Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 30 gennaio 2018, n. 639. Se la ratio dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. 109/2012, consente di dare alla disposizione un’interpretazione elastica, non può trascurarsi l’opposta esigenza di limitare gli abusi

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Vi si afferma infatti, che “la ratio sottesa all’adozione del più ampio termine “organismi pubblici” è proprio quella di includervi anche soggetti, pubblici, privati, o municipalizzati che istituzionalmente o per delega svolgono una funzione o un’attribuzione pubblica o un servizio pubblico” e si elencano esempi di documentazione utile, tra cui compare quella di “centri di accoglienza e/o ricovero autorizzati o anche religiosi” (ipotesi che il TAR sembra abbia ritenuto sussistere).

Con riferimento al caso in esame, è tuttavia evidente che la mera iscrizione ad un’associazione di tutela (dalla quale, come ha precisato, a seguito di istruttoria, la sentenza di primo grado “non è possibile desumere quali ulteriori servizi siano stati erogati all’odierno ricorrente, oltre alla disponibilità di un “avvocato per iniziare una pratica per il conseguimento di un titolo di permanenza sul territorio nazionale””) è cosa ben diversa dall’aver ricevuto accoglienza e assistenza presso un centro organizzato, con ciò che ne sarebbe conseguito in termini di certezza delle registrazioni sulla presenza in Italia dello straniero.

Se la ratio dell’art. 5, co. 1, cit., consente di dare alla disposizione un’interpretazione elastica, non può trascurarsi l’opposta esigenza di limitare gli abusi – statisticamente frequenti in tutte le procedure di sanatoria – e di scongiurare il rischio che un’eccessiva flessibilità sui requisiti di accesso alla sanatoria si traduca in un moltiplicatore dei flussi di immigrazione irregolare (cfr. Cons. Stato, III, n. 63/2015 e n. 3095/2015) producendo quindi un pericoloso aggiramento della disciplina “ordinaria” dell’ingresso e soggiorno sul territorio nazionale.

Deve pertanto ritenersi che la mera tessera di iscrizione ad un’associazione privata che si propone lo scopo di “offrire prodotti e servizi adeguati alle esigenze degli immigrati, per favorire una loro migliore integrazione e coesione sociale con gli abitanti autoctoni”, non sia sufficiente ad integrare la previsione dell’art. 5, comma 1, cit..

Posto che la stessa sentenza appellata ha individuato in detta iscrizione l’unica documentazione idonea ad integrare il presupposto, e che la sentenza è stata appellata soltanto dal Ministero, quanto sopra esposto conduce all’accoglimento dell’appello, con conseguente riforma della sentenza del TAR e rigetto del ricorso proposto in primo grado.

9. Le spese del doppio grado di giudizio, in considerazione dello sviluppo processuale e della natura della controversia, possono compensarsi tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in primo grado.

Spese del doppio grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2018 con l’intervento dei magistrati:

Lanfranco Balucani – Presidente

Umberto Realfonzo – Consigliere

Giulio Veltri – Consigliere

Pierfrancesco Ungari – Consigliere, Estensore

Giovanni Pescatore – Consigliere

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