Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 29 gennaio 2018, n. 2060. In riferimento alla colpa medica deve ritenersi che il secondo aiuto di una equipe medica non possa andare esente da ogni responsabilita’ solo per aver compiuto correttamente le mansioni a lui direttamente affidate

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Quanto al secondo ordine di rilievi, anch’esso si riduce, sotto lo schermo della denunciata violazione di legge, in una non condivisione del giudizio di accertamento in fatto cui perviene il giudice di appello a seguito di una accurata motivazione.

La sentenza n. 9927/2012 imponeva la rinnovazione del giudizio sul nesso causale applicando la giusta regola valutativa, e conteneva un ampio richiamo a tutte le risultanze probatorie, non escludendo l’utilizzabilita’, come elementi per la formazione del convincimento del giudice di merito, delle sentenze penali, il cui contenuto ampiamente richiamava e valorizzava. In particolare, segnalava che la sentenza n. 37880 del 2009 della Cassazione, che definiva il giudizio penale, a fronte della mancata impugnazione della assoluzione da parte della Procura Generale non toccava il verdetto di assoluzione, la cui formula era stata gia’ modificata nel passaggio tra il primo grado e l’appello da perche’ il fatto non sussiste a perche’ il fatto non costituisce reato. Dava atto che la corte distrettuale aveva affermato “la sussistenza del legame eziologico tra l’intervento eseguito dai predetti medici ed il decesso della vittima con assoluta certezza e senza margini di dubbio per aver l’atto operatorio, preceduto dal prelievo di sangue, negativamente alterato ed influenzato il sistema immunitario della paziente ad accelerato la progressione dell’infezione da HIV ad AIDS conclamato” e cassava la sentenza impugnata, in riferimento agli effetti civili, affermando che il ragionamento svolto dalla corte d’appello apparisse manifestamente illogico, perche’ da una parte essa riconosceva che le indagini omesse sarebbero state doverose ed immediatamente dopo affermava che non si potesse pretendere che tale necessita’ venisse colta da medici operanti all’interno di una clinica convenzionata, privi della preparazione propria di medici che operano in un centro specializzato.

La sentenza impugnata ha considerato le risultanze dei precedenti e paralleli giudizi penali, ma non era evidentemente ad essa vincolata, non sussistendo alcuna pregiudizialita’ del giudizio penale. E’ ben possibile, stante l’autonomia dei percorsi, che l’accertamento penale e quello civile divergano. La censura dei ricorrenti, che addebita al giudice civile di non attribuito rilievo, all’interno delle risultanze penali, pur considerate, ai profili ritenuti da loro di maggior interesse, e’ una censura in fatto, che potrebbe rilevare solo qualora i riferimenti al giudizio penale contenuti nella sentenza civile fossero stati totalmente illogici e falsati, tali da alterare il dictum dei citati precedenti penali, inficiando completamente la logica della motivazione civile fino ai confini della motivazione apparente.

Anche questo aspetto si traduce complessivamente in una censura in fatto, in quanto i ricorrenti criticano il fatto che, valorizzando dalle sentenze penali e dalle perizie e c.t.u. elementi diversi rispetto a quelli che loro stessi avrebbero valorizzato, la sentenza sia giunta alla conclusione che la (OMISSIS) si trovasse gia’ in uno stadio avanzato, benche’ asintomatico, della malattia, e che in conseguenza di questo accertamento in fatto, che sostengono essere sbagliato, sia stato altrettanto erroneamente affermato che il danno derivato fosse solo in termini di perdita di chances.

Anche sulle possibilita’ di sopravvivenza e sulle terapie gia’ scoperte ed utilizzabili all’epoca, un accertamento di fatto esiste nella sentenza impugnata, non rinnovabile in questa sede, anche se i suoi risultati non sono quelli auspicati dai (OMISSIS) (che citano numerosi articoli di letteratura medico scientifica dai quali emergerebbe che fin dal 1990 in poi il sieropositivo aveva buone aspettative di vita): la sentenza d’appello afferma, sulla base delle informazioni scientifiche attinte tramite la c.t.u., che la paziente non avrebbe in ogni caso potuto fruire delle terapie HAART (pag. 24 della sentenza impugnata) perche’ scoperte ed attuate in Italia solo quando ella si trovava ormai in uno stadio terminale.

1.c Il quinto motivo, relativo alla posizione dell’ (OMISSIS).

Il quinto motivo contesta la sentenza impugnata laddove, in accoglimento dell’appello incidentale, ha negato la responsabilita’ della (OMISSIS), ovvero della clinica in cui e’ stato effettuato – senza nessuna preventiva verifica e all’interno di una struttura non autorizzata ad operare come centro di raccolta sangue – un cospicuo prelievo di sangue sulla persona della (OMISSIS), il giorno prima dell’operazione, destinato ad essere utilizzato in caso nel corso dell’operazione si rendesse necessario praticare una trasfusione di sangue alla paziente, sul rilievo che fosse pacifico “che il suo personale non ha partecipato alla scelta di eseguire l’autotrasfusione e non ha esaminato lo stato di salute della paziente”.

Il motivo e’ fondato.

Costituisce ormai consolidato orientamento di questa Corte che, a fronte del comportamento colposo e fonte di danni a terzi di medici che operino all’interno di una struttura sanitaria, pubblica o privata che essa sia, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o anche di una collaborazione stabile, la struttura stessa ne risponda a titolo contrattuale (per una riaffermazione del principio v. Cass. n. 7768 del 2016: “In materia di responsabilita’ per attivita’ medico-chirurgica, anche la struttura presso la quale il paziente risulti ricoverato risponde della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, atteso che la diretta gestione della struttura sanitaria identifica il soggetto titolare del rapporto con il paziente. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in relazione alla condotta di due medici, pur dipendenti di un’azienda sanitaria locale, aveva ravvisato la responsabilita’ del nosocomio privato presso i cui locali risultava ospitato il “presidio di aiuto materno” ove i sanitari avevano operato, e cio’ sul presupposto che detta struttura – per il semplice fatto del ricovero di una gestante – era tenuta a garantire alla medesima la migliore e corretta assistenza, non solo sotto forma di prestazioni di natura alberghiera, bensi’ di messa a disposizione del proprio apparato organizzativo e strumentale).

La responsabilita’ civile dei medici di fiducia della paziente e’ stata ampiamente accertata dal giudice di merito: nel primo segmento di attivita’, quello pre-operatorio, essi la sottoposero, appunto all’interno dell’ (OMISSIS), ad un autoprelievo senza alcuna cautela, in violazione delle piu’ elementari regole di prudenza, senza eseguire una serie di esami del sangue preliminari (tra i quali quelli contenenti i markers dell’epatite) anche al fine di verificare se ella fosse in grado di sottoporsi senza danni per la sua salute ad un cospicuo prelievo di sangue e se quello stesso sangue fosse utilizzabile per una successiva trasfusione, e forse senza neppure esaminare – e comunque senza tenere nella dovuta considerazione – i risultati degli esami ai quali di sua iniziativa si era sottoposta la (OMISSIS) nell’aprile precedente, che mostravano gia’ valori alterati, che avrebbero dovuto sconsigliare l’autoprelievo prima e l’operazione poi.

L’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale la clinica all’interno della quale fu eseguito il prelievo non incorra in alcuna responsabilita’ perche’ il suo personale non partecipo’ alla scelta di eseguire l’autotras fusione e non esamino’ lo stato di salute della paziente e’ profondamente errata, perche’ considera l’attivita’ di gestione di una struttura sanitaria del pari alla gestione di una struttura puramente alberghiera, in cui il gestore risponde solo della pulizia e dell’ordine dei servizi offerti e non deve preoccuparsi (nei limiti anche ad esso imposti dal rispetto delle leggi e dei regolamenti) di quanto avviene all’interno delle camere. Portando questo ragionamento alle sue estreme quanto naturali conseguenze, le strutture sanitarie non sarebbero chiamate a rispondere neppure se all’interno di esse sanitari non dipendenti, utilizzando dietro l’erogazione di un corrispettivo la sale operatorie, compissero operazioni vietate, integranti illeciti di rilevanza anche penale.

Al contrario, l’aver ospitato all’interno della propria struttura uno o piu’ medici che abbiano compiuto attivita’ medico-chirurgiche su una paziente, anch’essa accolta all’interno della struttura, senza rispettare le regole di prudenza e provocando alla paziente un danno, e’ fonte, oltre che di responsabilita’ diretta dei medici, di responsabilita’ indiretta nei confronti della danneggiata in capo alla struttura sanitaria, senza che questa possa esimersi da tale responsabilita’ affermando di non essersi ingerita nelle scelte tecniche o di non aver partecipato alle attivita’ svolte dai responsabili, o di non esser stata neppure portata a conoscenza di esse.

Questa Corte ha piu’ volte ribadito che l’accettazione del paziente in una struttura pubblica o privata deputata a fornire assistenza sanitaria ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale trova la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive (talvolta definito come contratto di spedalita’, talvolta come contratto di assistenza sanitaria) con effetti protettivi nei confronti del terzo. Le Sezioni unite, nel confermare tale ricostruzione, hanno valorizzato la complessita’ e l’atipicita’ del legame che si instaura tra struttura e paziente, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere atteso che, in virtu’ del contratto che si conclude con l’accettazione del paziente in ospedale, la struttura ha l’obbligo di fornire una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori. Pertanto, la responsabilita’ della struttura ricondotta all’inadempimento di obblighi propri della medesima, per un verso, si muove sulle linee tracciate dall’articolo 1218 c.c. e, per l’altro, in relazione alle prestazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, consente di fondare la responsabilita’ dell’ente per fatto dei dipendenti sulla base dell’articolo 1228 c.c.

A fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben puo’ essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della struttura (ente ospedaliero o casa di cura), accanto a obblighi di tipo lato sensu alberghieri, quelli di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze.

Con la conseguenza che la responsabilita’ della struttura (casa di cura o ente ospedaliero) nei confronti del paziente ha natura contrattuale che puo’ dirsi “diretta” ex articolo 1218 c.c. in relazione a propri fatti d’inadempimento (ad esempio in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione dei medicinali o del personale medico ausiliario o paramedico o alle prestazioni di carattere alberghiero) e che puo’ dirsi, sia pur soltanto lato sensu, “indiretta” ex articolo 1228 c.c. perche’ derivante dall’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’ente, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo “un collegamento” tra la prestazione da costui effettuata e la organizzazione aziendale della struttura, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cosi’, Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577; tra le tante, di recente, Cass. n. 16488 del 2017; Cass. n. 21090 del 2015; Cass. n. 1620 del 2012; Cass. n. 20547 del 2009; Cass. n. 8826 del 2007).

Il quinto motivo di ricorso va quindi accolto.

1.d. Il sesto motivo, relativo alla posizione del secondo aiuto.

Con il sesto motivo, i ricorrenti denunciano la violazione di legge (articolo 1176 c.c. e articolo 32 Cost.) in cui sarebbe incorsa la sentenza di appello per aver accolto l’appello incidentale del dott. (OMISSIS), rigettando la domanda risarcitoria proposta anche nei suoi confronti dai (OMISSIS) per il ruolo defilato e privo di poteri decisionali che, come secondo aiuto, avrebbe auto all’interno dell’equipe medica.

Ricordano i principi di diritto gia’ piu’ volte affermati da questa Corte (in particolare dalle sezioni penali) in ordine alle responsabilita’ dei componenti dell’equipe, ed in particolare ai doveri del componente di informarsi sulla correttezza della procedure seguite prima dell’operazione e dell’obbligo di rifiutare di prendervi parte qualora si accerti l’imprudenza delle stesse, come nella specie. La violazione delle leges artis da parte del (OMISSIS) consisterebbe, nella ricostruzione dei ricorrenti, in particolare nel non aver rilevato – prendendo visione come era suo dovere degli esami ematici – che, dalla situazione della (OMISSIS) che emergeva dalle analisi eseguite, l’intervento operatorio fosse altamente sconsigliato.

In piu’, i ricorrenti assegnano al dott. (OMISSIS) un ruolo di diretto responsabile per la fase post-operatoria e per le dimissioni della paziente. Richiamando la sentenza di primo grado essi sostengono che e’ stato il (OMISSIS) a dimettere la paziente, anche se non ha provveduto a firmare la cartella clinica, e se non ha inserito nella stessa indicazioni importanti per la valutazione dello stato di salute della paziente.

Il motivo va accolto, nei limiti e per le considerazioni che seguono.

Non possono essere presi in considerazione i rilievi dei ricorrenti relativi alla fase postoperatoria: sono infatti relativi a circostanze di fatto, che sono state accertate diversamente dal giudice di merito: la sentenza impugnata afferma recisamente, a pg. 29, che non ci sono elementi per affermare che il (OMISSIS) si sia ingerito nella cura della (OMISSIS) in fase post-operatoria, assumendosene la responsabilita’.

Non appare invece condivisibile in diritto l’affermazione della corte d’appello che esclude ogni responsabilita’ del secondo aiuto, per essersi egli limitato a partecipare all’intervento fornendo assistenza ai due chirurghi con il compimento di alcune attivita’ materiali (posizionare la paziente sul lettino operatorio, accertare la presenza di limitazioni nei movimenti dell’anca, verificare la completezza dello strumentario e mantenere il campo operatorio accessibile) alle quali non sarebbe riconducibile alcuna responsabilita’ colposa, “non avendo avuto il (OMISSIS) la possibilita’ di interloquire sulle scelte da questi adottate e/o di esprimere il proprio dissenso”.

In relazione a questo profilo, il sesto motivo di ricorso deve essere accolto.

La questione della responsabilita’ di ciascun componente dell’equipe medico-chirurgica e’ stata approfondita prevalentemente dalle sentenze penali, ai fini della affermazione o meno della responsabilita’ dei singoli componenti della equipe medica a fronte del decesso del paziente o comunque dell’esito peggiorativo dell’intervento.

Nel caso in esame non e’ in contestazione la corretta esecuzione o meno dell’operazione medico-chirurgica di installazione della protesi nell’anca della signora (OMISSIS), che non si discute sia in se’ tecnicamente riuscita.

Si discute invece di quali siano gli obblighi di diligenza e di prudenza esistenti a carico di ciascun componente dell’equipe medica, in particolare di quelli posti in posizione subordinata, a fronte della scelta stessa di operare.

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