Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 24 gennaio 2018, n. 3290. Maltrattamento degli animali a carico di chi impone al proprio cane la museruola “antiabbaio”

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1. Giova premettere che le censure prospettate dal ricorrente con i primi due motivi di ricorso tendono a sottoporre al giudizio di legittimita’ aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio, che devono essere rimessi all’esclusiva competenza del giudice di merito, mirando a prospettare una versione del fatto diversa e alternativa a quella posta a base del provvedimento impugnato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148), il giudizio di legittimita’ – in sede di controllo sulla motivazione – non puo’ concretarsi nella rilettura degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione o nell’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perche’ ritenuti maggiormente plausibili.

2. Per quanto attiene al reato di cui all’articolo 727 c.p., la giurisprudenza di legittimita’ ha affermato (cfr. Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007, Mollaian, Rv. 238602), che ai fini dell’integrazione degli elementi costitutivi, non e’ necessaria la volonta’ del soggetto agente di infierire sull’animale, ne’ che quest’ultimo riporti una lesione all’integrita’ fisica, potendo la sofferenza consistere in soli patimenti.

3. In particolare, proprio in merito all’uso del c.d. collare antiabbaio – il produce scosse o altri impulsi elettrici trasmessi al cane tramite comando a distanza – la giurisprudenza di legittimita’ ha chiarito che il suo utilizzo integra il reato di cui all’articolo 727 c.p., in quanto concretizza una forma di addestramento fondata esclusivamente su uno stimolo doloroso tale da incidere sensibilmente sull’integrita’ psicofisica dell’animale (cosi’ Sez. 3, n. 38034 del 20/06/2013, Tonolli, Rv. 257685; Sez. 3, n. 21932 del 11/02/2016, Bastianini, Rv. 267345; Sez. 3, n. 15061 del 24/01/2007, Sarto, Rv. 236335).

4. Per quanto attiene poi alla sussistenza dell’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’articolo 727 c.p., e’ stato precisato che costituiscono maltrattamenti, idonei ad integrare il reato di abbandono di animali, non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pieta’ e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudelta’, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilita’ psico-fisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione (cfr. Sez. 7, ord. n. 46560 del 10/07/2015, Francescangeli e altro, Rv. 265267). E comunque per “abbandono” si intende non solo la condotta di distacco volontario dall’animale, ma anche qualsiasi trascuratezza, disinteresse o mancanza di attenzione, inclusi comportamenti colposi improntati ad indifferenza od inerzia (cfr. Sez. 3, n. 18892 del 02/02/2011, Mariano, Rv. 250366).

5. Orbene, nel caso di specie, la parte motiva della sentenza impugnata non presenta errori giuridici od illogicita’, poiche’ il giudice di merito ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, evidenziando la sussistenza del fatto tipico, in quanto era risultato accertato che i due cani si trovavano all’interno di un recinto sito nei pressi di un capannone, muniti di collare antiabbaio funzionante, in quanto all’avvicinarsi dei verbalizzanti gli stessi non avevano abbaiato; la circostanza che tale collare era permanentemente indossato dagli animali era stata altresi’ confermata dal teste (OMISSIS); il giudice di prime cure aveva tratto ulteriori argomenti per motivare il proprio giudizio di responsabilita’ dall’assunzione delle testimonianze del CT del pubblico ministero sul funzionamento dei collari e del medico, CT della parte civile, ricavando conferma della sussistenza del reato anche dal punto di vista soggettivo. In definitiva, questa Corte ritiene che il giudice di merito abbia fornito congrua motivazione quanto alla affermata responsabilita’ dell’imputato per il reato di cui all’articolo 727 c.p., di talche’ le censure risultano manifestamente infondate con conseguente inammissibilita’ del ricorso.

6. Tale declaratoria impedisce che possa dirsi formato un rapporto impugnatorio, sicche’ non puo’ essere rilevata l’estinzione del reato intervenuta successivamente alla pronuncia di primo grado (cfr. sez. U, n. 12602/16 del 17/12/2015, Ricci, Rv. 26681), come vorrebbe il ricorrente quanto al terzo motivo, pertanto anch’esso inammissibile.

Di conseguenza, in forza del disposto di cui all’articolo 616 c.p.p., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di duemila Euro in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

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