalle sentenze Perrone e Lala, ritenendo che la pronunzia del giudice delle leggi imponga la selezione di un fatto processuale rilevante sul piano della prescrizione (nello stesso senso anche Sez. 6, n. 39592 del 02/11/2010, Barbisan, n.m.; Sez. 2, n. 8455 del 27/01/2011, Pisanelli, Rv. 249953; Sez. 6, n. 11782 del 05/11/2010, Paradotto, n.m.).
3. In definitiva, il contrasto, per come cristallizzatosi successivamente all’intervento delle Sezioni Unite del 2009, verte sostanzialmente sul significato che deve essere attribuito al riferimento compiuto nella motivazione della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale al collegamento tra la nozione di pendenza in grado d’appello e la disciplina dell’interruzione della prescrizione.
Pertanto, per dare risposta alla questione all’esame delle Sezioni Unite è necessario prendere l’avvio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006 che ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, espungendo dalle disposizioni legislative la deroga relativa ai processi in corso di svolgimento in primo grado.
La norma che ne risulta stabilisce che la disciplina prescrizionale più favorevole si applica ai processi in corso al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, ad esclusione dei processi pendenti in grado di appello o davanti alla Corte di cassazione.
Sull’individuazione del momento cui deve farsi riferimento per stabilire la ‘pendenza’ del processo si è determinato il contrasto giurisprudenziale sopra illustrato, avendo una parte della giurisprudenza assegnato un contenuto vincolante all’argomentazione della Corte costituzionale che, nel ritenere irragionevole l’individuazione dell’apertura del dibattimento come discrimine temporale per l’applicazione dei nuovi più favorevoli termini di prescrizione nei giudizi di primo grado, dopo avere rilevato che tale incombente non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado, ha aggiunto che esso non è “incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen.”.
Per valutare se effettivamente un tale vincolo sia imposto dalla pronuncia della Corte costituzionale, occorre esaminare attentamente la motivazione della predetta sentenza, cogliendone la rario decidendi.
In proposito, da tempo le Sezioni Unite, dapprima quelle civili, poi anche quelle penali, hanno precisato che “l’ambito dell’effetto modificativo, nell’ordinamento giuridico, delle pronunce della Corte costituzionale, dichiarative della illegittimità di una norma, va individuato non soltanto alla stregua del dispositivo, ma anche, indipendentemente dal fatto che questo presenti un significato letterale univoco, utilizzando la motivazione, tutte le volte In cui ciò si renda necessario per il riscontro dell’oggetto della decisione e delle disposizioni con essa caducate, dato che motivazione e dispositivo costituiscono elementi di uno stesso atto, unitariamente inteso, reso secondo il modello della sentenza” (Sez. U civ., n. 5401 del 24/10/1984, Nunziata contro Soc. Autostrade, Rv. 437104; Sez. U pen., n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo, non massimata sul punto).
3.1. Come ha ben evidenziato Sez. 3, n. 18765 del 06/03/2008, Brignoli, Rv. 239868, l’autentica ratio decidendi della pronuncia di incostituzionalità non è l’argomento della mancanza di efficacia interruttiva all’incombente processuale preso in considerazione dal legislatore, quanto piuttosto l’esistenza di una ragionevole giustificazione della deroga al principio della retroattività della legge penale più favorevole per i processi di primo grado in corso di svolgimento, riferita all’esaurimento della fase cognitiva di tale grado.
La Corte, in relazione all’intera norma transitoria posta dall’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, ha individuato la giustificazione di tale deroga nell’esistenza di “interessi di non minore rilevanza” idonei a controbilanciare il principio della retroattività della lex mitior, “quali […] quelli dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo”.
La deroga del principio di retroattività fondata sulla tutela di tali interessi è stata ritenuta ragionevole, per l’evidente considerazione che la generalizzata applicazione retroattiva dei nuovi più brevi termini di prescrizione avrebbe provocato l’estinzione su larga scala di processi, relativi anche a gravi delitti, con la conseguente compromissione delle aspettative dei diritti dei soggetti, diversi dall’imputato, coinvolti nel processo penale, e la contestuale vanificazione delle risorse statuali impiegate e dell’esercizio della giurisdizione avviato sotto il regime prescrizionale previgente.
È questa la ragione di fondo che emerge dalla sentenza n. 393 del 2006 e, ancor più esplicitamente, dai successivi interventi (Corte cost., nn. 78 del 2008; 236 e 314 del 2011) con cui la Corte costituzionale ha ritenuto legittima la ragione posta a fondamento della norma transitoria introdotta con l’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, volta a bilanciare il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina sui termini di prescrizione sulla base dello stato di avanzamento del processo penale, in modo da non sacrificare del tutto l’interesse costituzionalmente rilevante dell’efficienza della giurisdizione in corso di esercizio al momento della entrata in vigore della legge.
3.2. Nell’ambito della complessiva norma transitoria derogatrice, ritenuta costituzionalmente legittima, la Corte ha ritagliato una disposizione, quella riguardante i processi di primo grado, ritenuta “non assistita da ragionevolezza” alla luce del principio di eguaglianza, che individuava “il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005”.
Ciò perché l’apertura del dibattimento non costituisce momento indefettibile in ogni processo di primo grado e non rappresenta momento significativo in relazione al complesso delle ragioni che costituiscono il fondamento dell’istituto della prescrizione, “legato al rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale, e dall’altro rende più difficile l’esercizio dei diritto di difesa (e ciò a prescindere del tutto dall’addebitabilità del ritardo nello svolgimento del processo)”.
È questa l’argomentazione essenziale che ha condotto alla pronuncia d’illegittimità costituzionale, mentre il riferimento all’art. 160 cod. pen. e all’efficacia interruttiva del decorso della prescrizione, attribuita a taluni atti processuali, risulta del tutto residuale.
La necessità che il discrimine per l’applicazione delle nuove o delle vecchie norme sia individuato in fatti processuali idonei a interrompere la prescrizione, elencati nell’art. 160 cod. pen., non è perciò imposta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
La sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale non ha riscritto la norma transitoria, ma si è limitata a demolire la parte ritenuta incostituzionale. La norma risultante stabilisce che la disciplina prescrizionale più favorevole si applica ai processi in corso, ad esclusione dei processi pendenti in grado di appello o davanti alla Corte di cassazione, ovvero – altrimenti detto – non si applica ai processi che al momento dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (8 dicembre 2005) erano ancora pendenti in primo grado.
Il senso sostanziale della norma residua è che i più favorevoli termini di prescrizione si applicano ‘quando non è più pendente il giudizio di primo grado’; e tale momento non può che individuarsi nella sentenza di primo grado, quale che ne sia l’esito.
In altri termini e in sintesi: ai fini della questione in esame, la pendenza in grado di appello del procedimento è determinata dalla pronunzia della sentenza di primo grado, che chiude un grado di giudizio e da avvio a quello successivo, al di là della presentazione o meno dell’atto di impulso processuale, che ha l’effetto della prosecuzione del giudizio nel grado corrispondente.
In tal senso la sentenza di primo grado risulta idonea a costituire lo spartiacque nell’applicazione delle due discipline considerate dalla norma transitoria, indipendentemente dal ‘fatto processuale’ che interrompe la prescrizione.
A ben vedere, il problema dell’individuazione di un ‘ragionevole evento processuale’, a cui ancorare il discrimine, non si pone per il giudizio d’appello o di cassazione. Una volta stabilito che la lex mitior si applica retroattivamente sino ai processi di primo grado e si escludono i processi pendenti nei gradi successivi, ciò che conta è se sia concluso o non il processo di primo grado.
Del resto, la Corte costituzionale si è posto tale problema (sentenza n. 393 del 2006) espressamente per il processo di primo grado, e non per i gradi successivi, per i quali anzi la stessa Corte, con la sentenza n. 72 del 2008, che offre un’illuminante chiave interpretativa della prima decisione, ha sottolineato che la motivazione della pronuncia riguardante il giudizio di primo grado “non si attaglia alla parte della stessa disposizione censurata secondo cui i nuovi, più brevi, termini di prescrizione non si applicano retroattivamente ai processi che, alla data della sua entrata in vigore, pendano in grado di appello (o avanti alla Corte di cassazione). Invero, per tali processi, l’esclusione dell’applicazione retroattiva della prescrizione più breve non discende dall’eventuale verificarsi di un certo accadimento processuale, ma dal fatto oggettivo e inequivocabile che processi di quel tipo siano in corso a una certa data”.
4. Va, perciò, condivisa l’opzione ermeneutica compiuta dalla sentenza D’Amato, che ha individuato la sentenza conclusiva del processo di primo grado come spartiacque nell’applicazione delle due discipline considerate dalla norma transitoria, escludendo che il discrimine possa essere costituito dalla proposizione dell’impugnazione ovvero dall’iscrizione del processo nel registro del giudice di secondo grado, giacché la prima deriva da comportamenti delle parti e la seconda rappresenta un mero adempimento amministrativo.
La ragione essenziale posta a fondamento di tale scelta è nella considerazione che, divenuta operativa – per effetto della sentenza della Corte costituzionale – la disciplina più favorevole per tutta la durata del giudizio di primo grado, “risulta legittimo far scattare l’esclusione a partire dall’atto conclusivo di quest’ultimo”.
Come ancora lucidamente osservato dalla sentenza D’Amato “ravvisare la pendenza di un procedimento in appello nel momento in cui viene emesso il provvedimento che pone fine al grado precedente trova congrua spiegazione nella circostanza che questo evento comporta l’impossibilità per il giudice di assumere ulteriori decisioni in merito all’accusa nell’ambito del processo principale (non rilevando, ai fini in questione, le disposizioni in tema di competenza dettate da esigenze pratiche in relazione ai procedimenti incidentali cautelari) e che esso apre comunque la fase dell’impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla. A conferma di tale impostazione v’è la tecnica legislativa impiegata nel concepire la norma nonché la ratio a questa sottesa. Mentre il riferimento ai processi di primo grado deriva dalla indicazione di una determinata cadenza (l’apertura del dibattimento), quelli di appello e di cassazione, invece, sono richiamati nella loro globalità e come aventi, ciascuno di loro, immediato corso rispetto al precedente: il che segnala che non è ipotizzabile una soluzione di continuità tra la conclusione di un grado e la pendenza del successivo. D’altronde va riconosciuto che il legislatore con la disposizione originaria intese apportare, in tema di prescrizione, ampia deroga al principio posto dall’art. 2, comma quarto, cod. pen., al fine di impedire che si verificasse una forma generalizzata di amnistia a scapito di una coerente applicazione della legge penale; la Corte costituzionale non ha censurato la ragione che ebbe ad ispirare la limitazione (avendo anzi ritenuto che la tutela dell’efficienza del processo valga, in generale, a giustificare un’eccezione al citato principio), ma la scelta della formalità destinata a fungere da discrimine in subiecta materia: pertanto, in relazione alla norma che residua dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale, s’impone un approccio ermeneutico che sia conforme agli enunciati in questa contenuti ed attribuisca altresì rilievo al suddetto intento, evitando di restringere senza necessità la deroga stessa. Di conseguenza, anche sotto codesto aspetto, occorre riportarsi ad un momento che, dopo la conclusione del giudizio di primo grado, sia il più possibile risalente nel tempo”.
5. Tali considerazioni, integralmente condivise, vanno estese anche all’ipotesi di sentenza assolutoria di primo grado.
La lettera della residua disposizione posta dall’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005 non consente, infatti, un’interpretazione a ‘geometria variabile’. Com’è stato esattamente osservato, non è necessario definire la nozione generale e astratta di pendenza del giudizio o di pendenza del giudizio d’appello valida in generale, posto che neppure il legislatore ha voluto farlo, quanto piuttosto chiarire l’esatto significato che la locuzione normativa deve assumere nel contesto in cui è stata utilizzata.
Di certo non può ricavarsi dalla sentenza dichiarativa d’illegittimità costituzionale una ratio che autorizzi l’attribuzione all’identico enunciato linguistico contenuto nell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, di un significato diversificato, delineando una nozione cangiante ed elastica a secondo dell’esito (di condanna o di assoluzione) del procedimento di primo grado.
Ragioni logiche ed esigenze sistematiche impongono, invece, di assegnare un significato univoco e unitario, ai fini che ne occupa, alla norma e alla nozione di pendenza in appello, quale che sia l’esito del giudizio di primo grado. La frammentazione della nozione ‘pendenza in grado d’appello’ utilizzata dalla norma transitoria determinerebbe incertezze e rischi d’ingiustificata disparità rispetto alla disciplina posta dall’art. 161 cod. pen. per i processi cumulativi.
Occorre dunque privilegiare una risposta sul piano interpretativo in grado di garantire l’uniformità applicativa della norma transitoria quale che siano i diversi esiti (condanna o assoluzione) del procedimento di primo grado.
6. In conclusione, le Sezioni Unite affermano il seguente principio di diritto: “ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli”.
7. Così interpretata la norma, va dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, sollevata dalla difesa dell’imputato, nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione, in quanto la disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 3 cod. pen. derogando irragionevolmente al principio di retroattività della lex mitior sancito dall’art. 2, comma quarto, cod. pen..
Come ha sottolineato la già citata sentenza Brignoli, la ratio della norma transitoria introdotta con la legge n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, e a maggior ragione di quella risultante dopo la sentenza costituzionale n. 393 del 2006, è chiaramente quella di graduare il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina sui termini di prescrizione sulla base dello stato di avanzamento del processo penale, in modo da non sacrificare l’interesse costituzionalmente rilevante dell’efficienza della giurisdizione che è in corso di esercizio al momento dell’entrata in vigore della legge. Individuare la pendenza del processo in primo grado come discrimine per l’applicazione della nuova disciplina prescrizionale più favorevole è soluzione accettabile, che supera il necessario vaglio positivo di ragionevolezza, considerato che solo quando il processo è ancora pendente in primo grado (non quando il processo pende nei gradi successivi) gli attori del processo (giudice, pubblico ministero e parti private) possono in qualche modo riadattare la loro iniziativa ai tempi più brevi della prescrizione. È infatti evidente che la difficoltà di concludere il processo entro i termini più brevi di prescrizione cresce quanto maggiore è la porzione di processo condotta secondo cadenze temporali programmate in base ai precedenti termini prescrizionali più lunghi.
Manifestamente infondata risulta anche la questione di legittimità costituzionale della medesima norma transitoria per contrasto con l’art. 117 Cost. per il tramite della norma interposta costituita dall’art. 7, comma 1, CEDU, sollevata dalla difesa dell’imputato, che non prospetta alcuna argomentazione diversa da quelle che hanno costituito oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2011, che ha dichiarato non fondata la predetta questione di legittimità costituzionale (successivamente ritenuta manifestamente infondata con ordinanza n. 314 del 2011).
La Corte, ricostruendo l’evoluzione della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, ha chiarito che, in base alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, il principio di retroattività della lex mitior riguarda la fattispecie incriminatrice e la pena e non anche la disciplina di termini di prescrizione.
Ne consegue che la deroga al principio di retroattività della lex mitior, introdotta dall’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, non viola alcun obbligo convenzionale e, di conseguenza, neppure l’art. 117 Cost..
Al contrario, è proprio dalla previsione di termini di prescrizione particolarmente brevi che può originarsi, in taluni casi, la violazione dei principi della CEDU, come è accaduto per una declaratoria di estinzione del reato di omicidio colposo per intervenuta prescrizione, che ha procurato all’Italia una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 2 CEDU, che tutela il diritto alla vita (cfr. Corte EDU, sentenza del 29 marzo 2011, Alikaj c. Italia).
8. In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia, che procederà a nuovo giudizio attenendosi all’enunciato principio di diritto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia per nuovo giudizio.
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