Corte di Cassazione, Sezione I, Sentenza 26 ottobre 2011, n. 22332. L’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilita di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento del Giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze.
La massima
“L’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6, art. 3 – ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali la interdizione e la inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 417 del codice civile. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilita di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento del Giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie“
Il testo integrale
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
Sezione I
Sentenza 26 ottobre 2011, n. 22332
Svolgimento del processo
Con ricorso del 15 luglio 2008 G..A. ha chiesto al giudice tutelare di Biella l’apertura dell’amministrazione di sostegno del fratello con lui convivente P..A., nato il (omissis), affetto da sindrome di Down con persistente difficoltà di svolgere i compiti e le funzioni proprie della sua età e conseguente necessità di essere assistito nel compimento di taluni atti e di essere sostituito in quelli di straordinaria amministrazione. Con decreto del 25 novembre 2008 il giudice tutelare ha respinto la domanda disponendo la trasmissione degli atti al p.m. per la valutazione della possibilità di promuovere procedura di interdizione.
La corte d’appello di Torino con decreto dell’8 settembre 2009 ha confermato il provvedimento affermando di condividere solo in parte l’orientamento di questa Corte in merito all’individuazione del diverso ambito di applicazione degli istituti dell’interdizione e inabilitazione rispetto a quello dell’amministrazione di sostegno.
Premesso che, secondo la sentenza della corte costituzionale n. 440 del 2005 “in nessun caso i poteri dell’amministratore possono coincidere “integralmente” con quelli del tutore o del curatore”, la corte territoriale ritiene che dalla disciplina legale emerge un parallelismo tra incisività crescente del tipo di tutela e il bisogno di tutela che il legislatore vi riconnette in ragione della gravità della compromissione della capacità di provvedere ai propri interessi.” Ciò risulterebbe dalla diversità della formulazione usata degli articoli 414 e 415 c.c. per individuare il presupposto dell’interdizione e inabilitazione (“abituale infermità di mente” che rende “incapaci di provvedere ai propri interessi”) rispetto a quella dell’art. 404 (“infermità ovvero..menomazione fisica o psichica” che provochi l'”impossibilità, anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi”). Inoltre, mentre l’interdizione e l’inabilitazione comportano una pronuncia che incide sullo status all’esito di un procedimenti) davanti al tribunale, l’amministrazione di sostegno non richiede una previa pronuncia che sancisca l’incapacità, ma può essere disposta direttamente al giudice tutelare. Non può condividersi neppure una scelta interpretativa che fa dipendere la scelta dell’istituto da applicare non dalla condizione personale del soggetto, ma da fattori contingenti e variabili non valutabili oggettivamente. Somministrare una tutela attenuata quando le condizioni della persona richiederebbero una tutela piena significherebbe non dare una protezione adeguata, e quindi, quando è necessaria una tutela totalizzante, anche riguardo ai profili personali, si esulerebbe dall’ipotesi dell’amministrazione di sostegno. Quando la persona è molto compromessa la nomina di un amministratore di sostegno esporrebbe al rischio del compimento di atti che, esulando dall’ambito del provvedimento del giudice tutelare, sarebbero solo annullabili per incapacità naturale e, comunque, priverebbe l’assistito della garanzia delle autorizzazioni richieste invece per il compimento degli atti da parte del tutore. In realtà l’intera disciplina dell’amministrazione di sostegno muoverebbe dal presupposto della conservazione di una capacità legale, come risulta sia dalla dizione letterale dell’istituto che dalla disciplina di cui agli articoli 409 (che prevede la conservazione della capacità d’agire per gli atti non compresi nel decreto ex art. 405 c.c. e, in ogni caso, per il compimento degli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana) e 410 (che impone all’amministratore l’obbligo di tenere conto delle aspirazioni dell’amministrato e di informare lo stesso sugli atti da compiere).
Nella specie P.A., in quanto affetto da sindrome di Down grave, che gli rende difficile anche esprimersi (dall’audizione effettuata in fase di reclamo risulta che non è in grado di riferire le proprie generalità e di comprendere il significato della domanda circa il luogo ove abita), richiederebbe una sostituzione sia nel compimento degli atti di straordinaria amministrazione che di quelli di ordinaria amministrazione, con attribuzione all’amministratore degli stessi poteri, peraltro collegati anche a doveri, che la legge attribuisce al tutore e pertanto la misura di protezione adeguata sarebbe quella dell’interdizione.
Ricorre per cassazione, sulla base di tre motivi G.A.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, deducendo la falsa applicazione dell’art. 404 c.c. il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere male interpretato la sentenza della corte costituzionale n. 440 del 2005, attribuendo a tale pronuncia la tesi secondo la quale l’impossibilità totale di provvedere ai propri interessi precluderebbe il ricorso all’amministrazione di sostegno, mentre la Corte costituzionale si è limitata ad affermare l’impossibilità di attribuire all’amministratore di sostegno gli stessi poteri del tutore dell’interdetto. Inoltre, secondo l’orientamento di questa Corte, ai fini della scelta tra le varie misure di protezione sarebbe rilevante non la diversa gravità dell’infermità o dell’impossibilità di curare i propri interessi, ma il diverso tipo di attività che deve essere compiuta in sostituzione del beneficiato. D’altra parte, se la situazione del beneficiato è mutevole e contingente è più idonea una misura più flessibile come l’amministrazione di sostegno.
Con il secondo motivo si deduce la falsa applicazione dell’art. 410 c.c. censurando la decisione della corte territoriale per avere attribuito rilievo decisivo al fatto che, in presenza di una totale e abituale compromissione delle facoltà mentali non sia possa procedere alla concertazione sul compimento dei singoli atti prevista dalla norma indicata. Con ciò la corte territoriale non solo non avrebbe tenuto conto della possibilità effettiva che nel caso di specie il beneficiato, se non in grado di esprimere una compiuta volontà, sarebbe comunque in grado di manifestare “fervori” volitivi, ma avrebbe anche omesso di considerare che la cosiddetta concertazione non è un effetto necessario dell’apertura dell’amministrazione di sostegno, ma si riferisce alle sole ipotesi in cui un dialogo sia concretamente possibile per le condizioni psicofisiche del beneficiario.
Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo la falsa applicazione dell’art. 411 c.c. lamenta che la corte d’appello abbia affermato che la nomina di un amministratore di sostegno farebbe mancare le maggiori garanzie costituite dalle autorizzazioni del tribunale per il compimento di determinati atti dell’amministratore, trascurando di considerare che anche in caso di nomina di un amministratore di sostegno sono previste autorizzazioni del giudice tutelare per il compimento di singoli atti.
2. I motivi, investendo diversi profili argomentativi della pronuncia di rigetto dell’istanza di apertura dell’amministrazione di sostegno, sono strettamente connessi e possono essere congiuntamente esaminati e debbono essere accolti perché fondati.
La questione dell’individuazione dei presupposti delle diverse misure di protezione delle persone in tutto o in parte prive di autonomia, disciplinate nel titolo 12^ del libro primo del codice civile, come modificato con la legge 9 gennaio 2004 n. 6, ha formato oggetto di un intenso dibattito dottrinale e di numerosi interventi giurisprudenziali, di merito e di legittimità.
Chiamata a valutare i sospetti di legittimità costituzionale della nuova disciplina in quanto la stessa non indicherebbe chiari criteri selettivi per distinguere l’amministrazione di sostegno dall’interdizione e dall’inabilitazione, lasciando al giudice la scelta dello strumento di tutela applicabile, la Corte costituzionale, con la sentenza 9 dicembre 2005 n. 440, li ha dichiarati non fondati per erroneità del presupposto interpretativo dal quale muoveva il giudice remittente, affermando che dall’esame della disciplina, che affida al giudice il compito di individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie e, dall’altro, limiti nella minore misura possibile la sua capacità, discende che il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione o dell’interdizione “solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione”, fermo che “in nessun caso i poteri dell’amministratore possono coincidere integralmente con quelli del tutore o del curatore”.
La portata della decisione è quindi duplice.
Da un lato è affermata la diversità dei presupposti e degli effetti delle diverse misure di protezione, in particolare la diversità dei poteri del tutore dell’interdetto e del curatore dell’inabilitato, che derivano automaticamente dalla sentenza di interdizione e inabilitazione, rispetto a quelli dell’amministratore di sostegno che, trovano la propria fonte nel provvedimento del giudice, anche se può rilevarsi che tale diversità è da apprezzare non tralasciando la rilevanza degli art. 411, 4 comma e 427, 1 comma c.c. che consentono l’ampliamento dei poteri dell’amministratore di sostegno mediante specifico richiamo a quelli del tutore e del curatore e la limitazione dei poteri sostitutivi e di assistenza del tutore e del curatore, con l’esclusione di alcuni atti di ordinaria o straordinaria amministrazione. Dall’altro lato, tuttavia, è stata ribadita la legittimità costituzionale della soluzione legislativa che ha affidato al giudice la scelta della misura di protezione, sulla base del criterio della maggiore adeguatezza della tutela rispetto alle concrete esigenze del caso concreto e di quello del carattere residuale dell’interdizione e inabilitazione rispetto all’amministrazione di sostegno, in attuazione del principio fondamentale che regola la materia enunciato con l’art. 1 della legge n. 6 del 2004 secondo cui la finalità dell’intervento legislativo è quella di “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia, nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.
3. I successivi interventi di questa Corte (Cass. n. 13584/2006, che ha trovato conferma nelle successive sentenze nn. 25366/2006 -paragrafo 2.5 -, 9628 e 17421del 2009 e 4866/2010), contrariamente a quanto ritenuto nel provvedimento impugnato, si pongono in linea di continuità con la giurisprudenza costituzionale, sia nella parte in cui ribadiscono la persistente diversità di presupposti delle diverse misure, in particolare dell’interdizione rispetto all’amministrazione di sostegno, fermo il carattere residuale della prima, anche in considerazione del superamento del suo carattere obbligatorio (derivante dalla modifica dell’art. 414 c.c. che ha sostituito il “devono” con il “possono”), sia per la parte in cui riconoscono al giudice il potere di scelta tra le misura stesse.
Il maggiore contributo alla corretta interpretazione della disciplina va tuttavia ravvisato nella forte valorizzazione e specificazione del riferimento, contenuto nell’art. 414 c.c. che fa riferimento alle esigenze di “adeguata protezione” e sottolineato già nella sentenza della Corte costituzionale n. 440 del 2005, al criterio fondamentale che deve guidare la scelta del giudice il quale “va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa.” (in tali termini è, riassuntivamente, il principio di diritto enunciato nella sentenza n. 13584/2006). Nell’applicazione di tale criterio deve tenersi conto in via prioritaria (“essenzialmente” secondo la dizione utilizzata dalla sentenza citata) del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, nel senso che ad “un’attività minima, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiudicare gli interessi del soggetto – vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria del reddito da pensione), e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti… corrisponderà l’amministrazione di sostegno” mentre si potrà ricorrere all’interdizione quando si tratta “di gestire un’ attività di una certa complessità, da svolgere in una molteplicità di direzioni, ovvero nei casi in cui appaia necessario impedire al soggetto da tutelare di compiere atti pregiudizievoli per sé, eventualmente anche in considerazione della permanenza di un minimum di vita di relazione che porti detto soggetto ad avere contatti con l’esterno”. Come ulteriore criterio che può aggiungersi ma non sostituire il criterio principale il giudice può considerare “anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie”.
In senso contrario alla scelta interpretativa operata non vale invocare la diversità dei presupposti delle misure di protezione risultanti dalla lettera degli articoli 404, 414 e 415 c.c., le ultime due disposizioni individuando i possibili destinatari delle misure dell’interdizione e inabilitazione nelle persone affette da abituale infermità di mente e la prima prevedendo che si possa ricorrere all’amministrazione di sostegno non solo a protezione delle persone affette da infermità psichica ma anche quelle affette da infermità o menomazione psichica, in entrambi casi anche se l’impossibilità di provvedere ai propri interessi che ne deriva è solo parziale e temporanea. Infatti, sempre sul piano letterale, l’art. 404 c.c. non esclude affatto che possa ricorrersi all’amministrazione di sostegno quando l’impossibilità di provvedere ai propri interessi sia totale e permanente, mentre la possibilità di escludere i poteri di sostituzione o assistenza del tutore rispetto a taluni atti di ordinaria amministrazione (art. 427, 1 comma c.c.) dimostra che è ammissibile il ricorso all’interdizione anche in caso di incapacità non assoluta. Il che contraddice radicalmente l’affermazione del necessario parallelismo tra incisività (o meglio, “invasività”) della misura di protezione e gravità della situazione di mancanza di autonomia.
Neppure porta argomenti a favore della tesi secondo la quale la scelta tra le diverse misure dovrebbe essere operata sulla base della gravità della situazione di incapacità il rilievo che l’amministrazione di sostegno richiede una continua interazione tra amministratore e beneficiario (art. 410 c.c.) che presuppone una qualche sia pur residuale capacità dello stesso, perché, come già osservato nella citata sentenza n. 13584/2006, la norma non prevede che tale interazione sia necessaria in ogni caso, ma solo che debba essere ricercata quando la situazione concreta lo consente.
Del tutto tautologico è poi il richiamo alla natura tendenzialmente stabile dell’interdizione e dell’inabilitazione, che costituiscono status della persona derivanti da un accertamento giudiziale dell’incapacità, rispetto al carattere contingente e variabile delle misure stabilite da giudice tutelare a tutela del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, restando aperto il problema dell’individuazione dei criteri di scelta tra le une e l’altra misura, problema da risolvere alla stregua del costante orientamento giurisprudenziale richiamato.
Infine non ha pregio l’argomento a favore della preferibilità dell’interdizione per la migliore tutela che tali, misure assicurerebbero per la necessità che il compimento di taluni atti da parte del tutore debbano essere autorizzati dal tribunale perché l’art. 411, nel richiamare alcune norme che disciplinano la tutela, espressamente richiama anche gli articoli 374 e 375 c.c. che prevedono le autorizzazioni per il compimento di atti da parte dell’amministratore di sostegno, essendo irrilevante che tali autorizzazioni siano attribuite alla “competenza” del giudice tutelare invece che a quella del “tribunale”. D’altra parte, come già rilevato, la postulata “preferibilità” si porrebbe in contrasto con il carattere residuale dell’interdizione affermato con chiarezza dalla legge.
L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione del provvedimento impugnato con rinvio alla corte d’appello di Torino in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio, la quale si atterrà al seguente principio di diritto:
“L’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6, art. 3 – ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali la interdizione e la inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 417 del codice civile. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilita di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento del Giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie”.
P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio.
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