Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

 

SENTENZA N. 110
ANNO 2012

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona nel procedimento penale nei confronti di M.E. ed altri con ordinanza del 22 agosto 2011, iscritta al n. 246 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 marzo 2012 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 22 agosto 2011 (r.o. n. 246 del 2011), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38 «nella parte in cui impone l’applicazione o non consente la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con altra differente misura meno afflittiva» per il delitto di cui all’art. 416 del codice penale realizzato allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 dello stesso codice.
Il giudice rimettente riferisce di essere stato investito della richiesta del pubblico ministero di sostituzione, con la misura della custodia cautelare in carcere, della misura cautelare degli arresti domiciliari applicata con ordinanza del 21 giugno 2011 nei confronti di quattro persone. In precedenza, il pubblico ministero aveva richiesto l’applicazione di misure cautelari nei confronti di persone sottoposte ad indagini preliminari per il delitto di cui all’art. 416 cod. pen. finalizzato alla realizzazione di più reati previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen.; la richiesta era stata accolta dal
giudice per le indagini preliminari che, con l’ordinanza indicata, aveva applicato varie misure cautelari custodiali nei confronti degli indagati e, tra esse, quella degli arresti domiciliari nei confronti delle quattro persone in questione, rispetto alle quali le pur accertate esigenze cautelari erano state ritenute di intensità minore rispetto a quelle relative agli altri indagati. La nuova richiesta del pubblico ministero muoveva dall’assunto che, stante l’imputazione provvisoria formulata, la norma non consentisse l’applicazione di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere, situazione, questa, che era stata evidenziata anche dal tribunale del riesame investito del ricorso di uno degli indagati cui era stata applicata la misura più grave. Precisa al riguardo il rimettente che la scelta operata all’atto dell’emissione dell’ordinanza cautelare era basata su una lettura costituzionalmente orientata, ispirata alle pronunce con le quali la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. in relazione ad alcune fattispecie penali. Peraltro, sottolinea il rimettente, «la motivazione sottesa alla nuova richiesta del P.M. di rivalutazione della scelta operata è basata palesemente sul presupposto che non sia possibile detta interpretazione, valutazione questa sostanzialmente condivisibile, stante la specificità e la eterogeneità delle singole fattispecie ricomprese, che non consente di allargare l’interpretazione ad altre, dovendo[si] far ricorso alla proposizione della questione di legittimità costituzionale».
Riferisce ancora il rimettente che nell’ambito del procedimento oggetto del giudizio principale erano stati contestati singoli “reati-fine” e il reato associativo di cui all’art. 416 cod. pen., in relazione a un sodalizio finalizzato alla realizzazione di plurime condotte di contraffazione di prodotti protetti da un noto marchio registrato; le risultanze investigative avevano consentito l’acquisizione di un quadro indiziario grave e univoco in relazione ai “reati-fine” e all’operatività del sodalizio, dotato di stabilità e ancora attivo al momento dell’emissione dell’ordinanza coercitiva. Alcuni indagati dovevano essere considerati promotori ed organizzatori del sodalizio, in quanto ne determinavano le scelte operative e finanziarie, decidevano luogo e tipologia della produzione, modalità e prezzi di vendita dei prodotti. Altri indagati, invece, avevano avuto un ruolo marginale, in quanto privi di capacità decisionale e facilmente intercambiabili o sostituibili a seconda delle necessità della produzione. Il sodalizio si serviva di persone che realizzavano solo una parte del prodotto, poi da assemblare, e il loro apporto era talvolta temporaneo, legato alle necessità della produzione illecita o a circostanze particolari, quali il sequestro di materiali; queste persone operavano sotto le direttive degli indagati con un ruolo preminente e con materiali o macchinari dagli stessi forniti. Ad avviso del rimettente, rispetto alle persone che avevano svolto ruoli marginali le esigenze cautelari apparivano «di minor spessore e tali, sulla base del principio costituzionale del “minor sacrificio necessario” applicabile in tema di compressione della libertà personale, da poter essere adeguatamente tutelate, in presenza degli altri presupposti di legge, dalla misura degli arresti domiciliari».
La riproposizione da parte del pubblico ministero dell’originaria richiesta rende dunque, secondo il rimettente, rilevante, non superabile sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui, in forza del richiamo operato all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 15, comma 4, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), prevede una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere quando si procede per il delitto di cui all’art. 416 cod. pen., «realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474» cod. pen.
Richiamati i princìpi – affermati anche dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – in base ai quali la sentenza n. 265 del 2010 di questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in
riferimento ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., nella parte in cui, nel disporre l’applicazione della custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il rimettente osserva che il necessario corollario di tali princìpi è l’uguale principio per il quale «in materia cautelare in astratto il regime non deve prevedere presunzioni od automatismi atteso che essi contrasterebbero con la natura individualizzante della disciplina delle misure stesse che il giudice deve ancorare al “caso concreto” proprio per rendere concreti i principi della proporzionalità, adeguatezza e minor sacrificio». Il sistema legislativo, sottolinea il rimettente, è ancorato a tali principi, fatte salve alcune eccezioni che hanno superato il vaglio di legittimità costituzionale, quali la disciplina derogatoria relativa all’art. 416-bis cod. pen., di cui l’ordinanza n. 450 del 1995 della Corte ha ritenuto la legittimità costituzionale.
Richiamata altresì la sentenza n. 164 del 2011, il rimettente osserva che in relazione alle fattispecie oggetto di quest’ultima pronuncia e della precedente sentenza n. 265 del 2010, questa Corte ha concluso che non poteva escludersi la possibilità che «nei congrui casi anche una misura meno afflittiva di quella carceraria potesse essere del tutto adeguata divenendo irrazionale una disciplina che per presunzione assoluta la escludesse». Interrogandosi sulla possibilità di estendere tale conclusione alla fattispecie in esame, il rimettente rileva come, pur non potendosi parlare di reato relativo a condotte meramente individuali, non si attagliano ad essa i canoni interpretativi concernenti le fattispecie di mafia. La norma censurata richiama la fattispecie base dell’associazione per delinquere, non modificata, come ad esempio è accaduto per il sesto comma dell’art. 416 cod. pen., ricompreso nell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.; inoltre, sottolinea il rimettente, un sodalizio avente le finalità in questione si presenta, per sua stessa natura, con «caratteristiche di estrema varietà delle forme di partecipazione», come sarebbe emerso nel caso in esame: l’apporto del singolo sodale, pertanto, è «estremamente vario e spesso non catalogabile in rigidi schemi». Certamente manca «un forte radicamento in un dato territorio, come pure l’uso di forme di intimidazione e lo stesso legame associativo è basato su un rapporto di mera convenienza economica e non sul rispetto di codici di onore o patti di similare valore». In buona sostanza, ad avviso del rimettente, fanno difetto, nella fattispecie in esame, proprio le caratteristiche che hanno portato questa Corte a ritenere non irragionevole la deroga della disciplina delle misure cautelari per i reati di mafia.
La natura associativa della fattispecie, inoltre, non sarebbe ostativa a una valutazione di irragionevolezza della previsione della sola custodia cautelare in carcere, come confermerebbe la sentenza n. 231 del 2011, relativa alla diversa, e ben più grave, fattispecie associativa prevista dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). Questa sentenza ricorda «quelle caratteristiche peculiari del delitto mafioso che lo connotano di particolare pericolosità», che ritiene non ravvisabili nel reato associativo finalizzato alla cessione di stupefacenti e che, ad avviso del rimettente, ancor meno sarebbero ravvisabili nella fattispecie associativa in esame, che si connota come fattispecie “aperta”, nel senso che «può manifestarsi tramite una complessa organizzazione, con consistenti investimenti di capitali, ma anche tramite forme del tutto minimali».
Ritiene dunque il rimettente che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui richiama l’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. in relazione al delitto dell’art. 416 cod. pen. finalizzato alla realizzazione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen., contrasti con l’art. 3 Cost., «derogando al principio di uguaglianza sulla base di una scelta irragionevole perché impositiva di una presunzione assoluta in materia di misure cautelari non basata su una peculiare specificità della fattispecie penale alla quale fa riferimento». Di conseguenza, la norma censurata sarebbe lesiva anche del principio di inviolabilità della libertà personale e della presunzione di non colpevolezza, dato che si
basa su «una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare massima senza una ragionevole specificità della fattispecie stessa».
2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
Richiamata l’ordinanza n. 450 del 1995 di questa Corte, la difesa dello Stato osserva che mentre la sussistenza in concreto delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge non può, per definizione, prescindere dall’accertamento della loro esistenza, la scelta del tipo di misura cautelare non impone di riservare al giudice analogo potere di apprezzamento. Nel caso di specie, la scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, il ricorso alla custodia cautelare non può essere ritenuta irragionevole in relazione al reato previsto dall’art. 416 cod. pen., in considerazione del fatto che tale fattispecie inerisce a condotte, non meramente individuali, offensive del bene fondamentale dell’ordine pubblico. Andrebbe esclusa, inoltre, l’incompatibilità della norma denunciata con l’art. 13, primo comma, Cost., essendo stata rispettata la riserva di legge in materia di libertà personale, e con l’art. 27, secondo comma, Cost., data l’estraneità di tale parametro all’assetto e alla conformazione delle misure restrittive della libertà personale, che operano sul piano cautelare, del tutto distinto rispetto a quello concernente la condanna e l’irrogazione della pena.
3.– Con una successiva memoria difensiva, l’Avvocatura generale dello Stato ha ribadito la richiesta di declaratoria di manifesta infondatezza della questione, sottolineando che la struttura del reato previsto dall’art. 416 cod. pen. realizzato allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. presenta peculiarità strutturali tali da rendere evidente la ragione dell’imposizione della misura cautelare più rigorosa, non diversamente da quanto si riscontra rispetto al delitto di associazione di tipo mafioso. Nel caso in esame, sarebbe la peculiarità dei reati-fine a caratterizzare l’associazione come organizzazione imprenditoriale stabile, ovvero articolata e complessa, fondata su un precisa distribuzione dei ruoli e ramificata su una porzione stabile di territorio. Secondo l’Avvocatura dello Stato, «dette caratteristiche costitutive valgono a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare censurata nell’ordinanza di rimessione, non apparendo che, nella generalità dei casi concreti, le esigenze cautelari volte a recidere i contatti tra imputato (o indagato) ed associazione criminale di appartenenza possano essere soddisfatte con misure meno severe della custodia in carcere».

Considerato in diritto

1.– Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona dubita, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, «nella parte in cui impone l’applicazione o non consente la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con altra differente misura meno afflittiva» in relazione al delitto di cui all’art. 416 del codice penale realizzato allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 dello stesso codice.
Il rimettente ritiene estensibili alla fattispecie in esame le ragioni che hanno indotto questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata in relazione ad alcuni delitti a sfondo sessuale (sentenza n. 265 del 2010), al delitto di omicidio (sentenza n. 164 del 2011) e al delitto previsto dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (sentenza n. 231 del 2011).
Esclusa la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, in considerazione della specificità e della eterogeneità delle singole fattispecie cui si riferisce l’art. 275, comma 3, censurato, ad avviso del rimettente è certamente carente, nell’associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen., «un forte radicamento in un dato territorio, come pure l’uso di forme di intimidazione e lo stesso legame associativo è basato su
un rapporto di mera convenienza economica e non sul rispetto di codici di onore o patti di similare valore»: nella fattispecie in esame farebbero, dunque, difetto proprio le caratteristiche che hanno portato questa Corte a ritenere non irragionevole la deroga della disciplina generale delle misure cautelari stabilita per i reati di mafia (ordinanza n. 450 del 1995).
2.– La questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
3.– In via preliminare, deve rilevarsi che è corretta la tesi del rimettente, secondo cui le parziali declaratorie di illegittimità costituzionale della norma impugnata, aventi per esclusivo riferimento i reati oggetto delle precedenti pronunce di questa Corte, non si possono estendere alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate. È inoltre da aggiungere che la lettera della norma impugnata, il cui significato non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme (sentenza n. 219 del 2008), non consente in via interpretativa di conseguire l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre.
4.– La norma censurata è frutto della stratificazione di una serie di interventi legislativi, che ha visto, più di recente, il legislatore del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38) estendere la disciplina introdotta nel 1995 per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332) a numerose altre fattispecie penali, tra le quali quelle individuate attraverso il richiamo ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.
Successivamente, il delitto di associazione per delinquere realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. è stato inserito, nel “catalogo” dettato dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., dall’art. 15, comma 4, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia).
5.– Con la sentenza n. 265 del 2010, questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui configura una presunzione assoluta – anziché relativa – di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale: in particolare, per i reati di induzione alla prostituzione minorile o di favoreggiamento o sfruttamento della stessa, di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.). Ad analoga declaratoria di illegittimità costituzionale questa Corte è inoltre pervenuta nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui assoggetta a presunzione assoluta anche il delitto di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011) e quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (sentenza n. 231 del 2011). Infine, successivamente all’ordinanza di rimessione, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), recante una disciplina analoga a quella contenuta nell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. (sentenza n. 331 del 2011).
Nelle decisioni appena richiamate, è stato rilevato come, alla luce dei principi costituzionali di riferimento – segnatamente, il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario»: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. A questi canoni si conforma la disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravità crescente (artt. 281-285) e sulla correlata enunciazione del principio di
«adeguatezza» (art. 275, comma 1), in applicazione del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura “massima” (la custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo).
Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., che, come quella delineata dall’art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, e assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa.
A tale proposito, questa Corte ha ribadito che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» e che «l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenza n. 139 del 2010, richiamata dalle decisioni sopra citate).
L’evenienza ora indicata è stata riscontrata in rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte in cui era riferita ai delitti a sfondo sessuale prima indicati (sentenza n. 265 del 2010), all’omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011), all’associazione finalizzata al narcotraffico (sentenza n. 231 del 2011) e alle figure di favoreggiamento delle immigrazioni illegali richiamate dall’art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 (sentenza n. 331 del 2011). A tali figure delittuose non poteva, infatti, estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata dalla Corte, con l’ordinanza n. 450 del 1995, per i delitti di mafia (i soli considerati dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. anteriormente alla novella legislativa del 2009), considerando che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un’esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).
Connotazioni analoghe non erano invece ravvisabili rispetto alle figure criminose sopra elencate, che abbracciano fatti marcatamente eterogenei tra loro e suscettibili di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria. Questa Corte ha ritenuto, quindi, che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (così come l’art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998) violasse, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione ai delitti di mafia e per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare dei diversi fatti riconducibili alle indicate figure criminose; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., per essere attribuiti alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
6.– Particolarmente significativa, ai fini dello scrutinio della presente questione di legittimità costituzionale, è la sentenza n. 231 del 2011, con la quale è stata dichiarata illegittima la presunzione de qua in riferimento a una fattispecie associativa. Con tale pronuncia, infatti, questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza che il delitto di associazione di tipo mafioso è «normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua
volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – “a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine”, minimizzando “il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)». La sentenza n. 231 del 2011 ha escluso che altrettanto possa dirsi per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, che si concreta «in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine (i delitti previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990)»; si tratta, dunque, di «fattispecie, per così dire, “aperta”, che, descrivendo in definitiva solo lo scopo dell’associazione e non anche specifiche qualità di essa, si presta a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei».
Le argomentazioni appena richiamate sono riferibili anche al delitto di associazione per delinquere realizzato allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. Anche a questa figura criminosa, incentrata sulla norma incriminatrice “generale” dell’associazione per delinquere, dettata dall’art. 416 cod. pen., è confacente la definizione di fattispecie “aperta”, qualificata solo dalla tipologia dei reati-fine (i delitti di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen.) e non già da specifiche connotazioni dell’associazione stessa. In particolare, il paradigma legale della figura criminosa in esame è del tutto svincolato da quelle connotazioni normative (la forza intimidatrice del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva) proprie dell’associazione di tipo mafioso e in grado di fornire, con riguardo ad essa, una congrua “base statistica” alla presunzione in esame. All’associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. sono, dunque, riconducibili fattispecie concrete diverse, come è confermato da alcuni orientamenti della Corte di cassazione, che per la configurazione del reato ex art. 416 cod. pen. ha ritenuto sufficiente ora l’esistenza di strutture anche rudimentali (Cass., sez. VI, 15 giugno 2011, n. 25698), ora lo svolgimento dell’attività associativa per un breve periodo (Cass., sez. V, 5 maggio 2009, n. 31149). È dunque corretta la tesi del rimettente, secondo cui nella fattispecie in esame fanno difetto le caratteristiche che hanno portato questa Corte a ritenere legittimo il regime cautelare speciale per i reati di mafia.
Né in senso contrario sono decisivi gli argomenti addotti dall’Avvocatura generale dello Stato in relazione, per un verso, al bene dell’ordine pubblico tutelato dall’art. 416 cod. pen. e, per altro verso, alle peculiarità dei reati-fine. Sotto il primo profilo, infatti, la natura e il rango dell’interesse tutelato dal reato rispetto al quale opera la presunzione in questione non sono idonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza e del grado delle esigenze cautelari (sentenza n. 265 del 2010). Sotto il secondo profilo, è di tutta evidenza come anche per le fattispecie incriminatrici delineate dagli artt. 473 e 474 cod. pen. debba escludersi la individuabilità di connotazioni idonee a fornire una congrua “base statistica” al regime cautelare censurato.
Deve, inoltre, escludersi che l’inserimento dell’associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. tra i reati indicati dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. sia idoneo a offrire legittimazione costituzionale alla norma in esame: questa Corte ha, infatti, chiarito che la disciplina stabilita dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. risponde a «una logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alla disposizione sottoposta a scrutinio», trattandosi di una norma «ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali quella deroga è stabilita» (sentenza n. 231 del 2011).
7.– Come già precisato da questa Corte, ciò che vulnera i parametri costituzionali sopra richiamati non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario». La previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011, e n. 265 del 2010).
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 cod. pen., realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

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