Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 13 novembre 2017, n. 5190. Il divieto di proporre motivi nuovi in appello non è applicabile anche all’amministrazione resistente in primo grado

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2. Seguendo la tassonomia propria delle questioni (secondo le coordinate ermeneutiche dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), in ordine logico è prioritaria la disamina della eccezione di inammissibilità sollevata nei confronti dell’appello proposto dalla regione Campania.
2.1. Ritiene il Collegio che essa non meriti positiva valutazione e che l’appello sia integralmente ammissibile in quanto (contrariamente a quanto sostenuto dall’appellata amministrazione comunale di (omissis) nella propria memoria depositata in data 20.1.2017):
a) il costante orientamento della giurisprudenza, dal quale il Collegio non ha intenzione di discostarsi prevede che “il divieto di proporre motivi nuovi in appello non è applicabile anche all’amministrazione resistente in primo grado, la quale può impugnare la decisione del primo giudice per tutti i motivi che reputi idonei a rinnovarla.” (ex aliis Consiglio Stato, sez. V, 21 luglio 1990, n. 602, Consiglio Stato, sez. VI, 11 gennaio 1990, n. 67): la circostanza che in primo grado la regione non avesse eccepito la perentorietà del termine di trasmissione della nota comunale ai sensi della delibera n. 384 del 31.7.2012 è pertanto irrilevante (in disparte la circostanza che la sentenza di primo grado si è comunque espressamente soffermata sul punto) tenendo presente il costante orientamento della giurisprudenza secondo cui il divieto dei nova in appello, ex art. 104, co.1, c.p.a. concerne le eccezioni in senso stretto e non le mere difese (cfr. da ultimo sez. IV, 3 aprile 2017, n. 1505);
b) la difesa della Regione aveva prospettato sin dal giudizio di primo grado l’eccezione di non esaminabilità della documentazione prodotta dal comune di (omissis), in quanto stata spedita tardivamente dal comune originario ricorrente.
2.2. Si osserva infine che il perimetro dell’oggetto della controversia è delimitato unicamente dai motivi di appello proposti dalla regione Campania in quanto non è stato riproposto dalla parte appellata alcun motivo assorbito (ar. 101 del c.p.a.)
3. Venendo adesso all’esame delle censure articolate dall’appellante amministrazione regionale si osserva che:
a) costituisce principio generale del diritto, di cui le previsioni dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 risultano essere una conferma a livello di normazione primaria, quello secondo cui i termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge (così, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 4150 del 2013; TAR Puglia, Bari, sez. III, sent. n. 1871 del 2010; Cons. Stato, sez. IV, dec. n. 2110 del 2009) e che l’intenzione del legislatore non si ricava sempre e necessariamente dall’esplicita disposizione in tal senso, potendo la natura perentoria essere desunta anche implicitamente dalla ratio legis e dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a soddisfare (tra le tante, Consiglio di Stato, sez. VI, 14/01/2009, n. 140);
b) la dizione della delibera n. 384 del 31.7.2012 secondo cui l’incombente sotteso all’invio della nota da parte del Comune avrebbe dovuto essere espletato “entro e non oltre” il termine del 31 marzo 2014 (così testualmente: “I Comuni, in possesso di analisi merceologiche eventualmente effettuate sul proprio multimateriale prodotto, potranno presentare all’ORR, entro e non oltre il 31 marzo, una istanza corredata da adeguata documentazione tecnica finalizzata all’applicazione di una percentuale di scarto inferiore”.”) e la ratio ad esso sottesa (la Regione avrebbe dovuto elaborare una molteplicità di complessi dati) depongono in senso univoco, per la perentorietà del detto termine;
c) la giurisprudenza citata dal comune appellato è condivisibile, ma non in linea con le circostanze di fatto: è ben vero che un termine va considerato ordinatorio, se non è stato espressamente considerato come perentorio: ma è altresì evidente che per ritenere che esso sia perentorio non v’è necessità che la legge o la fonte secondaria utilizzi formule sacramentali, o preveda espressamente la “sanzione” per l’omesso rispetto del medesimo (Cons. Stato sez. VI, 27 febbraio 2012, n. 1084, id., 2 febbraio 2012, n. 582): nel caso di specie non si vede quale altro significato potesse attribuirsi alla espressione “entro e non oltre” contenuta nell’atto regolamentare: e che la conseguenza sia quella della non esaminabilità della documentazione trasmessa in ritardo, si evince con chiarezza dal tenore della indicata delibera.
3.1. Così smentito il primo caposaldo demolitorio del T.a.r. occorre chiedersi se il Comune avesse rispettato effettivamente detto termine – o meno-; rileva il Collegio che anche sotto tale profilo la risposta positiva fornita dalla impugnata sentenza al detto quesito non appare condivisibile, in quanto:
a) il comune aveva spedito l’istanza/nota (prot. 4216 dell’1 aprile 2014) in data 2 aprile 2014;
b) contrariamente a quanto ritenuto dal T.a.r. il 31.3.2014 non cadeva di domenica, ma di lunedì, per cui detto termine non poteva essere prorogato al primo giorno successivo, non festivo.
3.2. Accertato pertanto che il termine era perentorio, e che esso (seppur con uno sforamento modesto) non venne rispettato dal Comune odierno appellato, “cade” anche il terzo presupposto dell’iter demolitorio seguito dal T.a.r.: non si vede infatti per quale motivo, a fronte della omessa osservanza di un termine perentorio, la regione procedente avrebbe comunque dovuto porre a base delle proprie determinazioni la suindicata nota.
3.3. Non è conseguentemente possibile ritenere sussistente il vizio di carente ponderazione ed istruttoria e correttamente la regione non tenne conto della documentazione inviata dal comune.
4. Quanto rilevato spiega portata assorbente e -come prima chiarito- esaurisce il thema decidendi, senza che sia necessario soffermarsi sugli ulteriori argomenti prospettati dall’appellante regione in ordine alla non “affidabilità” della documentazione prodotta dal comune e pertanto l’appello deve essere accolto, con consequenziale riforma dell’impugnata decisione, reiezione del ricorso di primo grado, e salvezza degli atti impugnati.
5. Conclusivamente l’appello va accolto, ed in riforma dell’impugnata sentenza deve essere integralmente respinto il ricorso di primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
6. Quanto alle spese processuali del doppio grado, esse seguono la soccombenza, e pertanto l’appellato comune deve essere condannato al pagamento delle medesime in favore dell’appellata regione, nella misura che appare equo determinare in Euro tremila (E. 3000//00) oltre oneri accessori, se dovuti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza respinge il ricorso di primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
Condanna l’appellato comune al pagamento delle spese processuali del doppio grado, in favore dell’appellata regione, nella misura di Euro tremila (E. 3000//00) oltre oneri accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2017 con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi – Presidente
Fabio Taormina – Consigliere, Estensore
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Leonardo Spagnoletti – Consigliere
Luca Lamberti – Consigliere

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