Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione V

sentenza 29 ottobre 2014, n. 5347

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO

IN SEDE GIURISDIZIONALE

SEZIONE QUINTA

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero di registro generale 3401 del 2013, proposto dai signori SA.GA. ed altri (…), tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Ca.Ia., con il quale sono elettivamente domiciliati presso lo Studio Legale Va. – Iz. in Roma, Lungotevere (…);

contro

Il COMUNE DI SALERNO, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati D.Ma. e Lu.Me., con domicilio eletto presso il sig. Pa.Ri. in Roma, viale (…);

il MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona del ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ope legis in Roma, via (…);

per la revocazione

della sentenza del CONSIGLIO DI STATO – SEZ. V, n. 5553 del 31 ottobre 2012, resa tra le parti, concernente un ordine di demolizione di manufatti realizzati senza titolo edilizio presso una cava e divieto dell’attività estrattiva;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Salerno e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 luglio 2014 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati Ia. e Me.;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO

1. Il sig. St.Sa. ed altri (…), impugnarono innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione di Salerno:

a) con ricorso NRG. 25 del 1974: a1) l’ordinanza del Sindaco di Salerno n. 552 del 16 novembre 1972, con cui era stata disposta la demolizione di manufatti edilizi e di impianti industriali di proprietà dei ricorrenti, siti in Salerno, alla via Risorgimento, in quanto abusive; a2) la delibera consiliare n. 228 del 14 aprile 1958 di adozione del Piano regolatore generale; a3) il d.P.R. 4 febbraio 1965 di approvazione dello strumento urbanistico, nella parte in cui i suoli di loro proprietà erano stati destinati a zona rurale comune di tipo edilizio 3 (NRG. 25 del 1974);

b) con ricorso NRG. 26 del 1974: b1) la diffida n. 556/B del 15 dicembre 1972 a “riattivare la coltivazione della cava di pietre con ingresso dalla via Risorgimento e qualsiasi altra attività connessa all’estrazione delle pietre”; b2) l’ordinanza n. 556 del 16 novembre 1972 di sospensione della coltivazione della cava; b3) l’ordinanza n. 552 del 16 novembre 1972 di demolizione degli impianti e manufatti esistenti nel recinto della cava.

Il solo sig. Stefano Santoro impugnò anche (col ricorso NRG. 1479 del 1995) il provvedimento di rigetto dell’istanza di condono edilizio n. 31042 del 29 marzo 1986, di cui alla nota n. 28171 del 14 marzo 1995, con cui l’assessore all’urbanistica del Comune di Salerno aveva comunicato il parere sfavorevole della commissione edilizia integrata n. 18 del 9 marzo 1995.

2. L’adito tribunale, con la sentenza n. 31 del 15 gennaio 1997, nella resistenza dell’intimata amministrazione comunale, riuniti i ricorsi, riteneva infondate le censure sollevate con il primo ricorso NRG. 25 del 1974, respingendolo; dichiarava poi inammissibile il secondo ricorso NRG. 26 del 1974 e respingeva infine il terzo ricorso (NRG. 1479 del 1995) per l’infondatezza delle doglianze formulate.

3. Il Consiglio di Stato, Sezione Quinta, con la sentenza n. 9553 del 31 ottobre 2012, nella resistenza del Comune di Salerno, della Presidenza della Repubblica e del Ministero delle infrastrutture e trasporti, ha respinto l’appello, integrato da motivi aggiunti, proposto dal signor Stefano Santoro, in proprio e nella qualità di legale rappresentante della società Idrocalce s.r.l. in liquidazione, e dalla S.E.P.A. – Società Edile Produzione Asfalti avverso la ricordata sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione di Salerno, confermandola sia pur con diversa motivazione.

Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello all’esito di apposita verificazione fatta espletare dal settore urbanistico della Regione Campania, per conoscere: a) quale fosse stata e fosse la vigente disciplina urbanistica ed edilizia dell’area su cui insistevano i manufatti per cui è causa; b) in quale data fosse entrato in vigore il primo regolamento edilizio comunale, con previsione dell’obbligo di dotarsi di preventivo titolo abilitativo per la realizzazione dei manufatti anzidetti; c) in particolare, in quale data fosse entrato in vigore il richiamato regolamento edilizio di cui alla delibera n. 687/1949; d) se l’area su cui ricadevano i manufatti fosse o meno vincolata, ed in caso positivo da quali vincoli; e) se l’area anzidetta fosse ricompresa o meno nel centro abitato, specificando in caso positivo in base a quale apposito provvedimento e da quale data; f) se i manufatti in questione fossero stati o meno demoliti e ricostruiti, specificando in caso positivo in base a quale titolo e da quale data.

Con la citata sentenza n. 9553 del 2012, il Consiglio di Stato:

a) preliminarmente, ha rilevato l’inammissibilità dell’introduzione in appello di doglianze ulteriori rispetto a quelle che, proposte con atti ritualmente notificati, avevano delimitato il thema decidendum in prime cure, in ragione del divieto dei nova ex art. 345 c.p.c. e del valore meramente illustrativo delle memorie conclusioni;

b) ha precisato che per ragioni di comodità espositiva avrebbe preso in esame direttamente i motivi degli originari ricorsi, “secondo la tassonomia processuale illustrata al successivo punto 10”;

c) ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla difesa del Ministero, in quanto in primo grado era stato espressamente impugnato il d.P.R. 4 febbraio 1965, recante l’approvazione del piano regolatore generale del Comune;

d) ha ritenuto fondata l’eccezione di improcedibilità per carenza di interesse dei primi due ricorsi (sollevata dall’intimata amministrazione comunale, ma non esaminata dai primi giudici, in ragione della ritenuta infondatezza dei ricorsi), in adesione ai consolidati principi giurisprudenziali in materia, essendo stata presentata dagli interessati una domanda di sanatoria degli abusi edilizi contestati, domanda peraltro esaminata dal comune e respinta con provvedimento oggetto di impugnazione col ricorso NRG. 1479 del 1995;

e) ha ritenuto inammissibili le censure mosse con i primi due ricorsi di primo grado nei confronti del piano regolatore generale, in ragione della insindacabilità delle scelte di pianificazione urbanistica che attengono al merito dell’azione amministrativa (nel caso di specie sottolineando peraltro che la destinazione dell’area in questione a zona E, rurale, non era manifestamente abnorme ed era coerente con la natura dei luoghi circostanti, caratterizzati, come certificato dalla certificazione prot. 6299/SA dell’11 aprile 1989 della Soprintendenza di Salerno, da colline boscose, ricche di quinte di vista di rilievo paesistico e ambientale, oltre che dalla sussistenza di un vincolo paesaggistico su tutte le aree circostanti la cava della ditta It. nel vallone Cernicchiara, in cui è possibile solo l’attività estrattiva che non incrementi l’attuale estensione della cava);

f) ha respinto, in quanto inammissibili ed infondate, le doglianze sollevate con il terzo ricorso (NRG. 1479 del 1995) avverso il diniego di sanatoria edilizia.

4. I signori Ga. ed altri (…), quali successori del sig. Stefano Santoro e della s.r.l. Id. in liquidazione, nonché la s.r.l. S., hanno chiesto la revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, e 106 c.p.a., della citata sentenza n. 5553 del 31 ottobre 2012 del Consiglio di Stato, sez. V, sostenendo che essa sarebbe viziata da errore di fatto sia sotto il profilo del mancato esame di atti difensivi (con conseguente mancata pronuncia su domande ed eccezioni), sia sotto quello dell’errore percettivo di documenti.

In particolare, ad avviso dei ricorrenti, i giudici di appello avrebbero dichiaratamente ignorato tutto l’atto di appello e le relative memorie esplicative, erroneamente ritenendo che con detti atti erano state introdotte doglianze ulteriori rispetto a quelle proposte in primo grado, senza avvedersi invece che con l’atto di appello erano state soltanto riproposte le stesse censure già formulate con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non potendo considerarsi nuove censure le contestazioni e le argomentazioni attraverso cui era stata chiesta la riforma della sentenza impugnata.

Oltre ad ignorare tutte le deduzioni difensive, sarebbe conseguentemente mancato l’esame del fondamentale motivo di appello con cui era stata lamentata l’illegittimità dello stesso esame della domanda di condono, giacché le opere della cui contestata abusività si discuteva erano state realizzate in epoca in cui non vigeva alcuno strumento urbanistico e non era pertanto necessario alcuna licenza edilizia: di tale decisiva questione non vi era, secondo i ricorrenti, alcuna traccia nella sentenza revocanda (neppure nella sua parte descrittiva).

Ugualmente non sarebbe stata esaminata la questione concernente la diversità tra l’area di cava, il Vallone Cernicchiara, e l’area vincolata, posta nelle adiacenze del Torrente Rafastia; inoltre non solo il mancato esame delle memorie prodotte avrebbe determinato la mancata pronuncia sulle eccezioni sollevate in sede di appello in ordine alla documentazione prodotta dal Comune di Salerno solo nel 2011, per quanto alcun valore poteva attribuirsi alla verificazione sulla sussistenza del vincolo paesaggistico, anche perché la stessa verificazione aveva accertato che la cava si trovava nel Vallone Cernicchiara e non sul Torrente Rafastia, circostanza che, benché decisiva, sarebbe stata inopinatamente pretermessa dai giudici di appello.

Ancora, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, nessuna autonoma rilevanza e valor fidefaciente si sarebbe potuta attribuire ai fini della prova dell’esistenza del vincolo sull’area in questione alla certificazione comunale che, oltre ad essere stata prodotta tardivamente, conterrebbe un mero rinvio alla carta dei vincoli, peraltro elaborata in epoca notevolmente successiva anche alle date di emanazione degli atti impugnati.

Sotto altro profilo, poi, sempre secondo i ricorrenti, la sentenza impugnata si sarebbe basata su considerazioni semplicistiche ed astratte, che avrebbero richiamato consolidati indirizzi giurisprudenziali in tema di effetti delle istanze di condono e sulla loro relativa natura confessoria, che, oltre ad essere privi di pertinenza con la concreta fattispecie in esame, non avrebbero trovato neppure il necessario riscontro probatorio, né quanto alla asserita natura confessoria, né quanto alla presunta esistenza di vincoli, paesistici o idrogeologico, così che in definitiva sul punto la sentenza revocanda risulterebbe assolutamente contraddittoria ed errata, sia per in ordine al corretto apprezzamento della certificazione della Soprintendenza di Salerno dell’11 aprile 1989, n. 6299/SA, sia per non aver tenuto debitamente conto dell’altra documentazione, ritualmente versata in atti, da cui sarebbe emerso incontrovertibilmente che l’area in questione non era interessata da alcun vincolo.

I ricorrenti hanno quindi integralmente riproposto, ai fini della fase rescissoria, tutti i motivi proposti con l’atto di appello, chiedendone l’accoglimento.

Il Comune di Salerno, costituitosi in giudizio, ha dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso per revocazione, chiedendone il rigetto.

Ha resistito al gravame anche il Ministero delle Infrastrutture e trasporti.

5. Nell’imminenza dell’udienza di trattazione, i ricorrenti hanno illustrato le proprie difese, insistendo per l’accoglimento del ricorso per revocazione e per l’annullamento della sentenza di questa Sezione n. 5532 del 31 ottobre 2012 e conseguentemente per la riforma della sentenza del TAR per la Campania, sezione di Salerno, n. 31 del 15 gennaio 1997, e per l’accoglimento dei ricorsi di primo grado.

All’udienza pubblica dell’8 luglio 2014, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

6. Il ricorso per revocazione è inammissibile.

6.1. Per la pacifica giurisprudenza (del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione). l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi degli artt. 106 c.p.a e 395, n. 4, c.p.c., deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata o mancata percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (Cons. St., Ad. Plen., 17 maggio 2010, n. 2; sez. III, 23 giugno 2014, n. 3183; 7 aprile 2014, n. 1635; 1 ottobre 2012, n. 5162; 8 giugno 2012, n. 3392; 24 maggio 2012, n. 3053; 27 gennaio 2012, n. 197; sez. IV, 24 settembre 2013, n. 4712; 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607; 16 settembre 2008, n. 4361; 20 luglio 2007, n. 4097; e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814; 25 luglio 2003, n. 4246; 21 giugno 2001, n. 3327; 15 luglio 1999 n. 1243; sez. V, 30 agosto 2013, n. 4319; sez. VI, 5 marzo 2013, n. 1316; 9 febbraio 2009, n, 708; 17 dicembre 2008, n. 6279; C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530; Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962; 5 marzo 2012, n. 3379).

L’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. St., sez. IV, 13 dicembre 2013, n. 6006; sez. VI, 25 maggio 2012, n. 2781; 5 marzo 2012, n. 1235).

L’errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista o in un abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o dell’abbaglio dei sensi (Cons. St., sez. III, 1 ottobre 2012, n. 5162; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 1 dicembre 2010, n. 8385).

Pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell’errore di fatto di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, Cons. St., sez. III, 24 maggio 2012, n. 3053), esso non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un ipotetico errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento, Cons. St., sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5212; sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5187; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210; 18 ottobre 2012, n. 5353; 26 marzo 2012, n. 1725; sez. VI, C.d.S., sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 15 maggio 2012, n. 2781; 16 settembre 2011, n. 5162; Cass. Civ., sez. I, 23 gennaio 2012, n. 836; sez. II, 31 marzo 2011, n. 7488).

6.2. Sulla base di questi principi giurisprudenziali, deve rilevarsi che nel caso di specie non si rinvengono in alcun modo gli elementi tipici dell’errore di fatto che inficerebbe la sentenza impugnata e che legittimano la proposizione del ricorso per revocazione.

6.2.1. Deve innanzitutto osservarsi che, sebbene non possa astrattamente negarsi che anche la carente percezione del contenuto degli atti processuali possa costituire motivo di revocazione (Cons. St., sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4156), nel caso in esame costituisce un evidente frutto di un’attività valutativa ed interpretativa degli atti acquisiti nel corso del giudizio la statuizione del Consiglio di Stato secondo cui con l’atto di appello e con le memorie difensive erano state in realtà introdotte censure ulteriori rispetto a quelle formulate con gli atti introduttivi dei giudizi di primo grado.

Tale considerazione esclude in radice che si sia verificato il dedotto errore di fatto revocatorio, poiché in questa sede in sostanza è stato prospettato un errore di giudizio.

6.2.2. Sotto altro concorrente profilo deve anche negarsi che l’interpretazione operata dai giudici di appello dell’atto di gravame e delle relative memorie difensive proposte dagli appellanti (oggi ricorrenti) abbia effettivamente dato luogo alla dedotta omissione di pronuncia sulle censure formulate nei confronti dei provvedimenti impugnati con i ricorsi introduttivi dei giudizi in primo grado.

E’ decisivo in tal senso sottolineare che, come emerge dalla stessa lettura della sentenza revocanda, i giudici di appello, piuttosto che procedere ad una declaratoria di inammissibilità dell’appello a causa della novità delle censure formulate rispetto a quelle prospettate in primo grado, hanno preso “in esame direttamente i motivi degli originari ricorsi al T.a.r., secondo la tassonomia processuale illustrata al successivo punto”: in altri termini i giudici di appello, ancorché per asserite “ragioni di comodità espositiva”, interpretando l’atto di gravame come sostanzialmente rivolto a riproporre sostanzialmente tutte le censure che erano state sollevate in primo grado, hanno proceduto direttamente al loro esame, senza tener conto della decisione sulle stesse contenuta nella sentenza di primo grado.

A ciò consegue che, indipendentemente da ogni giudizio sulla opportunità di tale modus procedendi, non può tuttavia ragionevolmente dubitarsi che l’intera vicenda contenziosa, così come proposta con i tre ricorsi introduttivi del giudizio di primo grado, è stata completamente esaminata in grado di appello, il che esclude la sussistenza del denunciato vizio revocatorio, quest’ultimo non potendo ricollegarsi alle concrete modalità, ancorché non condivise, con cui ha esercitato il proprio potere giurisdizionale.

In altri termini, in linea di principio, per evidenti esigenze di economia processuale il Consiglio di Stato ben può riesaminare il ricorso di primo grado, e respingerlo tenendo conto delle statuizioni della sentenza del TAR e delle complessive deduzioni contenute nell’atto di appello, in quanto non è necessario che la sentenza di secondo grado individui meticolosamente quali censure siano state proposte per la prima volta.in sede di appello.

In tal caso, l’originario ricorrente si può dolere col ricorso per revocazione del mancato esame delle censure di primo grado per come riproposte in grado di appello, ma non si può lamentare del mancato esame di quanto per la prima volta sostenuto in appello.

Nella specie, con le loro articolate deduzioni i ricorrenti non hanno neppure sostenuto che non siano state esaminate censure di primo grado (neppure precisando quali non sarebbero state prese in considerazioni dal Consiglio di Stato), sicché risultano ad un tempo inammissibili e infondate le doglianze formulate in questa sede.

6.2.3. Diversamente da quanto prospettato dai ricorrente, non solo l’opzione interpretativa assunta dal Consiglio di Stato in ordine al contenuto dell’atto di appello e delle relative memorie illustrative non integra gli estremi dell’errore di fatto revocatorio, ma neppure può ragionevolmente ritenersi che i giudici di appello abbiano omesso di pronunciarsi su alcuni punti decisivi o fondamentali della questione controversa, avendola essi per contro riesaminata interamente e completamente, scrutinando direttamente i motivi di censura sollevati in primo grado.

In effetti le dedotte omissioni di pronuncia o i vizi asseritamente revocatori da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata (quali la pretesa mancanza di abusività delle opere realizzate, la asserita mancanza di vincoli in quell’area, la dedotta mancata valutazione di altri documenti ritualmente depositati in atti, la presunta mancanza della natura confessoria della domanda di condono, l’erronea applicazione al caso di specie dei consolidati indirizzi giurisprudenziali in tema di opere abusive e domande di condono o di sanatoria) piuttosto che errori di fatto si atteggiano come mero dissenso degli odierni ricorrenti alle concrete modalità con cui i giudici di appello hanno deciso l’appello, potendo eventualmente configurarsi solo come erroneo, incompleto o inesatto apprezzamento delle risultanze processuali che tuttavia, come tali, non legittimano la revocazione della sentenza, trattandosi di errori di valutazione o di giudizio.

Va affermato dunque il principio di diritto per il quale, qualora la sentenza del Consiglio di Stato abbia rilevato che l’atto d’appello conteneva profili di censura proposti per la prima volta, e perciò inammissibili, ed abbia riesaminato e respinto il ricorso di primo grado senza precisare in dettaglio quali pagine del gravame abbiano violato il principio dei nova in appello, non è configurabile un ‘mancato esame delle censure proposte in appello’ e dunque un errore di fatto revocatorio, poiché ciò che rileva è il compiuto esame in grado d’appello esclusivamente delle censure formulate in primo grado e riproposte in secondo grado con le corrispondenti censure alle statuizioni di reiezione del TAR.

7. Il ricorso per revocazione deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quinta – definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione n. 3401 del 2013 proposto dai signori Ga. ed altri (…), quali successori del sig. St.Sa. e della s.r.l. Idrocalce in liquidazione, nonché dalla s.r.l. S., avverso la sentenza n. 5553 del 31 ottobre 2012 del Consiglio di Stato, sez. V, lo dichiara inammissibile.

Condanna i ricorrenti, in solido tra di loro, al pagamento in favore delle amministrazioni costituite della somma complessiva di Euro. 10.000,00 (diecimila), di cui Euro. 8.000,00 (ottomila) in favore del Comune di Salerno ed Euro. 2.000,00 (duemila) in favore del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, oltre I.V.A., C.P.A. ed eventuali altri accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2014 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti – Presidente

Carlo Saltelli – Consigliere, Estensore

Manfredo Atzeni – Consigliere

Antonio Amicuzzi – Consigliere

Fulvio Rocco – Consigliere

Depositata in Segreteria il 29 ottobre 2014.

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