Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 30 maggio 2017, n. 2614

Il provvedimento di revoca si fonda sul dato oggettivo della violazione della normativa di regolazione del settore senza che rilevi il profilo soggettivo della violazione stessa da parte dell’impresa che ha ottenuto il finanziamento

Consiglio di Stato

sezione VI

sentenza 30 maggio 2017, n. 2614

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2675 del 2016, proposto da:

Ve. Fo. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato El. La., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato An. Fi. Studio Ab. Le. & Partners in Roma, via (…);

contro

Ministero dello Sviluppo Economico, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato presso gli uffici di quest’ultima in Roma, via (…);

Patto Territoriale della Provincia di Benevento Sc a rl, ed altri, non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza 7 settembre 2015, n. 4393 del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, Sezione III.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 marzo 2017 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati El. La. e Ma. St. Me. dell’Avvocatura Generale dello Stato.

FATTO e DIRITTO

1.- Il Ministro del Bilancio e della Programmazione economica, con decreto 2 novembre 1999, n. 2061, concedeva in via provvisoria, nell’ambito del patto territoriale di Benevento, alla società Ve. Fo. s.r.l. un contributo pari ad euro 1.225.913,74, riguardante un programma di investimenti per complessivi euro 1.523.392,92, al fine di realizzare un impianto industriale per la produzione di prodotti da forno.

A fronte del suddetto contributo in data 7 settembre 2000 era stato erogato a favore dell’impresa la prima quota di euro 612.956,87.

Il Ministero, con nota 7 luglio 2010 n. 19626, comunicava all’impresa l’avviso di avvio del procedimento di revoca dell’agevolazione per mancata ultimazione dell’investimento nel termine accordato (31 dicembre 2009).

Il Ministero dello sviluppo economico, con decreto 20 maggio 2013, n. 0001213, revocava il decreto di concessione del contributo per “mancata ultimazione entro il termine massimo previsto” e disponeva il recupero della somma di euro 612.956,87, gravata degli interessi, maggiorata di 5 punti percentuali calcolati dalla data di ciascuna erogazione alla data della effettiva restituzione, con versamento entro sessanta giorni dal ricevimento del medesimo decreto.

2.- La società ha impugnato tale decreto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, per i motivi riproposti in sede di appello e riportati nei successivi punti.

Il Tribunale amministrativo, con sentenza 7 settembre 2015, n. 4393, ha rigettato il ricorso.

3.- La ricorrente in primo grado ha proposto appello.

3.1.- Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata, chiedendo il rigetto dell’appello.

3.2.- La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 9 marzo 2017.

4.- L’appello non è fondato.

5.- Con i primi tre motivi (pagg. 26-36) dell’atto di appello, si assume l’erroneità della sentenza e degli atti impugnati in quanto si sarebbe proceduta ad una erronea ricostruzione del quadro normativo e in particolare non si sarebbe tenuto conto che il termine del 31 dicembre 2009 sarebbe stato prorogato una prima volta, con l’art. 2, comma 17-ter, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, al 31 dicembre 2011 e una seconda volta, con l’art. 40, comma 9-ter, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, al 31 dicembre 2012. Si aggiunge, inoltre, che l’amministrazione non avrebbe preso in esame le giustificazioni addotte dalla società che aveva rappresentato l’oggettiva impossibilità di prosecuzione dell’attività dovuta al sequestro del bene per causa ad essa non imputabile, nonché la mancanza di un interesse pubblico concreto e attuale che giustificasse la revoca.

I motivi non sono fondati.

L’art. 2, commi 203 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662, disciplina la programmazione negoziata e in particolare il “patto territoriale”, inteso come accordo tra soggetti pubblici, finalizzato all’attuazione di un programma di interventi caratterizzato da specifici obbiettivi di promozione dello sviluppo locale.

Con delibera del CIPE del 23 aprile 1997 è stato approvato il patto territoriale della Provincia di Benevento per la realizzazione di un articolato piano di investimenti per iniziative imprenditoriali ed interventi infrastrutturali, tra cui era ricompreso quello dell’appellante.

L’art. 9 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123 (Disposizioni per la razionalizzazione degli interventi di sostegno pubblico alle imprese, a norma dell’articolo 4, comma 4, lettera c), della legge 15 marzo 1997, n. 59) ha previsto che: “in caso di assenza di uno o più requisiti, ovvero di documentazione incompleta o irregolare, per fatti comunque imputabili al richiedente e non sanabili, il soggetto competente provvede alla revoca” dei benefici.

L’art. 12, comma 3, lett. c), del decreto ministeriale 31 luglio 2000, n. 320, che ha costituito la base legale della revoca, ha previsto che, “fermo restando quanto previsto dall’art. 9 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123”, il Ministero provvede alla revoca delle agevolazioni alle imprese beneficiarie, tra l’altro, “e) qualora l’iniziativa non venga ultimata entro quarantotto mesi dalla data dell’inizio dell’istruttoria, convenzionalmente identificata con la data di presentazione della relativa richiesta salvo che il termine stesso sia stato prorogato; la proroga può essere concessa una sola volta e per un periodo non superiore a dodici mesi”.

L’art. 1, comma 862, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -legge finanziaria 2007) ha previsto che: “le iniziative agevolate finanziate a valere sugli strumenti della programmazione negoziata, non ancora completate alla data di scadenza delle proroghe concesse ai sensi della vigente normativa e che, alla medesima data, risultino realizzate in misura non inferiore al 40 per cento degli investimenti ammessi, possono essere completate entro il 31 dicembre 2008”.

L’art. 2, comma 17-ter, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie) ha disposto che: “(…) il termine di cui all’articolo 1, comma 862, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni, è prorogato al 31 dicembre 2011”.

L’art. 40, comma 9-ter, del decreto-legge 06 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) ha previsto che: “Il termine di cui all’articolo 1, comma 862, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni, è prorogato al 31 dicembre 2012 per le iniziative agevolate che, alla data del 31 dicembre 2011, risultino realizzate in misura non inferiore all’80 per cento degli investimenti ammessi e a condizione che le stesse siano completate entro il 31 dicembre 2012”.

Nella fattispecie in esame, in applicazione della predetta normativa, risulta che la società appellante non ha ultimato i lavori entro il termine previsto.

L’applicazione della proroga del termine al 31 dicembre 2012 richiedeva, infatti, quale presupposto, l’ultimazione dell’80 per cento degli investimenti concessi. Al momento dell’adozione del decreto di revoca impugnato non è contestato che tale percentuale non fosse stata raggiunta e pertanto la proroga non potesse operare. Né varrebbe rilevare che comunque la società avrebbe avuto diritto alla prima proroga al 31 dicembre 2011, in quanto l’esito della determinazione amministrativa, anche riconoscendo l’operatività di tale termine, non sarebbe mutato. L’appellante non ha dedotto, infatti, alcun elemento volto a dimostrare che, se l’amministrazione avesse tenuto conto non del termine del 31 dicembre 2009 ma di quello del 31 dicembre 2011, a quest’ultima data la parte avrebbe realizzato l’80 per cento degli investimenti ammessi e dunque avrebbe potuto giovarsi dell’ulteriore proroga e terminare il progetto interamente allo scadere di quest’ultimo termine. Si tenga conto che il Ministero procedente, con l’avvio del procedimento, non ha “bloccato” l’attività e quindi non può ritenersi che la stessa non sia proseguita per una ragione “interna” al procedimento per cui è causa. In definitiva, la censura riferita all’erronea indicazione del termine non incide sulla correttezza dell’assetto sostanziale degli interessi definito dal Ministero.

Né varrebbe rilevare che sarebbe stato necessario indicare le ragioni di interesse pubblico in quanto viene in rilievo una revoca sanzionatoria che, per la sua natura vincolata, prescinde dalla sussistenza di tali ragioni.

6.- Con un quarto motivo si assume l’erroneità della sentenza e l’illegittimità degli atti impugnati per non avere ritenuto mancante l’indefettibile presupposto della imputabilità della revoca a colpa dell’appellante. Si aggiunge che, venendo in rilievo un accordo ex artt. 11 e 15, della legge n. 241 del 1990, si applicano i principi civilistici in materia di inadempimento delle obbligazioni ai sensi dell’art. 1218 cod. civ.

Il motivo non è fondato.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che il provvedimento di revoca si fonda sul dato oggettivo della violazione della normativa di regolazione del settore senza che rilevi il profilo soggettivo della violazione stessa da parte dell’impresa che ha ottenuto il finanziamento (Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2006, n. 550).

Né varrebbe rilevare che in questo caso la vicenda si inserisce nell’ambito di un accordo tra amministrazioni, con conseguente applicazione delle norme sopra riportate, in quanto in questo caso viene in rilievo la violazione della normativa da parte del privato. Ma anche a volere ritenere applicabili le disposizioni indicate dall’appellante, le stesse postulano, in ogni caso, una presunzione di responsabilità soggettiva, con onere in capo al privato di dimostrare che l’inadempimento non era a lui imputabile. L’appellante non ha assolto a tale onere, non avendo indicato fatti puntuali, anche sul piano temporale, in grado di dimostrare che nel periodo di durata del rapporto il mancato completamento del progetto non sia stato in alcun modo addebitabile a responsabilità della società. Né può essere sufficiente il riferimento alla circostanza che il legale rappresentante della società avrebbe subito “fatti malavitosi”, non risultando elementi, in questo processo, in grado di fare ritenere che quest’ultimi siano stati la causa esclusiva dell’inadempimento dell’obbligo di completare il progetto entro il termine stabilito. In mancanza di tale prova, anche accedendo alla ricostruzione prospettata dalla parte, non è possibile ritenere illegittimo l’atto di revoca.

7.- Con un quinto motivo si assume l’erroneità della sentenza e l’illegittimità degli atti impugnati nella parte in cui non sono stati ravvisati i presupposti per disporre una revoca parziale del finanziamento. In particolare, l’appellante assume che, contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, la normativa di disciplina del settore non richiede, perché si possa procedere alla revoca parziale, che il programma sia stato portato a compimento in misura non inferiore all’80%.

Il motivo non è fondato.

L’art. 9 del d.lgs. n. 123 del 1998 ammette la possibilità che si proceda alla revoca “anche in misura parziale proporzionale all’inadempimento riscontrato”.

L’art. 12, comma 3, del d.m. n. 320 del 2001 dispone che “la revoca dell’agevolazione è parziale, nella misura del 10%, se l’iniziativa è comunque ultimata entro i sei mesi successivi alla richiesta della proroga”.

Nella fattispecie in esame mancano i presupposti puntuali richiesti dalla normativa da ultimo riportata, non avendo l’appellante dimostrato il completamento del progetto nel termine sopra indicato.

8.- Con un sesto motivo si assume l’erroneità della sentenza e degli atti impugnati nella parte in cui non hanno ritenuto illegittima l’applicazione della sanzione accessoria, in mancanza di un comportamento imputabile all’appellante.

Il motivo non è fondato.

La distinzione tra condotte imputabili e non imputabili ai fini dell’applicazione delle sanzioni principali o accessorie non rinviene un fondamento nella disciplina della materia, che si basa, come già sottolineato, sull’applicazione di rimedi di natura obbiettiva. In ogni caso, per le ragioni già esposte, l’appellante non ha provato che si sono realizzati eventi non riconducibili a condotte esenti da colpa.

9.- Con un settimo motivo, l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto sussistente il vizio di incompetenza. In particolare, si afferma che “con la modifica del Titolo V della Costituzione, la materia delle attività produttive è stata trasferita alle Regioni né atti amministrativi possono derogare a tali attribuzioni”. Si conclude, pertanto, che “i provvedimenti impugnati andavano adottati dalla Regione Campania e non dal Ministero”.

Il motivo non è fondato.

L’appellante fa genericamente riferimento ad un difetto di competenza evocando la modifica del Titolo V ma non indica se si tratta di violazione delle competenze legislative o amministrative, il che impedisce, anche per la diversità della disciplina, di comprendere la portata effettiva della censura. In ogni caso, anche prescindendo da tale dato, risulta, come correttamente ritenuto dal primo giudice, che il Ministero dello sviluppo economico e la Regione Campania, in data 5 agosto 2005, hanno sottoscritto una convenzione, cui è stata successivamente allegata un’appendice che prevede che la competenza a disporre la revoca è statale.

10.- Con l’ultimo motivo, si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittima l’adozione della cartella esattoriale, che prevede il pagamento in un’unica rata.

Il motivo non è fondato.

La cartella esattoriale costituisce un atto dovuto consequenziale all’intervenuta revoca. Una volta che si è accertata l’infondatezza delle censure rivolte nei confronti di quest’ultimo atto, resta dovuto quanto contenuto nella predetta cartella.

11.- L’appellante è condannata al pagamento, in favore del Ministero costituito, delle spese del presente grado di giudizio che si determinano in complessive euro 4.000,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:

a) rigetta l’appello proposto con il ricorso n. 2675 del 2016, indicato in epigrafe;

b) condanna l’appellante al pagamento, in favore del Ministero costituito, delle spese del presente grado di giudizio che si determinano in complessive euro 4.000,00, oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 marzo 2017 con l’intervento dei magistrati:

Sergio Santoro – Presidente

Silvestro Maria Russo – Consigliere

Vincenzo Lopilato – Consigliere, Estensore

Francesco Mele – Consigliere

Francesco Gambato Spisani – Consigliere

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