Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 15 novembre 2017, n. 5283. L’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso

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2.- Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con sentenza n. 8006 del 2016, rigettava il ricorso proposto dai ricorrenti.
Secondo i giudici di prime cure:
– gli interventi realizzati dai ricorrenti, quanto al manufatto in muratura, sono qualificabili in termini di ristrutturazione edilizia (nella cui nozione rientra anche la fattispecie della demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma), opere per le quali l’art. 22, del d.P.R. n. 380/2001, ammette il regime semplificato della S.C.I.A.;
– tuttavia, la dichiarazione di inizio di attività finalizzata alla demolizione e ricostruzione di fabbricato preesistente postula, come requisito di legittimazione alla sua presentazione, che il manufatto edilizio, oltre ad essere preesistente, non sia abusivo;
– sul punto, i ricorrenti non hanno offerto la prova del titolo abilitativo che aveva originariamente condotto alla realizzazione del manufatto, bensì si sono limitati ad asserirne la preesistenza al 1981 e al 1960, quando la normativa all’epoca vigente (regolamento edilizio comunale del Comune di Roma e legge n. 1150 del 1942) richiedeva comunque la licenza di costruzione;
– quanto alla seconda opera, emerge dalla documentazione versata in atti dalla difesa comunale che in luogo di uno stenditoio è stata realizzata una tettoia in legno destinata a consentire un godimento protetto di una diversa porzione del terrazzo di proprietà anche attraverso l’apposizione di arredi da esterno;
– tale struttura, in quanto stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non certo una esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo è assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente.
– l’ultimo motivo introdotto con i motivi aggiunti – con cui si censura il difetto di motivazione in ordine alla scelta operata da Roma Capitale di ingiungere, in luogo della sanzione pecuniaria, la più grave misura demolitoria – è anch’esso infondato, in quanto, non avendo la Soprintendenza per i Beni Architettonici e del Paesaggio del Comune di Roma ritenuto di esprimere il richiesto parere, si è nuovamente espansa la competenza dell’Autorità comunale che, lungi dal dovere esprimere una valutazione riservata ad altra Amministrazione, ha legittimamente applicato la disposizione che prevede che in presenza di illeciti edilizi quali quelli contestati, la misura della demolizione.
3.- Avverso tale decisione hanno proposto appello, chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, l’accoglimento dei ricorsi proposti in primo grado.
4.- Roma Capitale si è costituita nel presente secondo grado di giudizio, chiedendo che l’appello principale venga dichiarato inammissibile o comunque infondato.
Secondo l’Amministrazione comunale: – la produzione documentale depositata dai ricorrenti solo nel presente giudizio di appello, sarebbe inammissibile stante il divieto recato dall’art. 104, comma 2, c.p.a.; – la produzione documentale non sarebbe comunque idonea a dimostrare la legittimità dei manufatti edilizi sanzionati, in quanto le aerofotogrammetrie prodotte non riuscirebbero in alcun modo a dimostrare l’entità e la dimensione dei manufatti in parola; – ove anche fosse stata dimostrata dai ricorrenti la preesistenza dei manufatti al 1942, tale circostanza non varrebbe a rendere legittima la realizzazione degli stessi, dal momento che anche prima del 1942 era necessario il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per l’esercizio dello jus aedificandi (ai sensi dell’art. 1 del Regolamento Edilizio del Comune di Roma, vigente sin dal 1934, che prescriveva il necessario rilascio di un’autorizzazione sindacale).
5.- La Sezione, con ordinanza del 17 febbraio 2017, n. 732 – “rilevato: che la presente controversia necessita di approfondimenti istruttori incompatibili con il carattere sommario tipico della presente fase cautelare; – che, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, sia prevalente l’interesse dell’appellante ad evitare, nelle more della fase di merito, la demolizione delle opere compiute; che sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite della presente fase cautelare, atteso che l’accoglimento dell’istanza di sospensione è motivata soltanto sotto il profilo del periculum in mora”; – ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata.
6.- All’udienza del giorno 19 ottobre 2017, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.- L’appello è fondato
1.1.- Oggetto di impugnazione sono i provvedimenti con cui Roma Capitale ha ordinato la demolizione di alcuni interventi di ristrutturazione edilizia realizzati dagli appellanti sull’immobile di loro proprietà, consistenti nella demolizione e ricostruzione di: a) un manufatto in muratura e tetto in struttura lignea, di dimensioni nette di metri 3.00 x 2,70, con altezza variabile da metri 2,50 a 2,75 circa; b) uno stenditoio, tamponato perimetralmente, in difformità a quello contemplato nella D.I.A. del 25 maggio 2006, prot. 30343, di dimensioni 2,05 x 6,40 metri, con altezza variabile da metri 2,85 a 3,00 circa.
2.- Costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi – i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni – trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione. Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
2.1.- Ebbene, a parere del Collegio, gli appellanti hanno fornito elementi di documentazione idonei a comprovare che il manufatto in muratura originario risale intorno agli anni trenta del secolo scorso, di talché non si rendeva necessario richiedere il permesso di costruire in occasione della demolizione e fedele ricostruzione dello stesso manufatto sul terrazzo di proprietà degli odierni appellanti.
In particolare, che la costruzione in esame debba collocarsi in epoca antecedente all’introduzione di regimi autorizzatori per le attività edilizie, è suffragato, sia dai rilievi aerografici del 1960 e del 9.9.1981, sia da due aerofotogrammetrie del 1934 (cfr. in atti la n. 138 e la n. 15) fornite dalla S.A.R.A. Nistri S.r.l., in cui il locale è distinguibile. Gli appellanti hanno depositato (in data 6 settembre 2017) una perizia esplicativa delle suddette foto, la quale evidenzia come l’ingombro visibile sul terrazzo, avuto riguardo alla sua collocazione (il volume coperto è quello dotato di prospetto chiuso su via (omissis)) e alla superficie coperta (m 3,00 x m 2,70), coincide con quella del “manufatto” descritto nel procedimento in contestazione. La documentazione fotografica trova poi un ulteriore elemento di riscontro nei verbali di sommarie informazioni testimoniali assunte davanti al giudice penale ex art. 391-ter c.p.p.

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