Cooperazione della vittima mediante la coartazione della propria volontà

Corte di Cassazione, penale, Sentenza|2 febbraio 2022| n. 3724.

Cooperazione della vittima mediante la coartazione della propria volontà.

Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate.

Sentenza|2 febbraio 2022| n. 3724. Cooperazione della vittima mediante la coartazione della propria volontà

Data udienza 29 ottobre 2021

Integrale

Tag – parola: Estorsione – Cooperazione della vittima mediante la coartazione della propria volontà – Sussistenza in tema di minaccia larvata di licenziamento a mezzo mail

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VERGA Giovanna – Presidente

Dott. FILIPPINI Stefano – Consigliere

Dott. TUTINELLI Vincenzo – Consigliere

Dott. PERROTTI Massimo – Consigliere

Dott. SARACO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nata a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato in (OMISSIS);
Nei confronti di:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
Avverso la Sentenza del 26/06/2019 della CORTE DI APPELLO DI L’AQUILA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ANTONIO SARACO;
letta la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale Dr. MANUELI VALENTINA, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. (OMISSIS) e (OMISSIS) – costituite parti civili nel procedimento a carico di (OMISSIS) e (OMISSIS) – ricorrono avverso la sentenza del 26/06/2019 della Corte di appello di L’aquila che ha confermato la sentenza del 19/09/2017 del G.u.p. del Tribunale di Sulmona che aveva assolto entrambi gli imputati dall’estorsione loro con (OMISSIS)ta al capo A) e che aveva assolto (OMISSIS) dal reato ascrittole al capo B) perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato.
Deducono:
1.1. Violazione di legge con riguardo l’articolo 629 c.p..
Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione del principio di diritto piu’ volte affermato dalla Corte di legittimita’ che ravvisa gli estremi dell’estorsione nella condotta del datore di lavoro che -approfittando delle condizioni del mercato del lavoro- costringe il lavoratore subordinato, con minaccia larvata di licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi deteriori.
Secondo i ricorrenti la sentenza incorre nel vizio di violazione di legge per due ragioni; a) perche’ non ha rilevato la presenza di una minaccia implicita; b) perche’ non ha tenuto conto delle condizioni retributive inadeguate rispetto alle condizioni di lavoro disumane.
1.2. Mancanza di motivazione relativamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito e posto a sostegno dell’atto di appello.
A tale riguardo i ricorrenti sostengono che la Corte di appello non si e’ soffermata a esaminare in chiave critica i contributi contenuti nell’atto di appello, limitandosi ad affermare in maniera apodittica che quanto contenuto nel fascicolo non sarebbe idoneo a provare la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di estorsione.
Il motivo di ricorso viene sviluppato con particolare riguardo alla testimonianza resa da (OMISSIS), che si assume trascurata.
1.3. “Mancanza di motivazione relativamente alla peculiarita’ della posizione di (OMISSIS) rispetto al generalizzato clima di intimidazioni e di pressioni sul posto di lavoro nei confronti di tutti gli altri lavoratori”.
Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della mancata valutazione di una serie di elementi (e-mail, sentenza civile di condanna passata in giudicato, dichiarazioni di (OMISSIS) e (OMISSIS), dichiarazioni rese dallo stesso (OMISSIS) nelle s.i.t. del 13/05/2013) dai quali emergevano gli elementi costitutivi della contestata estorsione.
1.4. “Mancanza di motivazione relativamente alle minacce di licenziamento e alla prospettiva di non reperire altro posto di lavoro”.
Con l’ultimo motivo i ricorrenti insistono nel rimarcare la mancata valutazione delle dichiarazioni rese da (OMISSIS) in punto di sussistenza della minaccia di licenziamento in caso di mancata ottemperanza alle direttive, con particolare riguardo al prolungamento dell’orario di lavoro senza corresponsione di arretrato. Il tutto con la precisa consapevolezza -agitata nei confronti dei lavoratori- della difficolta’ di trovare un nuovo impiego.
2. Il 21 ottobre 2021 sono pervenute memorie in difesa di (OMISSIS) e (OMISSIS) con le quali si sostiene l’inammissibilita’ del ricorso.

Cooperazione della vittima mediante la coartazione della propria volontà.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione d’inammissibilita’ sollevata da (OMISSIS) e (OMISSIS), i quali hanno eccepito che l’impugnazione non contiene la specificazione che essa si rivolge agli effetti della sentenza impugnata.
L’eccezione e’ manifestamente infondata ove si rilevi che i ricorrenti nelle conclusioni hanno chiesto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello al fine di ottenere la condanna la condanna di (OMISSIS) e (OMISSIS) al risarcimento dei danni da loro subiti, cosi’ specificamente indirizzando l’impugnazione al perseguimento degli effetti civili.
2. Cio’ premesso, i ricorsi sono fondati.
2.1. La ricostruzione dei fatti e’ assolutamente pacifica nella doppia sentenza conforme. La Corte di appello, invero, ha fatto propria la ricostruzione del G.u.p., che ha riconosciuto come (OMISSIS) e (OMISSIS) -a detta dei numerosi testimoni-prestassero il proprio servizio oltre l’orario di lavoro, in maniera sostanzialmente ininterrotta (anche per venti ore al giorno), espletando compiti non inerenti alle loro mansioni, subendo le continue vessazioni di (OMISSIS) e (OMISSIS), senza che venisse loro corrisposta la retribuzione delle ore lavorative effettivamente espletate. Risulta per tabulas, peraltro, come il rispetto di tali condizioni di lavoro non retribuite venisse posta come opzione alternativa alla prospettazione per i lavoratori della “liberta’” di lasciare il proprio impiego.
1.2. I giudici del merito riconoscono che la compresenza di tali elementi indurrebbe a ritenere configurata l’estorsione cosi’ come contestata nel capo di imputazione, ma ritengono di superare gli insegnamenti della Corte di legittimita’ sul punto osservando che: a) le e-mail in atti “non evidenziano tale connotato (minaccioso n. d.e.), in esse, infatti, il datore di lavoro, dopo avere impartito delle direttive, specifica che “…se qualcuno non e’ d’accordo e’ libero di andarsene…” facendo, quindi, esplicito riferimento alla liberta’ decisionale del lavoratore, nel caso in cui lo stesso non condividesse le direttive impartite, non potendo tali espressioni interpretarsi come minaccia di licenziamento, neppure larvata” (cfr. Corte di appello, foglio 6 della sentenza); b) perche’ “nella fattispecie, non sono stati acquisiti elementi volti a rappresentare una peculiare condizione di debolezza delle persone offese, per le particolarita’ del contesto economico e, specificamente, del settore alberghiero sulmonese, nonche’ dell’ambiente familiare di provenienza” (cfr. G.u.p. foglio 6 della sentenza).
1.3. La Corte di appello, dunque, esclude la sussistenza della minaccia facendo leva sulla possibilita’ di scelta lasciata al lavoratore dal datore di lavoro, quanto alla possibilita’ di proseguire il rapporto di lavoro o di rispettare le (ingiuste) condizioni di lavoro, siccome descritte.
L’argomentazione spesa dai Magistrati del gravame, pero’, non considera che la stessa nozione di minaccia implica proprio che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta ultima da adottare, ma nella consapevolezza che ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo, si avrebbe la conseguenza del male ingiusto prospettato. Proprio da tale caratteristica propria della minaccia discende che l’estorsione e’ il tipico reato per la cui perpetrazione e’ richiesta la cooperazione della vittima mediante la coartazione della sua volonta’.
Da cio’ discende che la rimessione al soggetto passivo della scelta della condotta da adottare non e’ considerazione cui poter fare ricorso al fine di escludere la sussistenza della minaccia e -con essa- dell’estorsione, cosi’ che l’argomento in esame, cosi’ come utilizzato dalla Corte di appello, e’ certamente fallace, con cio’ configurandosi il vizio di violazione di legge.
1.4. Ne’ tale vizio puo’ ritenersi superato dal fatto che nelle e-mail non si minacci il licenziamento, ma si dica che il lavoratore “e’ libero di andare via”, in quanto una tale precisazione perde di vista -in cio’ incorrendo nel vizio di manifesta illogicita’- il senso evidente della frase, che pone il lavoratore di fronte all’alternativa di accettare le condizioni di lavoro imposte dal datore di lavoro o di perdere il lavoro, risultando indifferente che tale evenienza si possa realizzare per una decisione “volontaria” (nel senso prospettato al § 1.3.) del lavoratore o a iniziativa del datore di lavoro.
1.4. Va aggiunto che tale ultima evenienza assume rilievo penale perche’ nel caso in esame, le condizioni di lavoro indicate come alternativa alla perdita del lavoro) sono inique e illegittime, per come pacificamente riconosciuto dagli stessi giudici di merito, in quanto intese a sottoporre il lavoratore a turni di lavoro ininterrotti, ben oltre gli orari pattuiti, per espletare attivita’ non rientranti nelle proprie mansioni, con un trattamento retributivo del tutto inadeguato rispetto alle ore lavorative effettivamente svolte e alle attivita’ effettivamente espletate.
Il tutto accompagnato dalle condotte vessatorie di (OMISSIS) e (OMISSIS).
Invero, a fronte di un tale (pacifico) stato di fatto, va ribadito che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate (in tal senso, cfr. Sez. 2, Sentenza n. 11107 del 14/02/2017, Rv. 269905 – 01).
2. Il principio di diritto ora richiamato fa risaltare come i giudici di merito abbiano erroneamente escluso il reato sul presupposto che nel caso concreto mancava una “peculiare condizione di debolezza delle persone offese, per le particolarita’ del contesto economico e, specificamente, del settore alberghiero sulmonese, nonche’ dell’ambiente familiare di provenienza”.
In sostanza i giudici di merito ritengono che la configurabilita’ del reato richieda -oltre agli elementi costitutivi propri dell’estorsione- anche un ulteriore requisito, individuato in una particolare condizione soggettiva della persona offesa, indicata in una non meglio specificata “peculiare condizione di debolezza”, dovuta al contesto economico di appartenenza e “all’ambiente familiare di provenienza”.
Tale ulteriore requisito, pero’, non e’ richiesto al fine della configurazione del reato, che si realizza nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che veste rispetto al lavoratore subordinato e alla strutturale condizione a lui favorevole della prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro.
Cio’ che ammanta di rilievo penale una condotta siffatta non va rinvenuta nelle condizioni economico-ambientali o nelle condizioni personali del lavoratore, ma nel fatto che il datore di lavoro coarti il lavoratore nel senso di accettare condizioni di lavoro inique e deteriori dietro la minaccia dell’interruzione del rapporto di lavoro, restando indifferente il contesto socio ambientale e familiare in cui tale coartazione viene attuata.
Da qui la violazione di legge che affligge la sentenza impugnata in conseguenza della divergente argomentazione spesa dai giudici del merito.
2. Tutte le ragioni esposte portano all’annullamento con rinvio della sentenza impugnata. Il rinvio per il nuovo giudizio -peraltro- va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello, cosi’ disponendo l’articolo 622, c.p.p. nell’ipotesi in cui -come nel caso in esame- l’annullamento riguardi soltanto l’azione civile, rimanendo fermi gli effetti penali della sentenza.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *