Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 4 dicembre 2017, n. 5675. Il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento

[….segue pagina antecedente]

5. Costituitisi in giudizio, gli originari ricorrenti invocano la conferma della pronuncia di prime cure, evidenziando come in nessun caso la base di calcolo autorizzata per la quantificazione possa non essere la superficie esistente, ma quella virtuale dell’edificio autorizzato e non realizzato. Quanto, invece, alla censura inerente la non rilevata tardività del ricorso di prime cure gli appellati evidenziano che la stessa sarebbe infondata, atteso che i lavori propedeutici allo scavo sarebbero iniziati nel marzo del 2015, nel maggio 2015 sarebbero stati completati, mentre nel mese di giugno 2015 sarebbero stati effettuati i lavori di fondazione, il 28 luglio 2015 sarebbe stato realizzato il solaio del piano terra ed alla data del 22 settembre 2015 sarebbe stata iniziata la realizzazione del terzo livello, mentre il ricorso sarebbe stato notificato il 27 ottobre 2015. Né la prova della tardività potrebbe desumersi dalla ricezione da parte dell’Architetto Gi. La. di alcuni elaborati grafici del progetto approvato, dal momento che il professionista incaricato dall’appellante risulterebbe da cartello del cantiere l’Ing. An. La., né risulterebbe in qualche modo provato che si trattasse degli elaborati grafici definitivi. Né potrebbe concludersi diversamente sulla scorta della circostanza dell’invio nel 2013 di elaborati progettuali da parte dell’Architetto Gi. La., posto che medio tempore la proprietà dei suoli sarebbe stata acquistata dall’odierna appellante ed il professionista incaricato sarebbe stato individuato nell’Ing. An. La.. Né, infine, la lesività del permesso di costruire del 2014 sarebbe desumibile dalla descrizione contenuta nel cartello di cantiere o dal cartello pubblicitario. In ogni caso la detta censura sarebbe inammissibile per difetto di interesse, avendo il TAR accolto anche la domanda di risarcimento in forma specifica.
6. Nelle successive difese gli appellati evidenziano come la sentenza della Corte costituzionale, n. 73/2017, abbia dichiarato incostituzionale l’art. 42, l.r. Basilicata, n. 5/2016, in quanto norma innovativa e non interpretativa, e ciò confermerebbe che l’aumento di volumetria in questione varrebbe solo per gli edifici esistenti e non anche per quelli da realizzare.
6.1. Dal canto suo l’appellante nel reiterare le proprie argomentazioni pone in luce come tutta la disciplina regionale intervenuta sul tema, da ultimo anche l’art. 9, l. n. 19/2017, che non sarebbe stato oggetto della questione di costituzionalità oggetto del ricorso per questione di costituzionalità proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e depositato in data 29 settembre 2017, abbia sempre inteso concedere i benefici del piano casa non solo agli edifici esistenti, ma anche a quelli solo autorizzati con permesso in corso di validità. Inoltre, sarebbe irrilevante la richiamata pronuncia di incostituzionalità dell’art. 42, l.r. Basilicata, n. 5/2016, atteso che le legittimità del permesso del 2014 sarebbe da valutarsi in base all’art. 66 l.r. Basilicata, n. 26/2014, non inciso dalla sentenza n. 73/2017 della Corte costituzionale.
7. Alla pubblica udienza del 30 novembre 2017 la causa è stata trattenuta in decisione.
8. L’appello è fondato e deve essere accolto.
8.1. Assume rilievo pregiudiziale (in ordine logico secondo le coordinate ermeneutiche stabilite dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), l’esame del quinto motivo di appello, con il quale si contesta la sentenza del TAR nella parte in cui ha disatteso l’eccezione di irricevibilità del ricorso è fondato e deve essere accolto.
Occorre, innanzitutto, chiarire, che il termine per proporre l’azione di annullamento è quello ordinario di sessanta giorni, non potendo valere il diverso termine previsto per l’azione risarcitoria. Infatti, la circostanza che gli originari ricorrenti abbiano avanzato domanda di risarcimento in forma specifica, unitamente a quella caducatoria, non consente ai primi di godere di un doppio regime temporale per avanzare le loro pretese e quindi, di poter invocare il più ampio termine previsto per la domanda di risarcimento in forma specifica, laddove risulti inutilmente decorso quello per la domanda di annullamento. La possibilità, infatti, di ottenere tramite la domanda di risarcimento in forma specifica la stessa utilità, oggetto della domanda caducatoria, comporterebbe l’elusione costante del termine decadenziale previsto per la proposizione di quest’ultima attraverso un meccanismo, che finirebbe per comportare una disapplicazione non ammissibile della detta disciplina.
Quanto, invece, al concetto stesso di “piena conoscenza” (ed alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare quanto la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di osservare (tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 6 ottobre 2015 n. 6242; 28 maggio 2012 n. 3159).
La “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
La previsione dell’istituto dei “motivi aggiunti” – per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta – comprova la fondatezza dell’interpretazione resa in ordine al significato della “piena conoscenza”.
Ed infatti, se quest’ultima dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe una pratica ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale.

[…segue pagina successiva]

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *