Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione VI

sentenza 4 novembre 2014, n. 5419

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO

IN SEDE GIURISDIZIONALE

SEZIONE SESTA

ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6246 del 2012, proposto da: CO.EM., rappresentata e difesa dagli avv. Fr.Va. ed altri, con domicilio eletto presso An.Ga. in (…);
contro
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA (…), nella persona del rettore in carica, rappresentato e difeso dall’avv. To.Di., con domicilio eletto presso To.Di. in (…);
ed altri
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III n. 02973/2012, resa tra le parti, concernente accertamento diritto al risarcimento danni patrimoniale e non, subiti a seguito di “mobbing”
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Roma “(…)”, dell’Azienda Policlinico (…) e del Ministero dell’Economia e delle Finanze;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 6 maggio 2014 il Cons. Vito Carella e uditi per le parti gli avvocati Va., Di., Ba. e dello Stato Pi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

I.- Risulta dalla sentenza oggetto di odierno appello che il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, decidendo sul gravame riassunto dall’istante (sentenza del Tribunale del Lavoro di Roma n. 12659 del 14 luglio 2009 declinatoria della giurisdizione) e disattese le eccezioni di prescrizione e di difetto di legittimazione passiva in capo all’Azienda Policlinico (…), ha respinto con condanna alle spese di giudizio (ma non per l’eccepita lite temeraria) il gravame proposto dalla ricorrente, docente associata del settore “Clinica psichiatrica” collocata a riposo al 70esimo anno di età a decorrere dal 1 novembre 2007.

L’impugnazione era volta ad ottenere l’accertamento della responsabilità solidale dell’amministrazione di appartenenza (universitaria e sanitaria) per i danni conseguenti a plurime azioni ritenute integrative di “mobbing” ovvero in subordine da affermato “demansionamento” e/o “dequalificazione”.

I giudici di prima istanza, ricostruita la carriera didattica e assistenziale della docente nonché illustrati gli elementi costitutivi della figura giurisprudenziale del mobbing, hanno innanzitutto escluso l’esistenza in vicenda di un sovrastante disegno persecutorio nei vari atti e comportamenti addotti ma non provati in relazione al dilatato arco temporale assunto a riferimento (dal 1982 al 2007) ed hanno poi anche considerato per categorie gli episodi più significativi denunziati sotto i profili delle condotte mobbizzanti o demansionanti.

Questi i rilievi osservati dai primi giudici: la qualifica di primario attribuita, che di solito non è conferita ad associati; la pretesa invocata all’avanzamento ad ordinario, che dipende solo dall’esito dell’apposita procedura concorsuale; la caratteristica della riorganizzazione nella lamentata riduzione delle funzioni di didattica, ricerca e assistenza; le questioni di trattamento giuridico ed economico legate a sopravvenienze legislative, specie quanto al trattenimento in servizio per il biennio di cui all’art. 16 del D.Lgs. n. 503 del 1992; la scelta dei libri di testo, lo svolgimento di convegni, la ripartizione dei fondi, la sospensione della riscossione dei tickets per le prestazioni sanitarie in psichiatria e psicoterapia; il lamentato conferimento di insegnamenti e per la mancata assegnazione di studenti; l’estromissione da commissioni di esame e le spese personalmente sostenute per la ricerca; le funzioni assistenziali riconosciute retroattivamente o solo tardivamente.

II.- Con l’atto di appello in esame la ricorrente ha criticato nel suo complesso e partitamente la sentenza, affermata profondamente ingiusta a mezzo di quattro motivi articolati per capi (atti vessatori e/o discriminatori; azioni di demansionamento; mancata ammissione delle istanze istruttorie specie quanto alla prova testimoniale; diritto al risarcimento del danno sotto tutti i profili azionati in prime cure), essendo stata negata “tutela a persona che è stata colpita, sin dagli inizi del suo incarico e continuativamente per 30 anni di servizio, nella sua identità personale e professionale da una pluralità di provvedimenti amministrativi, nonché da atti solo apparentemente legittimi, tali da determinare i rilevantissimi pregiudizi dedotti nell’atto introduttivo, perché percepita come un ostacolo alla carriera di altri colleghi che, pur avendo una più modesta preparazione, dovevano esserle preferiti secondo le inesorabili logiche del c.d. baronato universitario”, ma di ciò non vi sarebbe traccia nella sentenza impugnata (appello pag. 32).

A dire dell’appellante (che ha ripercorso le tappe della sua carriera accademica e assistenziale dalla laurea in medicina e chirurgia sino al suo collocamento a riposo per raggiunti limiti di età e dopo per le sofferenze psicofisiche e biologiche patite a causa delle condotte avverse), nella sostanza riproponendo le circostanze dedotte in primo grado tramite “ben 71 capitoli” di doglianza, i primi giudici avrebbero escluso la sussistenza e la rilevanza del mobbing (prospettate solo attraverso le poche condotte esaminate), trascurando la completa documentazione a sostegno “costituita da oltre 300 allegati, del tutto ignorati” con una pronuncia generica e tautologica fondata “esclusivamente sulla base di personali convincimenti, frutto di uno scarso approfondimento della vicenda controversa”.

Secondo la prospettazione, la sentenza sarebbe carente di indicazione circa l’iter logico-argomentativo seguito nell’escludere il mobbing e il demansionamento; avrebbe attribuito tout court valenza probatoria alla poca significativa documentazione di controparte; avrebbe applicato in modo incoerente una presunta prescrizione in ordine al demansionamento; avrebbe illogicamente negato l’ammissione dei mezzi istruttori per prova testimoniale e CTU; in incipit avrebbe stigmatizzato ed ironizzato sulle doglianze di parte attrice quasi che la ricorrente debba essere grata all’Ateneo per i pochi e stentati avanzamenti di carriera che le spettavano per merito e per legge; si arguirebbe dalla sentenza stessa un atteggiamento benevolo nei confronti delle amministrazioni resistenti; la condanna alle spese di lite sarebbe eccessiva.

III.- Le amministrazioni intimate si sono costituite in giudizio per resistere, ad eccezione della Gestione Liquidatoria dell’Azienda Universitaria Policlinico (…): l’Università, come da memoria del 20 dicembre 2013, ha opposto l’infondatezza dell’appello e, in via subordinata riconvenzionale, ha domandato l’accertamento della responsabilità ovvero corresponsabilità della Azienda Policlinico (…) e/o della Gestione Liquidatoria dell’Azienda Universitaria Policlinico (…); l’Azienda Policlinico (…) ha concluso per la reiezione del gravame con la memoria del 20 dicembre 2013, opponendosi alla prova per testi e chiedendo di essere ammessa alla prova contraria secondo gli indicati capitoli di prova; il Ministero resistente con gli atti depositati il 30 maggio 2013 ha eccepito la irritualità della notifica dell’appello nonchè la propria estraneità e di quella della Gestione Liquidatoria alla vicenda in esame, che attiene specificamente alla gestione del rapporto di lavoro.

In vista dell’udienza pubblica del 6 maggio 2014, nella quale la causa è stata trattenuta a decisione, l’appellante ha insistito, con la memoria depositata il 4 aprile 2014 dal nuovo difensore, per l’accoglimento in tutto o in parte della domanda di mobbing o, in subordine, per l’illegittimo demansionamento, con la conseguente condanna risarcitoria per le causali richieste nell’atto di appello.

L’università resistente ha replicato con la memoria del 15 aprile 2014 e, nel riportarsi alle precedenti conclusionali, ha sollecitato la cancellazione delle riportate frasi gratuite, sconvenienti ed offensive per l’Ateneo, contenute nella predetta ultima memoria depositata dall’appellante.

DIRITTO

1.- E’ oggetto di controversia il reclamato risarcimento danni da preteso “mobbing” e da asserito “demansionamento”, in virtù di affermate plurime azioni vessatorie e discriminatorie dell’Università degli Studi di Roma “(…)” e/o dell’Azienda Policlinico (…) di Roma, che si sarebbero snodate nel largo arco temporale dal 1982 al 2007 a danno dell’appellante, docente associata nel settore disciplinare “Clinica psichiatrica” collocata a riposo per raggiunti limiti di età al compimento del 70esimo anno.

Al riguardo, non sussiste presupposto alcuno per discostarsi dalle coordinate giurisprudenziali di questo Consiglio di Stato in materia ed alle quali si rinvia:

– per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo. A tal fine, la condotta di mobbing del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4135; Sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1388);

– non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche. In particolare nel lavoro “pubblico”, per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell’amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all’interesse generale a cui sono normalmente diretti (Sez. IV, 19 marzo 2013, n. 1609; Sez. VI, 15 giugno 2011, n. 3648);

– la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singolarmente, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro. Segue da ciò che, nel verificare l’integrazione del mobbing è necessario, anche in ragione della indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro, da un lato, l’idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione) e, dall’altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta (Sez. VI, 17 febbraio 2012, n. 856; Sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 14);

– non si può addebitare un disegno persecutorio qualora non sia possibile desumere elementi di prova dalla illegittimità dei provvedimenti, non essendo stati, tali atti, impugnati, e non siano state provate condotte personali dei superiori del dipendente tali da manifestare il connotato della vessatorietà, delle minacce, della violenza e delle ingiurie. Di conseguenza, la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall’Amministrazione nell’ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo (Sez. V, 27 maggio 2008, n. 2515).

Alla stregua dei predetti orientamenti giurisprudenziali, l’appello risulta destituito di fondamento e la sentenza impugnata merita conferma, essendo esente dalle censure mosse per le considerazioni nel seguito sviluppate.

2.- Pertanto, non si riscontra nemmeno alcuna valida ragione per dover disporre in vicenda le domandate prove per testi e CTU, atteso che la causa è matura per la decisione e trovando la controversia risoluzione in altro percorso logico-processuale in applicazione dei principi di sinteticità e della ragione più liquida.

Analogamente, in virtù del prospettato rigetto dell’appello, si può prescindere da ogni altra eccezione sollevata dalle rispettive controparti pubbliche (irritualità della notifica, estraneità al rapporto e accertamento del grado di corresponsabilità), ivi compresa la domanda dell’Ateneo resistente volta alla cancellazione di frasi ravvisate sconvenienti ed offensive contenute nell’ultima memoria dell’appellante.

Per esaustività, relativamente a tali espressioni, è sufficiente rilevare come esse non impingano macroscopicamente nell’abuso della difesa e rappresentino piuttosto, per così dire, la “naturale” esplicitazione conclusionale di un atto di appello carico nelle sue 69 pagine di allocuzioni forti nei confronti dell’amministrazione universitaria e sanitaria di appartenenza, critiche quindi che vanno inserite nel lungo e complesso contenzioso in argomento, a tratti viscerali, cui deve essere data definitiva risposta in questa sede e per tale via venendo a trovare anche piena soddisfazione la dignità universitaria ritenuta lesa.

3.- In punto di diritto il discorso deve muovere dal costante orientamento interpretativo sopra precisato di questo Consiglio di Stato, secondo cui per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

La sentenza impugnata non solo ha motivatamente escluso, con dettagliato esame dei singoli episodi più significativi dei “ben 71 capitoli” di doglianza, l’esistenza di atti a contenuto vessatorio, ma ha rilevato che i fatti denunciati, molti dei quali comunque irrilevanti o rimasti indimostrati oppure non opposti ovvero prescritti, avevano assunto solo nella percezione soggettiva della ricorrente una valenza lesiva della sua personalità; in ogni caso, non erano emersi elementi idonei ad avvalorare la tesi di un intento vessatorio.

Nel ritenere insussistente il mobbing, i giudici di prima istanza hanno dunque esaminato sia singolarmente, sia nel loro insieme le condotte rilevanti che la ricorrente aveva prospettato a fondamento della domanda ed hanno ravvisato -in libero convincimento e con ragionamento immune da vizi logici in coerenza alle risultanze documentali poste a base della pronuncia- principalmente in fattori di ordine soggettivo e di carattere organizzativo la ragione della diversa percezione dei fatti e delle vicende lavorative in senso persecutorio.

D’altronde, del percorso argomentativo seguito dai primi giudici non sono state denunciate dall’appellante incoerenze argomentative o contraddizioni, che sussistono solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico messo a fondamento della sentenza impugnata; la ricorrente con l’appello fa al contrario valere il contrasto della propria ricostruzione con quella operata in sentenza e l’attribuzione agli elementi valutati in primo grado di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni di essa reclamante.

Non corrisponde poi a realtà che i giudici di prima istanza abbiano “nell’incipit” della sentenza stigmatizzato ed ironizzato sulle doglianze della ricorrente oppure che dalla stessa si possa arguire un atteggiamento di comprensione benevola nei confronti delle amministrazioni resistenti, essendosi la pronuncia limitata ad illustrare i dati di fatto caratterizzanti la fattispecie e non potendo costituire oggetto di censura la tecnica espositiva o di redazione della asettica pronuncia, a torto criticata.

4.- Nè sono fondate le doglianze di omesso o insufficiente esame di fatti decisivi e degli “oltre 300 allegati” trascurati.

Al riguardo va premesso che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, sì da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una decisione diversa. Nella specie, l’appello è carente sotto l’indicato aspetto in quanto non riporta il contenuto specifico degli atti processuali cui si fa riferimento nelle doglianze in discorso e non fornisce alcun dato valido per ricostruire, sia pure per sintesi, i dati fattuali emergenti dai documenti depositati asseritamente trascurati e decisivi ai fini del decidere.

Inoltre, come da esposizione in fatto, le lamentele non fanno altro che reiterare la differente personale lettura, concatenazione e apprezzamento di fatti diversi snodatisi nell’arco di “30 anni”, semplicemente accomunati dal mantello di una solo enunciata “costrittività” della carriera perché percepita come un ostacolo alla carriera di altri colleghi, per la tardiva e retroattiva erogazione del trattamento economico di Aiuto, per i mancati convegni, per gli studenti non assegnati, per le stanze, per la ripartizione dei fondi, per la nomina in commissioni d’esame, per il mancato raggiungimento dell’ordinariato, e per quant’altro di minuzioso aggiunto.

Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso dall’appellante, nel caso concreto, dalla trama complessiva della sentenza impugnata, emerge invece con evidenza la completa cognizione delle questioni dibattute e la loro trattazione da parte dei primi giudici in modo conciso e sufficiente a ricostruire il percorso motivazionale impresso, per nulla carente o criptico come invece denunziato.

Del resto, il principio di sinteticità che deve permeare la redazione degli atti del giudice (art. 3 codice del processo amministrativo), al pari di quelli delle parti, non implica la necessità di una motivazione che, in modo meccanico e pedissequo, assuma partitamente a riferimento ogni singolo profilo argomentativo della parte.

5.- Quel che invece importa, delle 71 circostanze addotte, è che il quadro ricostruttivo svolto, per integrare i denunziati mobbing e demansionamento, non regge alla luce dell’andamento regolare se non accelerato della carriera universitaria e sanitaria (assistente ordinario dal 1973 al 1977 presso l’Università di Bari e successivamente presso il Policlinico (…) di Roma, assegnata alla II cattedra di Psichiatria; professore associata nel 1982, confermata nel 1985 e preposta all’insegnamento di Clinica psichiatrica; funzioni di Aiuto dal 1987 alla II Divisione psichiatrica dell’ospedale Santa Maria della Pietà e dal 1992 presso lo stesso nosocomio in qualità di Primario del Servizio speciale di psichiatria e psicoterapia; dal 2000 Dirigente di II livello del Servizio Speciale di Psicologia clinica e psicofarmacologia presso il Policlinico Umbarto I). Per tali aspetti non è vano ricordare che detto sviluppo non è in distonia ai criteri dettati dal d.P.R 27 marzo 1969, n. 129 (Ordinamento interno dei servizi di assistenza delle cliniche e degli istituti universitari di ricovero e cura), dal d.P.R. di pari data n. 130 (Stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri), dal d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 484 (Regolamento recante la determinazione dei requisiti per l’accesso alla direzione sanitaria aziendale e dei requisiti e dei criteri per l’accesso al secondo livello dirigenziale per il personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale), anche quanto ai normali periodi previsti di accesso alle rispettive qualifiche. Le indennità economiche di Aiuto e della c.d. “(…)” sono collegate all’avvenuta strutturazione, della cui relativa decorrenza non si fa cenno e, comunque, eventuali ritardi dell’amministrazione nel riconoscimento dei relativi emolumenti o nell’erogazione di arretrati non radicano di per sé attività mobbizzante e non legittimano pretese ultronee, se non si è agito in giudizio, o oltre le statuizioni giustiziali per l’indennità di posizione.

Nella carriera della docenza universitaria, poi, la progressione non è automatica, bensì fondata su un sistema concorsuale che, nonostante le logiche “baronali” denunziate, è poggiato sul giudizio di una commissione nazionale di “pari” in ordine alla raggiunta piena maturità scientifica, la cui produzione nel caso di specie è stata valutata in modo a dir poco non lusinghiero, risultato che non può essere ribaltato in questa sede o costituire nesso eziologico lesivo ed evento dannoso da “violenza o persecuzione” imputabile al datore di lavoro o a superiori gerarchici o a colleghi “preferiti”. D’altro canto, neppure consta quante volte la ricorrente abbia partecipato a concorsi universitari per docente ordinario e se abbia impugnato i relativi giudizi di non idoneità.

Soprattutto, il contesto vessatorio qui denunziato non appare verosimile in relazione alla pluralità di enti presso i quali sono state svolte le mansioni docenti e assistenziali nonché con riguardo alla varietà di rettori, direttori di dipartimento e amministrativi, titolari di cattedra, che si sono succeduti nel vasto arco di tempo assunto a riferimento il quale, come giustamente osservato dai giudici di prima istanza, finisce per svilire la denunciata riconducibilità a comportamenti causali di qualsivoglia intento vessatorio e la loro ascrizione piuttosto ad un clima ambientale di conflittualità lavorativa, magari accesa ed esasperata da eccessiva personalizzazione, ma non integranti nel complesso ed atomisticamente un disegno coordinato e preordinato da parte di taluno della vessazione percepita. Ne sono dimostrazione la lamentela dell’appellante di essere ostacolata nel raggiungimento dell’ordinariato, l’obliterazione degli assetti normativi e delle conseguenti rimodulazioni logistiche nonché finanziarie intervenute nell’organizzazione dell’Università e della Sanità pubblica, la pretesa al prolungamento del servizio per un altro biennio oltre il 70esimo anno in violazione degli artt. 17 e 19 della legge 4 novembre 2005, n. 230.

6.- Si deduce ancora dall’appellante che nei periodi dal dicembre 1987 al maggio 1988, dal novembre 1999 al 6 ottobre 2000, dal novembre 2004 al 7 dicembre 2005, sarebbe stata demansionata e resa inattiva nella qualifica di professore di ruolo di seconda fascia e di dirigente sanitario di secondo livello. Nell’atto di appello, tuttavia, non vengono precisate le relative circostanze e fatti di riferimento, se non con un generico accenno e rinvio agli atti introduttivi, rispetto ai quali e senza contrastare le difese avversarie, si afferma che le amministrazioni resistenti avrebbero dovuto provare il contrario.

Sul punto vale rilevare, come precisato da Cassazione civile (Sez. lavoro, sentenza 5 agosto 2010, n. 18283), che, in tema di provvedimento del datore di lavoro a carattere ritorsivo, l’onere della prova grava sul lavoratore, potendo esso essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione del provvedimento illegittimo. Ne consegue che, in sede di giudizio di legittimità, il lavoratore che censuri la sentenza di primo grado per aver negato carattere ritorsivo al provvedimento datoriale non può limitarsi a dedurre la mancata considerazione, da parte del giudice, di circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma deve indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra le circostanze pretermesse e l’asserito intento di rappresaglia. Ad ogni modo, nel concreto, le lamentate pause lavorative sono connesse a disfunzioni o a diverse impostazioni organizzative dei superiori rispetto a quelle ritenute più valide dalla ricorrente o conseguenti agli oscillanti orientamenti giustiziali in tema di collocamento a riposo dei docenti universitari.

Per il resto, le deduzioni svolte in appello si risolvono, nella sintesi, in un diverso apprezzamento rispetto ai fatti ritenuti dalla sentenza gravata, inammissibile nei termini in cui è proposto ed infondato perché il quadro denunziato di costrittività non appare eccedente rispetto agli ordinari poteri organizzativi del datore di lavoro, la cui legittimità non può essere ora messa in discussione nella mancanza di tempestivi gravami tempo per tempo oppure oltre i giudicati che si siano eventualmente maturati su qualcuno degli episodi in argomento.

Relativamente alla doglianza, solo accennata, per l’entità delle spese di lite liquidate in sentenza (Euro 5.000,00) è sufficiente notare che la condanna alle spese processuali, rapportate all’esito complessivo del giudizio, come da art. 91 c.p.c., si fonda sul distinto processo delibato e sull’esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte vittoriosa. Dunque, non possono essere messi qui in discussione, nè la pacifica soccombenza intervenuta, né i poteri discrezionali del giudice in materia di liquidazione delle spese processuali, nel caso di specie peraltro determinate in misura non eccessiva e ragionevole in rapporto alla consistenza della causa.

7.- Conclusivamente, la sistematicità dell’intento persecutorio non può essere tratto dalla congerie della sola enumerazione di molteplici e variegati episodi quali elencati, a carattere isolato o connessi a situazioni dei contenziosi o a pretese retrodatazioni di carriera o ad auspicati avanzamenti o a contingenze minimali nell’endemico andamento delle università italiane (l’aula, la macchina da scrivere, gli studenti, il posto di assistente, la borsa di studio, i fondi per la ricerca, e quant’altro) e su questi dati dare sfogo trentennale a un vissuto di frustrazioni e conflittualità interne per costruire un ventilato tassello di mobbing e demansionamento. Ciò, peraltro, in assenza del documentato elemento soggettivo unificante e di un comprovato nesso eziologico, quando per giunta non è in contestazione che le mansioni assegnate ed effettivamente esercitate non siano diverse da quelle di associato, ma si contesta nella sostanza una mancata maggiore considerazione professionale nell’ambiente universitario o sanitario e per la lamentata promozione fallita ad ordinario, che non tutti i docenti associati raggiungono.

La reiezione dell’appello determina altresì il rigetto della domanda risarcitoria in quanto, alla riscontrata carenza dell’ipotesi denunciata di mobbing e di demansionamento, corrisponde l’assenza dei relativi presupposti di danno per condotta intenzionale, sistematica e reiterata volta a danneggiare la docente nel suo ruolo e nella sua attività comprensiva di ricerca, docenza e assistenza o che abbia potuto determinare in modo preordinato il di lei isolamento fisico, morale e psicologico all’interno del contesto universitario e sanitario.

Pertanto, essendo stati analizzati tutti i capisaldi della controversia in esame, può fondatamente ritenersi che i profili principali di infondatezza riscontrati siano sufficienti a sorreggere il rigetto dell’appello stesso, alla stregua dei principi di sinteticità e della ragione più liquida, non potendo essere pretesa una pedissequa motivazione in riferimento meccanico a ogni singolo profilo argomentativo della parte.

L’appello deve essere dunque respinto siccome infondato e la sentenza va confermata per le argomentazioni innanzi sviluppate.

Tuttavia, per la natura della causa e per la particolarità soggettiva della fattispecie, le spese di giudizio relative al grado possono essere interamente compensate tra tutte le parti in lite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto (ricorso numero: 6246 del 2012), respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata come da motivazione.

Spese del grado compensate tra tutte le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 maggio 2014 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Baccarini – Presidente

Maurizio Meschino – Consigliere

Vito Carella – Consigliere, Estensore

Claudio Contessa – Consigliere

Roberta Vigotti – Consigliere

Depositata in Segreteria il 4 novembre 2014.

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